Rota Casella Pizzetti STRADIVARIUS STR 33312

Alfredo Casella (1883 -1947)

Serenata per clarinetto, fagotto, tromba, violino e violoncello

“Verso la metà di novembre ( 1927), ritrovai per caso nel caos di carte che giace regolarmente sul mio tavolo, il bando di concorso indetto dalla Musical Found Society di Filadelfia per una composizione cameristica da tre a sei strumenti a forma libera, per il quale erano stati stanziati 10.000 dollari di premio, vale a dire la maggiore somma che fosse mai stata messa a concorso per un lavoro da camera”. Così Casella rievoca ne “I segreti della giara” (Firenze, 1941, p.238) le circostanze che lo portarono alla composizione della Serenata realizzata in sei settimane e fatta pervenire appena in tempo alla giuria grazie ad un provvidenziale viaggio in America di Bernardino Molinari, che nel 1919 aveva diretto a Roma la prima di Pagine di guerra nella versione originale per orchestra. E sempre per caso l’anno dopo Casella veniva a sapere dell'esito del concorso: “Una mattina ... di ottobre aprendo il Messaggero, lessi che il primo premio ... era stato diviso tra me e Bartók (Quartetto per archi n. 3) ... La relazione della giuria era oltremodo lusinghiera per me e dichiarava la Serenata un autentico modello di stile puramente italiano, sia per la forma, sia per lo spirito, sia infine per la caratteristica continua melodiosità del discorso musicale. Più tardi trascrissi il lavoro per piccola orchestra (senza il Minuetto), ma continuo a preferire la prima versione per la sua maggiore trasparenza e per la sua originalità sonora”. La considerazione nella quale, come si è visto, lo stesso autore teneva la Serenata appare oggi più che giustificata, dal momento che essa appartiene al periodo più interessante dell’attività di Casella, quello che Mila definisce della “chiarificazione stilistica” succeduta all’esasperazione armonica e culminata nel poema pianistico A notte alta (1917). Ad esso appartengono capolavori quali La giara (1924), Scarlattiana (1926), per arrivare sino alla Sinfonia op. 63 del 1940, ed oltre. Articolata informa di suite in sei movimenti, la Serenata è la prova più alta del neoclassicismo caselliano, così sicuro di sé da poter assorbire certi elementi ritmico-melodici di sapore folcloristico che in altri casi erano sembrati estranei al discorso (si pensi alla presenza forzata del motivo di Funiculì-Funiculà nella rapsodia orchestrale Italia del 1909). Dopo la Marcia iniziale tripartita - la sezione centrale in mi minore ha un sapore così buffo da sembrare tragico - e il successivo Minuetto quasi marionettistico, ecco nello splendido Notturno centrale comparire per la prima volta l'eco di un motivo napoletano perfettamente inserito nella trama sonora, che da quello trae linfa ritmica. All’andamento spensierato della Gavotta affidato soprattutto al fagotto, si contrappone il canto dolente del violino nella Cavatina. Chiude la Serenata la tarantella del Finale, che non ha nulla da invidiare a quella impiegata sette anni prima da Stravinsky in Pulcinella, per la perfezione con cui i frammenti ritmico-melodici affidati ai singoli strumenti si incastrano tra loro.


Ildebrando Pizzetti (1880 -1968)

Trio in la maggiore per violino, violoncello e pianoforte

>Tra la fine del 1924 e l'inizio del 1925 Pizzetti riceveva la commissione per la composizione di una pagina cameristica da eseguirsi a Parigi nell'ambito di un concerto di musiche inedite voluto e sponsorizzato dalla mecenate e musicista dilettante americana Elizabeth Spargue Coolridge. A quel tempo il suo nome era legato non solo al successo di alcuni lavori teatrali nati in collaborazione con D'Annunzio - da >Fedra del 1915 a Dèbora e Jaéle del 1922 - ma anche alla fama di saggista e polemista che si era guadagnato nel corso del soggiorno fiorentino tra il 1917 e il 1924, quando, oltre ad insegnare Contrappunto e Armonia all'Istituto Musicale Cherubini, egli aveva partecipato con personaggi quali Soffici, Prezzolini, Papini, Bastianelli, all’acceso dibattito culturale sviluppatosi sulle colonne di riviste prestigiose come “La Voce”. Non solo, ma per dare, in quel contesto, più consistenza alla presenza della musica, Pizzetti aveva fondato con Consolo la “Società degli Amici della Musica”, e con Bastianelli il periodico “Dissonanza”. Uno degli argomenti in discussione era il confronto da un lato con le nuove esperienze musicali provenienti da Parigi e Vienna (tra il 1923 e il 1925 si collocano le prime composizioni dodecafoniche di Schoenberg), dall'altro con la tradizione strumentale italiana rinascimentale e barocca già oggetto di studio da parte di studiosi come Fausto Torrefranca, anche lui attivo a Firenze in quegli anni; e il contributo di Pizzetti a quest'ultimo aspetto della disputa traeva forza dagli studi sul gregoriano e sulla musica del XV e XVI secolo impostigli da Giovanni Tebaldini quand’era studente al Conservatorio di Parma. Alla luce di tutto questo il >Trio - eseguito per la prima volta il 23 maggio del 1925 a Parigi, con George Enesco al violino, Hans Kindler al violoncello e lo stesso autore al pianoforte - racchiude in sé tutta un’epoca della musica Italiana del ‘900, quando molti compositori, con Pizzetti primo tra tutti, cercarono di porre rimedio a quello che essi sentivano come un divario abissale tra musica e cultura musicale, intesa quest’ultima come recupero del grande patrimonio strumentale Italiano (imputato primo di questo abissso era naturalmente il melodramma ottocentesco). Nel primo tempo del Trio, marcato Mosso e Arioso, dopo l’accordo iniziale che fissa senza equivoci il la maggiore d'impianto, il discorso armonico non conosce sorprese né arditezze di sorta, così come il pianoforte non viene mai meno al ruolo di sostegno dal lontano sapore modale; solo qui e là esso si inserisce nel gioco imitativo dei due archi, condotto con grande sapienza timbrica. Anche dal successivo Largo, molto breve, si levano sonorità arcane - il richiamo (non di più) immediato è all'inizio de La Cathédrale engloutie di Debussy (dai Préludes I, 1919) - dovute nella parte pianistica al procedere iniziale per organum al basso, sul quale il violoncello si apre uno spazio di grande respiro, che non si assottiglia per tutta la durata del tempo. La Rapsodia di Settembre conclusiva non ci sembra alla altezza dei tempi precedenti, perché ha in sé qualcosa di faticoso, di studiato a tavolino; e sembra dare ragione, almeno qui, a Bastianelli che una volta definì “dilettantesco e cerebralistico” l'atteggiamento di Pizzetti nei confronti del passato quattro-cinquecentesco.


Nino Rota (1911 -1979)

Trio per flauto, violino e pianoforte

“La musica di Nino è una musica senza virgolette e, perciò, tale da poter restituire i sentimenti grandi e piccoli nella loro immediatezza, nella loro spontaneità. E’ questo il suo pregio specifico, il suo messaggio. E’ un grande messaggio? Non lo so. Forse è un piccolo messaggio. Ma è un messaggio vero.” Riletto oggi, questo giudizio di Fedele D'Amico - pronunciato in occasione dell'inaugurazione di un “Omaggio a Rota” organizzato nell'estate 1981 dal Comune di Pistoia - non ha perso nulla del proprio valore; anzi, alla luce di certe scelte estetiche e di linguaggio, compiute dalla generazione dei cosiddetti “neoromantici, esso sembra assegnare a quella musica un ruolo quasi profetico. Composto nel 1958, il Trio segue di un anno la Terza Sonata di Boulez, è contemporaneo al Canto sospeso di Nono e a Continuo di Maderna, cade cronologicamente nel mezzo del progetto Gruppen di Stockhausen; come dire che Rota, lungi dallo stabilire un qualche nesso con quanto gli accadeva attorno, guardava invece avanti, verso la musica dei compositori ancora da venire, di quelli nati dopo il 1945 che, tra gli anni '70 e '80, ne avrebbero raccolto la provocazione per ribellarsi al cerebralismo di quei “padri”. Una simile lettura della figura di Rota farebbe però torto al personaggio, alieno per natura da qualsiasi ambizione di protagonismo, ed al compositore, che non a caso ha dato il meglio di sé nella musica da film, ovvero in un prodotto il cui valore artistico consiste proprio nel non averne uno suo. E un implicito rimandare ad altro vale anche per la produzione cameristica nella quale rientra questo Trio - una delle ultime pagine rotiane in questo campo -composto per il trio Klemm- Cervera-Wolfensberger all’indomani dei grandi successi de Il cappello di paglia di Firenze (Palermo, 1955) e della colonna sonora per Le notti di Cabiria di Fellini (1957). Qui più che mai emerge l'intento di Rota di comunicare all'ascoltatore il proprio piacere di fare musica attraverso artifici artigianali impiegati senza pretese. L'Allegro non troppo iniziale è affidato in gran parte ad un ostinato ritmico del pianoforte sul quale flauto e violino si rimandano, come in un gioco, echi e frammenti di una figura melodica molto elementare; l’Andante sostenuto centrale in 3/4 è come una parentesi sognante nella quale quella figura acquista tutt’altro sapore, senza nulla perdere della propria identità. Nell’Allegro vivace con spirito dell’ultimo tempo è ancora il ritmo a riempire lo spazio sonoro, ossessivamente imposto dal pianoforte ed a stento occupato dal violino e dal flauto, nel quale non c’è spazio né per uno squarcio melodico né per una qualche pretesa armonica: solo nel finale i tre strumenti si ritrovano, simili a marionette che dopo essersi inseguite per il divertimento del pubblico si presentano insieme per il congedo sulla piccola ribalta di un teatrino di periferia.

Ettore Napoli