BRUNO MADERNA

Cinque opere di Bruno Maderna: 1948-1971

La guerra è da poco finita. Ventottenne - con ‘tanta’ biografia alle spalle e un incerto futuro da compositore davanti a sé - Bruno Maderna deve uscire subito dal capitolo della propria formazione musicale, se vuole iscriversi nella contemporaneità, se vuole partecipare - come sente - della difficile opera di ricostruzione della comunità musicale internazionale. Nel corso di due anni, tra il 1947 e il 1949 - scrive e ‘riscrive’ le sue ‘opere prime’ anche per proiettare teleologicamente nel futuro una teoria valida sulle proprie origini di compositore. Deve fare delle scelte urgenti e necessarie.

Il campo si stringe essenzialmente intorno a due opere, agili quanto impegnative, legatissime tra loro se non altro perché entrambe sfruttano le risorse - enormi, ma ‘economiche’ - di un organico molto novecentista, di cui il fulcro sono i due pianoforti.

Il Concerto per due pianoforti e strumenti e la Fantasia per due pianoforti - sono state spesso in passato oggetto di confusione, sia tra loro, sia per l'esatta dizione delle loro stesse singole intitolazioni.

La genesi del Concerto è in realtà molto più travagliata di quella della Fantasia. Per una prima citazione dell'opera bisogna risalire ad una lettera di Luigi Dallapiccola (11 dicembre 1947) a cui Maderna ha inviato il primo Tempo per un parere, un consiglio da maestro, quale lo ha eletto. Maderna arriva a Dallapiccola grazie a Gian Francesco Malipiero che in questo periodo si è preso a cuore le sorti del suo talento, ma non gli fa scuola nel senso ‘classico’ della parola. Maderna ha preso spontaneamente una via, un ‘orientamento’ (come dice Dallapiccola) diverso da Malipiero, tende già all'applicazione del metodo di composizione con i dodici suoni, benché, anche su questa strada, si porti dietro altre influenze ch'egli sente, per altro, molto forti: Stravinsky, Bartók, ma poi anche Debussy e Ravel. Costoro fanno da modello, più che i ‘viennesi’, almeno in questo periodo.

Dallapiccola ha richiamato Maderna al rigore della costruzione musicale, a rimeditare un atteggiamento oggettivo nei confronti del ‘comporre’, a volgere il suo lavoro a Bach e alle tecniche contrappuntistiche. Del Concerto ha dato un giudizio positivo, ma ha aggiunto una nota critica alle troppe influenze che Maderna accoglie dai suoi maestri, veri o ideali che siano. Inoltre, gli ha espresso un dubbio sulla forma dell'opera che gli appare già conclusa in un tempo solo (con quattro cambi di agogica), cosa potrebbero mai aggiungervi di essenziale gli altri due che Maderna vorrebbe accorparvi?

Quando il Concerto per due pianoforti e strumenti viene eseguito per la prima volta a Venezia al Festival Internazionale di Musica Contemporanea del 1948 (11 settembre) è un'ampia composizione in tre tempi che sfiora la mezz'ora di durata. Il titolo, ancora, è diverso, più generico e un po' goffamente improvvisato: Concerto per due pianoforti, due arpe e batteria. Gli interpreti sono due pianisti molto amici di Maderna - Gino Gorini e Sergio Lorenzi - il direttore è Ettore Gracis. A Gino Gorini tocca di conservare il testo di quella prima esecuzione.

Il compositore è andato dunque avanti per la sua strada, nonostante i consigli di Dallapiccola e al primo Tempo ne ha aggiunti altri due. Il tutto appare configurato nel seguente schema tripartito:

I: Allegro moderato, ma energico; Poco meno; Vivace; Tempo (presto).
II: Grave; Andante calmo.
III: Lo stesso tempo; Andante maestoso.

Nel 1949, una seconda esecuzione dell'opera avviene a Palermo (Taormina), dove il compositore stesso lo dirige il 30 settembre. Qui il titolo è quello che si conosce (Concerto per due pianoforti e strumenti), ma l'opera è la stessa già presentata a Venezia l'anno prima.

Frattanto a Palermo, grazie a Dallapiccola, grazie al compositore bavarese Karl Amadeus Hartmann, si prospetta una terza, delicatissima, ripresa del Concerto, a Darmstadt nell'ambito dei concerti che incorniciano l'attività dei Ferienkurse. Cominciano le trattative epistolari con Wolfgang Steinecke. Viene inviata a Darmstadt una partitura, poi una seconda su cui Maderna ha effettuato tre tagli, distribuiti tra il secondo Tempo (due nel Grave) e il terzo Tempo (uno ne' Lo stesso tempo (Andante)). Il secondo Tempo così si assottiglia, resta come una reminiscenza sospesa che introduce il grande crescendo dell'ultimo Allegro (di cui preannuncia il gesto conclusivo). Un'isola lirica su cui piovono, però, momenti di inaudita violenza.

Il Concerto non viene poi eseguito a Darmstadt per ragioni eminentemente pratiche: l'organico delle percussioni, la necessità di riprendere le parti modificate con i tagli in gran fretta e senza la presenza dell'autore. La scelta viene pertanto a cadere sulla Fantasia per due pianoforti, un'opera che Maderna ha scritto a Venezia prima del 30 settembre 1949 (data in cui compare citata nell'elenco delle composizioni dell'autore nel programma di sala approntato per Palermo) e che non presenta problemi di sorta.

La peripezia del Concerto per due pianoforti e strumenti, in cui si innesta, come è evidente, anche quella della Fantasia per due pianoforti non si esaurisce però qui. Esso viene ulteriormente rielaborato a ridosso delle vicende del 1949. Maderna vi elimina del tutto i primi due Tempi e aggiunge, prima del terzo, una sorta di ‘introduzione’ nuova, efficacissima, di 29 battute che si sviluppa sulla graduale apparizione delle quattro note le cui sigle compongono Il nome di Bach (La - Si bemolle - Si naturale - Do). Si tratta di interventi molto radicali che riducono la durata dell'opera dalla mezz'ora circa originaria a una decina di minuti in tutto.

Tra il 1949 e il 1955 il Concerto per due pianoforti in questa definitiva veste - che sembra rivalutare le ‘vecchie’ osservazioni di Dallapiccola, benché rovesciandole (si salva solo il terzo Tempo, non il primo conosciuto e giudicato dal ‘maestro’) - viene eseguito diverse altre volte e già nel 1949 Maderna ne ha consegnato all'editore Suvini-Zerboni un manoscritto frettolosamente arrangiato. Per redigerlo si è servito in gran parte di una partitura della versione veneziana del 1948, senza preoccuparsi di nascondere le ‘cicatrici’.

Nel 1955 l'editore riceve ancora un ultimo, ripulito e accuratissimo, esemplare della partitura: Maderna stende un velo su tutta la peripezia di quest'opera datandolo “1948”. Retrospettivamente dei suoi ‘maestri’, Maderna ha salvato solo Bartók, mentre la nuova ‘introduzione’ di 29 battute vuol essere un marchio più visibile della propria personalità.

Le differenze tra le diverse versioni del Concerto per due pianoforti e strumenti, al di là di ogni considerazione di ordine estetico, sono tali da indurci a considerarle due opere diverse, benché frutto di un'unica vicenda compositiva. Il Concerto in tre Tempi - la cui intitolazione originaria era Concerto per due pianoforti, due arpe e batteria - per quanto ci appaia come uno ‘zibaldone’, nel senso più alto, poetico, del termine, è una partitura magistrale quanto al mestiere, alla sensibilità musicale ‘artigianale’ dell'autore; non possediamo abbozzi che diano conto della predeterminazione del materiale compositivo. Forse non sono mai esistiti. Maderna infatti sprofonda il proprio lavoro in una sfera di attenzione, per certi versi empirica, all’ ‘oggetto sonoro’, sperimenta cioè, più che le valenze delle tecniche, gli effetti delle tecniche. Senza alcun ritegno ideologico, servendosi di una notazione ancora del tutto convenzionale. Per tutto ciò, il Concerto resta fortemente connotato, soprattutto nei dettagli (cioè nel singoli episodi) dalla ‘mano’ dell'autore - una ‘mano’ intuitiva del proprio futuro - che reagisce a contatto diretto con la materia da cui l'opera trae la sua forma, liberamente senza porsi al servizio della ‘consequenzialità’ del progetto. Certo la matassa stilistica è molto ingarbugliata: Stravinsky, la dodecafonia nel primo Tempo; un’aura di neoclassicismo, perfino un po’ raveliana, avvolge il secondo; le tecniche di composizione microcanonica e Bartòk sono l'oggetto di ricerca del terzo. Ma, in quest'ultimo (come emerge da una recente analisi pubblicata dal compositore Stefano Bellon) Maderna si spinge anche oltre; sperimenta lo permutazione e mette in pratica già a fuoco lo tecnica della variazione analogica dei motivi cambiandoli in figure. Attraverso la creazione di un paradigma strutturale di formazioni sostitutive suono-silenzio (note-pause) rende irriconoscibile il ricorso motivico senza tuttavia interrompere la continuità, la grande campitura del Crescendo che regola questa parte dell'opera. E cioè così salva la percezione del ‘respiro’ (l'unità, la coerenza, la proiezione) del proprio discorso ed evita, nel contempo, di ricadere nel sillogismo, nella grammaticalità, degli sviluppi tematici.

Il recupero della prima versione del Concerto per due pianoforti e strumenti è frutto di una recente indagine filologica che non può essere descritta in poche righe. Essa ha portato infine all'edizione critica del testo, o meglio dei testi, dato che si prospettano all'interprete diverse possibilità: (1) la versione in tre Tempi come a Venezia e a Palermo nel 1948-49; (2) quella ‘scorciata’ per Darmstadt nel 1949, ma sempre in tre Tempi (quella inedita prescelta per la presente registrazione); (3) l'ultima, preparata da Maderna per l'edizione Suvini-Zerboni del 1949 (poi 1955) in un unico Tempo preceduto dall' Introduzione. Quest'ultima è senz'altro un capolavoro, un punto di riferimento, un arrivo imprescindibile. Ma l'interesse delle altre due non è indifferente (soprattutto se coadiuvato dall'ascolto dell'ultima già disponibile in diverse edizioni discografiche), per un approccio conoscitivo più profondo al pensiero musicale maderniano nel suo farsi e disfarsi per divenire, sempre precariamente, ‘opera’ o essere sempre, come è stato detto, ‘opera aperta e molteplice’

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La Fantasia per due pianoforti è stata, come ormai si sa, la prima opera di Maderna a essere eseguita a Darmstadt nel 1949 con il titolo di BACH Variationen. Della partitura esiste un solo testimone autografo (edito a cura di Susanna Pasticci), e moltissime scritture preparatorie. Alla prima esecuzione gli interpreti sono stati Carl Seeman e Peter Stadlen; oltre a questa esecuzione pare ve ne sia stata solo un'altra nel 1952 a Düsseldorf.

Formalmente lo Fantasia si sviluppa in un solo lungo movimento senza soluzione di continuità. Al centro del pezzo sta una grande Fuga preceduta e seguita da sezioni a carattere formale più libero. La conclusione avviene su una citazione della melodia del corale di Bach Vor deinen Thron tret’ich hiermit, che, secondo una leggendaria tradizione biografica, sarebbe stata raccolta al capezzale del compositore morente. Il riferimento a Bach si connota, quindi, su due piani distinti, ma ugualmente simbolici: nell'uno si significa il programma di attuazione delle tecniche contrappuntistiche, nell'altro un principio di Poetica per certi aspetti ‘romantica’ che ci richiama alla visione dell'artista ‘veggente’ che indaga nell'oscurità le origini e i ‘misteri’ del propri impulsi creativi.

Per la prima volta, in Maderna, la composizione dell'opera è preceduta da un progetto di impiego del materiali concepito a tavolino, elaborato attraverso il metodo dodecafonico e tuttavia piegato ad una concezione più personale. Le serie dodecafoniche - tre le principali disposte da Maderna - sono infatti costruite in modo da contenere le note del nome di Bach che Maderna tratta a parte applicandovi procedimenti permutativi che superano la cosiddetta dodecafonia ‘classica’ e avvicinano invece già le speculazioni del serialismo. La Fantasia, nata all'epoca dei rapporti di Maderna con Dallapiccola, sembra rappresentare, quindi, un testo-laboratorio dell'esperienza dodecafonica - benché già tesa verso il suo superamento - e riflette i risultati dell'impiego di un contrappuntismo rigoroso e di un primo approccio alla dimensione polifonica così importante per Maderna. Il lavoro, più del Concerto, si svolge all'interno di limiti di riferimento predefiniti (per quanto Maderna non abbia per nulla trascurato di curare l'immagine artistica, l'effetto e le suggestioni acustiche che l'opera è in grado di comunicare). Se non l’ha poi pubblicato è probabilmente perché nell' ‘Introduzione’ aggiunta all'ultima versione del Concerto Maderna sintetizza retrospettivamente, nelle forme di un contrappuntismo molto più mascherato (di fatto con un canone), cioè più allusivamente, il momento del suo interesse per Bach. E ciò avviene al di fuori della dimensione dodecafonica, per la quale, come è noto, Maderna viene progressivamente a sviluppare un deciso rifiuto, quasi un'idiosincrasia



Serenata n. 2 viene composta nel 1954 e pubblicata nello stesso anno dalla Casa Ars Viva Verlag di Hermann Scherchen al quale l’opera è dedicata con il titolo di Serenata - Komposition Nr.3. Essa è eseguita per la prima volta nel 1956 con Maderna nelle vesti di direttore. Nello stesso anno l'opera viene ancora revisionata e ridotta di 58 battute (da 327 a 269). Sia del processo compositivo che di quello di revisione per la seconda versione esiste una abbondante documentazione (schizzi e tabelle) studiata da Giordano Montecchi in un bel saggio del 1989.

Serenata n.2 si pone al limite dell'esperienza strutturalista di Maderna a Darmstadt. Essa si divide in due parti, contraddistinte da due diversi organismi seriali (ripartizione che vale per entrambi le versioni del 1954 e del 1956-57). Maderna ha ormai perfettamente identificato l'lmpostazione ‘seriale’ del proprio lavoro artistico, ma in una particolarissima concezione.

La sequenza iniziale - o ‘serie’ difettiva di undici suoni - viene vieppiù trattata fino alla totale cancellazione o meglio, alla progressiva trasformazione ad un livello astratto e ‘invisibile’, metafisico della sua presenza oggettuale. Ciò che avviene per gradi, senza mai spezzare il filo della memoria degli eventi che si susseguono. Anzi la memoria, come scrive Montecchi, “viene gelosamente custodita come elemento-chiave”. Come premessa e garanzia cioè, della proiezione dell’oggetto, dell’identità nella trasformazione. La metamorfosi non viene tanto a dipendere, quindi, dalla consequenzialità rigida del meccanismo, quanto piuttosto da una dimensione di presa di distanza dal meccanismo stesso: una macchina, per usare una metafora cara a Maderna, il cui funzionamento viene interrotto da una presenza occulta, umana e soggettiva, che detta le ragioni di un ordine musicale, di un orecchio poetico che liquida i logicismi, spezza i nessi troppo scoperti dell’impianto strutturale.



Plèce pour Ivry è invece il titolo di un’opera molto tarda di Maderna per violino solo, composta per Ivry Gitlis nel 1971. È l'ultima delle opere per strumento “solo”. La partitura è disposta come un insieme di sezioni, ma come in un campo aperto alla scelta dell'interprete che vi può organizzare liberamente sopra il proprio percorso esecutivo ed espressivo. La durata pertanto è aleatoria, variabile da esecuzione a esecuzione. Siamo nell’ultima fase della biografia artistica maderniana, in cui il concetto di libertà e di co-creazione dell’opera all’atto di ogni nuova esecuzione rappresenta il nodo fondamentale. Dell’idea di consequenzialità è rimasta solo una nozione ‘vivente’ ed anch’essa è rimessa in discussione. È la critica del rapporto dei ruoli in gioco nella musica. Il testo notato, come del resto non è stato mai possibile del tutto in nessuna fase o periodo della storia musicale occidentale, non rappresenta, o meglio non pretende più di rappresentare, l’opera finita, ma si riflette nella concezione della condizione più irriducibile dell’arte musicale: il suo essere evento auratico ‘assoluto’, il suo esistere solo nel momento in cui ‘si suona’.

Nell’ultimo Maderna, l'opera consegue dall’interazione tra il compositore che prescrive un profilo, talvolta un flusso melodico e lo nota, e l’interprete che organizza liberamente su questo le modalità e la dinamica esecutiva: solo da questa sinergia viene plasmata la forma dell’oggetto sonoro, questa è la dimensione irripettblle del ‘testo’.

Pièce pour Ivry deriva i suoi materiali scritti da quelli approntati da Maderna per la preparazione della Juillard Serenade composta nello stesso anno. E come per la Juillarde Serenade anche per Solo (“per musette, oboe, oboe d’amore, corno inglese - un solo esecutore”) è prevista un’esecuzione ‘combinata’ con lo scorrimento del nastro magnetico intitolato Tempo libero (1970, ma esistente in diverse versioni). Solo - un’ulteriore testimonianza della grande amicizia che legava Maderna all’oboista Lothar Faber (primo interprete dell'opera) - è, come Pièce per Ivry, un’opera aleatoria, ma i materiali melodici notati provengono da Ausstrahlung, Irradiazioni (1971).


Paolo Catellan

Composto nel 1971, Solo è dedicato a Lothar Faber, oboista tedesco pioniere nell’utilizzo dello strumento nella musica contemporanea, che per primo mise a disposizione dei compositori tutta la famiglia dell’oboe: dallo strumento più acuto, la Musette, che si fece appositamente costruire con una meccanica moderna, all’Heckelphon, un oboe baritono inventato agli inizi del secolo dall’omonimo costruttore di fagotti.

Il Solo di Bruno Maderna si compone di otto frammenti (numerati: 1,2,2a,3,4,4a,5 e 6) che, come esposto nelle note introduttive, possono essere interpretati a discrezione dell’esecutore sia per quanto concerne l’ordine, sia per la scelta dello strumento.

L’ “Alea”, che caratterizza questo tipo di composizioni, era molto in voga negli anni ‘60 presso i compositori che gravitavano attorno a Darmstadt, e nessuno meglio di Boulez definì questo “intervento dell’imprevisto” come il caso che si insinua nel processo di composizione come parte integrante di essa, sempre e soltanto come fattore combinatorio di elementi stabiliti dall’autore, al di fuori della casualità.

Nell’affrontare questa registrazione mi si è quindi posto il problema di fissare un ordine che non fosse casuale, ma che rispondesse a una logica: ho quindi pensato di collegare gli otto frammenti come a comporre una “Ring-Composition”, una composizione circolare che avesse un percorso di andata e ritorno.

I nn. 2 e 2a, per lo loro brevità, li ho utilizzati come elementi di transizione, mentre il frammento di partenza ho inteso riproporlo con tutti gli strumenti, dal più acuto al più grave, con una piccola eco che, nel cambiare lo strumento, ripete le ultime note appena ascoltate.

Le prime note della composizione eseguite con il corno inglese e dallo stesso strumento esposte anche per la prima volta, diventano così una specie di Leitmotiv nel rispetto del volere dell'Autore che, a tal proposito, consente di ripetere sezioni, anche con variazioni di parametro o interpolazioni.


Paolo Pollastri