BRUNO MADERNA

Antologia di Musica da camera

Queste pagine di musica da camera di Bruno Maderna formano un’antologia in grado di esemplificare l’evoluzione linguistica del musicista veneziano su di un ampio arco di tempo. Divertimento del 1953 è la composizione più remota del lotto, uscita dalla penna di un musicista all'epoca 33enne. Agli anni ‘50 risale anche Il Quartetto per archi, datato 1955. Passando agli anni ‘60 ci s'imbatte nel lotto più cospicuo di composizioni da camera: Honeyrêves del 1961, Aulodia per Lothar del 1965, Widmung del 1967 e Serenata per un satellite del 1969. Degli anni ‘70, ossia dell'ultimo decennio di vita di Maderna, sono le quasi coeve Viola e Dialodia, datate entrambe 1971. Come diceva Massimo Mila, l'opera maderniana è “una selva intricatissima”, cosicché preferiamo rinunciare fin d'ora all’ipotesi di fornire al lettore un filo d’Arianna che offra un percorso congiungente le otto composizioni. Semmai possiamo indicare la persistenza di intriganti elementi di occasionalità che hanno presieduto alla genesi di tutti questi brevi lavori. L’elemento ricorrente è dato dalla connessione di gran parte dei brani con uno strumentista, amico di Maderna, cui la pagina è dedicata (spesso addirittura intitolata). Il musicista veneziano amò gli strumenti a fiato: in particolare l'oboe e il flauto. Questa predilezione venne impersonificata nella sua attività da due celebri interpreti: l'oboista tedesco Lothar Faber e il flautista italiano Severino Gazzelloni.

Faber, classe 1922, renano di Colonia, figlio d'arte (suo padre era oboista dell' Orchestra Guerzenich), dopo studi al Conservatorio della sua città e a quello di Parigi, entrò in carriera come orchestrale. Dal 1946 oboe solista nell'orchestra di Radio Colonia (WDR), Faber cominciò ad interessarsi di musica d’avanguardia partecipando al più importanti Festival della Neue Musik (Biennale di Venezia, Festival di Royan, di Varsavia ecc.). Nel giro di pochi anni l’oboista renano divenne una celebrità che teneva “masterclasses” dappertutto: insegnò all' Accademia Chigiana di Siena (1972-77) e, in patria, a Darmstadt. Fu in questa città che entrò in contatto con Maderna, stabilendo una partnership destinata a risultare estremamente fruttifera. Numerose furono le premières maderniane di Faber in Germania: a Darmstadt nel 1962 il Concerto n.1 per oboe e orchestra da camera, a Colonia nel 1967 il Concerto n.2 per oboe e orchestra.

Darmstadt, dove Maderna abitava, fu galeotta anche per il formarsi dell' amicizia con il flautista Severino Gazzelloni. Il ciociaro diede una “masterclass” a Darmstadt durante il corso estivo del 1952 ed entrò in contatto con tutti gli intellettuali musicali della città, da Adorno a Hartmann, da Ströbel a Maderna. Da quel momento l’impegno a favore delle avanguardie, emerso fin dal primi incarichi di Gazzelloni (solista all'Orchestra di Belgrado, solista dell'Orchestra RAI di Roma ecc.), divenne autentica missione. Centinaia sono state le opere dedicate a Gazzelloni da compositori come Petrassi e Boulez, Berio e Donatoni, Gorecki e Nono. Fra le opere che Maderna dedicò a Gazzelloni, oltre a Honeyrêves, va citata Hyperion.

Nel novero degli interpreti il cui nome è indissolubilmente legato a Maderna vanno citati anche alcuni strumentisti ad arco: ad esempio Il violista Italiano Aldo Bennici, dedicatario di Viola, o Il violinista olandese Theo Olof. Quest'ultimo, per molti anni spalla di Hermann Krebbers nell'Orchestra della Residenza dell' Aja e in un duo cameristico,ha ricoperto dal 1974 l’incarico di “Konzertmeister” dell'Orchestra de1 Concertgebouw di Amsterdam. Fra le “prime” di Maderna che videro Olof nel gruppo del creatori citiamo Serenata per un satellite.

Venendo al programma qui registrato, e volendo procedere in ordine cronologico, il primo è il Divertimento in due tempi per flauto e pianoforte. Lavoro composto a Verona nel 1953, Il Divertimento mostra la propria struttura bipartita (i “due tempi” di cui parla il titolo) non mediante una canonica pausa, bensì, più cripticamente, nella numerazione delle battute che ricomincia in corrispondenza del primo movimento Allegro. Questa lo suddivisione del Divertimento indicata in partitura: Andante scorrevole (battute 1-16), Più mosso (17-38), Calmo ma sempre scorrevole (39-54), Poco più mosso (55-87), Poco meno (88-93), Cadenza (94-108), Allegro (l-50), Allegretto grazioso (51-65), Allegro (66-96).

Maderna si accostò per la prima volta compositivamente ad una forma classica come il quartetto per archi durante gli anni della guerra, a metà strada fra i 20 e i 30 anni d'età, con una partitura di sole 152 battute rimasta allo stadio di manoscritto. Il Quartetto per archi in due tempi (Streichquartett) qui eseguito è invece una composizione ufficiale commissionata dalla città di Darmstadt per la decima edizione del Ferienkurse. A crearla provvide il Quartetto Drolc (1 giugno 1955) nell'ambito del ciclo denominato Musik der jungen Generation. Dedicato all’amico Luciano Berio, il Quartetto venne pubblicato nel 1956. Si tratta di una composizione abbastanza breve (389 battute), risolta in due tempi distinti, privi di indicazioni agogiche e ispirati al gioco della specularità. Il primo tempo si compone infatti di 190 battute: il secondo, riesposizione retrograda (non letterale) del primo, è di 199 battute.

Il gioco geometrico dell'inversione caro a Maderna si ritrova fin nel titolo del brano per flauto e pianoforte dedicato a Severino Gazzelloni. Honeyrêves altro non è infatti che il retrogrado di “Severino”. Servendosi di qualche ritocco sillabico (h, y, e, accento circonflesso) Maderna trasforma il retrogrado di Severino in un misterioso crittogramma (che suona foneticamente ora come il francese “On y rêve”, ossia “vi si sogna”, ora come la fusione dell'Inglese honey-miele e del francese rêves-sogni: “sogni di miele"). Honeyrêves, composto probabilmente nel 1961, venne eseguito per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia il 23 aprile 1962 (dal dedicatario ovviamente) in occasione del XXV Festival di Musica Contemporanea della Biennale. Come ha fatto notare Francesca Magnani, esistono vistose comunanze di materiali musicali fra questa pagina per flauto e pianoforte e altre opere coeve. Il brano appare integralmente, anche se con un ordine interno diverso, nella partitura di Don Perlimplin e, frammentariamente, in Serenata IV e nel Konzert für oboe und Kammerensemble.

Anche Aulodia per Lothar per oboe d'amore e chitarra ad libitum ebbe la prima esecuzione alla Biennale di Venezia. Il dedicatario Lothar Faber all'oboe e Alvaro Company alla chitarra la proposero il 9 settembre 1965 nell'ambito della XXVIII edizione della manifestazione lagunare. Moderna scrisse Aulodia per Lothar nel corso di quello stesso 1965. La prima edizione a stampa, datata 1977, utilizza per la parte conclusiva della chitarra non le 18 battute che appaiono nell' autografo, ma uno schema ritmico, improvvisato da Company in occasione della “prima” alla Biennale (schema che, significativamente, lascia all'interprete un margine di improvvisazione).

Il termine tedesco Widmung (Dedica) sottolinea le circostanze celebrative che presiedettero nel 1967 alla nascita dell' omonima pagina per violino solo. L'evento fu rappresentato dall'inaugurazione di un museo privato: la collezione di arte astratta di Ottomar e Greta Domnick a Nürtingen. I dedicatari (probabilmente anche committenti) di Widmung furono dunque i signori Domnick; “creatore” fu Invece Theo Olof, che interpretò il breve brano a Nürtingen il 27 ottobre 1967.

Anche Serenata per un satellite reca una “Widmung” specifica per un avvenimento altrettanto specifico. Dedicatario del lavoro è infatti un celebre studioso di problemi aerospaziali, il prof. Umberto Montalenti, all'epoca direttore dell'ESOC (European Space Operation Center), agenzia con sede a Darmstadt, città in cui, come detto, Moderna risiedeva. Montalenti fu responsabile della messa in orbita, la notte del 1° ottobre 1969, del satellite ESRO I B “Boreas”. Quella stessa sera Moderna diresse la “prima” della sua Serenata che intendeva celebrare l'avvenimento. Esecutori ne furono A. Sweekhorst (flauto, ottavino), il solito Lothar Faber (oboe, oboe d'amore, musette), D. Busse (arpa), H. Rossmann (marimba) e il celebre Sascha Gawriloff (violino). Come ha scritto Maurizio Romito “la durata e l’organico della composizione sono totalmente aleatori”. Due note di Maderna in partitura prescrivono: “Possono suonarla: violino, flauto (anche ottavino), oboe (anche oboe d'amore, anche musette), clarinetto (trasportando naturalmente la parte), marimba, arpa, chitarra e mandolino (suonando quello possono), tutti insieme o separati o a gruppi -improvvisando insomma, ma! -con le note scritte”. L'altra indicazione recita: “Durata: da un minimo di 4’-a 12’”. Questa libertà di scelta ha fatto sì che dell'opera (una delle più frequentemente eseguite) siano state fornite negli ultimi anni versioni innumerevoli, anche per uno o due strumenti. Sempre Maurizio Romito ricorda che alla prima esecuzione non venne utilizzato il testo della partitura a stampa (1970) oggi in uso, ma una sua precedente stesura, intitolato Serenata per un missile, parzialmente differente. Nel corso della prima esecuzione il carattere improvvisatorio dell'opera venne rinforzato dall'inserimento di assolo tratti da altre opere maderniane. Gawriloff, Faber e Sweekhorst proposero rispettivamente un frammento di Widmung, uno del Concerto per oboe n.2 e uno di Musica su due dimensioni (1958). L'interpretazione dell'Ex Novo Ensemble in questo disco si basa su una ricostruzione di Serenata per un satellite curata da Claudio Ambrosini.

I due brani che concludono quest'antologia maderniana di musica da camera, Viola e Dlalodia, risalgono entrambi, come già detto, al 1971. Il dedicatario di Viola (noto anche come Viola d'amore), Aldo Bennici, lo eseguì quello stesso anno, allorquando il brano non rappresentava che un assaggio di un Concerto per viola e orchestra in gestazione. Quel Concerto non vide mai la luce ma Viola si è mantenuto nel repertorio recitalistico degli specialisti di musica contemporanea: solisti in grado di assecondare il carattere largamente “soggettivo” di partiture come questa. Viola scrive infatti Francesca Magnani, “è organizzata in un percorso preferenziale che l’interprete può variare con le consuete interpolazioni e ripetizioni”.

Dialodia, scritto dall’autore “per due flauti, oboi o altri strumenti”, è di datazione incerta ma viene fatto risalire deduttivamente al 1971 per il fatto di aver figurato nel programma di Ausstrahlung. Venne Infatti eseguito a Persepoli in occasione della prima di quest'opera, commissionata dallo Scià per le celebrazioni dei 2500 anni dalla nascita di Ciro Il Grande, ideale fondatore dell'Impero Persiano. Autentico cammeo musicale per le sue dimensioni miniaturizzate, Dialodia nella versione a stampa (1974) non porta prescrizioni strumentali: una aleatorietà che sottolinea ulteriormente l'estremo grado di astrazione perseguito dall'ultimo Maderna.

Michele Selvini

Nota: la parte preponderante delle informazioni contenute in questa nota sono state ricavate dal volume “Bruno Maderna, Documenti”, Milano 1985 i cui autori e i cui editori intendiamo qui ringraziare.

Opera “aperta” ed interpretazione

Il problema di che cosa voglia dire interpretare si fa particolarmente affascinante con la musica degli anni ‘60 e ‘70, con quelle opere “aperte” In cui è previsto, appunto, un apporto creativo da parte dell'esecutore. Se non che anche il concetto di interpretazione è in realtà soggetto ad “apertura”: muta col tempo, e tanto più quanto più cambiano le condizioni tra il momento di concezione e quello di esecuzione di un’opera. Oggi poi i mutamenti di prospettiva avvengono ad una velocità altissima: non sono trascorsi che pochi decenni dalla nascita di queste musiche, eppure essi hanno - da un punto di vista esecutivo - forse quasi lo stesso peso dei secoli che ci separano dalla musica del Medio Evo o del Rinascimento. Nuove idee compositive nascono in continuazione, nuove tecniche strumentali vengono messe a punto. Quindi interpretare davvero un lavoro “ricomponibile”, come per esempio la Serenata per un satellite di Maderna, significa (anzi deve significare) per noi oggi qualcosa di diverso da chi lo faceva solo dieci o venti anni fa o persino proprio quella sera del 1969 in cui il pubblico ha potuto ascoltarla per la prima volta. Come altre partiture dell'epoca, concise e preziose come miniature, questa Serenata consta di un unico foglio, sul quale i pentagrammi sono però disegnati anche diagonalmente, “magneticamente” attratti o respinti fino al bordi della pagina, inclinati, curvati, costretti a produrre incroci, sovrapposizioni, scontri di linee e di note che a loro volta si trasformano in minuscoli, misteriosi disegni astratti: qui una sorta di scacchiera, lì di ideogramma, più in là quasi un arabesco... Per gli esecutori della serata inaugurale (si apriva in quell'occasione il Centro Spaziale di Darmstadt) e, in generale per gli esecutori dell’epoca, si trattava non solo di “suonare”, ma di mettere in atto un nuovo modo di essere, di reagire musicalmente alla provocazione creativa sprigionata da queste grafie. Si trattava di trovare - spesso con la guida dell'autore-direttore - un percorso esecutivo tra i meandri di questi “labirinti sonori” e dar vita ad un nuovo tipo di improvvisazione, lucidamente controllata. Ma questo oggi non basta. Del tempo è passato e ha chiuso i contorni di quel periodo: per quegli esecutori si trattava di musica fresca d'inchiostro, di musica nuova; per noi, e per quelli che verranno, si tratta ormai di “classica” Nuova Musica: la musica dell'Europa del secondo dopoguerra. La parola “interprete” deve caricarsi quindi oggi di altri coefficienti. Può ancora voler dire soltanto rendere - per quanto abilmente - l’aura, il suono, il tipo d'esecuzione di quegli anni? Fare soltanto questo restituirebbe troppo poco di quel pensiero e, soprattutto, ne tradirebbe il senso di aggiornabilità, di evoluzione continua. Ecco quindi la necessità per noi di far sentire il peso - ed anche lo vitalità - del tempo intercorso, e da qui l'intenzione, con questa versione, di “storicizzare” duplicemente l’opera (sia il momento della composizione che quello della sua esecuzione) facendo affiorare, proprio negli spazi lasciati più aperti da Maderna, le nuove idee e le nuove tecniche strumentali venute alla luce nel frattempo. Idee e tecniche che possiamo ben immaginare Maderna avrebbe sicuramente conosciuto (e molto probabilmente lui stesso impiegato), se non fosse mancato cosi presto. Fra tutte le musiche questa, la musica “aperta”, è quella che ha maggiori possibilità di vincere la morte, rigenerandosi all'infinito. Con Dylan Thomas: “and death shall have no dominion”.

Viola, del 1971, ha richiesto un lavoro di “ricomposizione” meno radicale perché in questo caso le libertà concesse sono minori. Le prescrizioni di Maderna - cui ci si è d’altronde sempre scrupolosamente attenuti per tutti i lavori inclusi in questo disco -permettono di intervenire solo sull'assetto formale dell'opera, decidendo dove farla iniziare e finire, in che ordine e cosa suonare e le eventuali interposizioni di frasi o frammenti desunti da altre sue esecuzioni. Come già per la Serenata, “interpretare” ha significato quindi scegliere, dare forma, in un certo senso “chiudere” l'opera. E pure qui, sull’onda anche di ricordi personali del Maderna interprete, abbiamo cercato un percorso che evidenziasse il colore, la fisionomia, la “personalità” dei diversi frammenti intesi quasi come rimandi al personaggio Maderna, alla sua sensibilità, alla sua profonda umanità, alla strabiliante abilità coniugata con il gusto per il “gioco” musicale (jouer e to play dicono giustamente francesi ed inglesi parlando del far musica). Da esperto conoscitore degli strumenti musicali qual era Maderna sapeva mettere in ogni frase, in ogni cellula quasi, una bellezza ed una pregnanza capace di irradiarsi poi dal piano strettamente strumentale a tutti gli altri.

L'Aulodia per Lothar, una composizione del 1965 per oboe e chitarra, pone problemi di carattere filologico ancora diverso. In occasione della prima esecuzione, cui ho avuto la fortuna di assistere da ragazzo, Maderna diede facoltà al chitarrista A. Company di improvvisare nelle ultime due sezioni del brano. Questa Improvvisazione venne poi da Company trascritta e successivamente inserita nell’edizione a stampa comunemente usata. Ma lo studio del manoscritto originale ha evidenziato che la penultima sezione del brano era stata invece concepita da Maderna come un canone tra oboe e chitarra, che qui abbiamo il piacere di eseguire integralmente e presentare al pubblico per la prima volta. Sono 18 battute in 3/8, In accelerazione continua che, da un punto di vista compositivo, costituiscono un ponte assai funzionale tra la pungente densità della parte centrale della composizione e la rarefazione della parte conclusiva. Rimaneva però sempre il problema dell'ultima pagina di chitarra, lasciata vuota. Ci è sembrato quindi opportuno limitare il ruolo dello strumento ad una presenza molto discreta, che però fosse in grado di far proseguire l'idea di imitazione introdotta dalle pagine immediatamente precedenti e lasciata sospesa: una filigrana, quindi, solo degli echi, come risonanze naturali (quasi un “canone naturale”), quasi ombre delicate delle ultime note dell'oboe che, cadendo, rimbalzano sulle sue corde.

Claudio Ambrosini