EDIPAN PAN CD 3053

Sentire prima di guardare; immaginare, pur senza vedere, e riscoprire il potere dell'ascolto, oltre la vertigine confusa del consumo dell'immagine. Ripensare l'attualità dell'intuizione di Proust all'alba del Novecento: è un sapore ad avviare il richiamo fertilissimo della memoria; non uno sguardo, una persona o un oggetto visti, come se lo scrittore avesse intuito che, tra i sensi in nostro potere, quello della vista avrebbe per primo subito un eccesso di offerta, tale da confondere e degradare anche la domanda. Tempi d'oro per l'udito sarebbero dunque possibili, se nel frattempo la nostra civiltà non avesse alzato il volume, rendendoci più sordi, distratti, impauriti. "La musica non si vede", diceva Goethe, forse non prevedendo l'attualità della sfida. Arte immateriale, per essere davvero sentita, ha bisogno di un senso. Non ne sono privi gli otto lavori che si susseguono in questo disco: lo individuano nell'incorrotto potere drammaturgico e rappresentativo del suono, affidato a dita e bocche e gole addestrate, severamente, alla scuola dell'invisibile ragione musicale.

Ivan Vandor (1932) Poèmes imaginaires (1987)
per sette strumenti (flauto, oboe, clarinetto in sib, pianoforte, percussioni, violino e violoncello).
A Claudio Ambrosini e all'Ex Novo Ensemble

Dimenticare la musica? Anzi, trasformare le amnesie in sementi di creatività. Mai, però, dimenticando che senza una struttura e senza una forma è più difficile concepire un'idea. La sigla della poetica di Vandor si rintraccia anche nel viaggio intrapreso da questi sette strumenti: la consapevolezza dell'ordine necessario si confronta con il gusto contemporaneo per l'incompiuto, aiutata da una scrittura che sfrutta la fisicità dei sette strumenti (ma molti di più, a considerare lo schieramento delle percussioni). Arabeschi, lievi come appoggiature nei voli delle quartine dei fiati, calligrafici come un suono francese del tempo perduto, e poi la sorpresa brutale: i giri, più rumorosi, oppure più lenti e ossessivi -scanditi- di una raganella: quando mai lo strumento così povero e triviale aveva guadagnato dei passaggi solistici? Irrompe la bruta realtà sonora, una corporeità assillante; un greve richiamo contro l'aerea libertà dell'immaginazione. Poi il suono ridiventa sintassi, riconquista altezze più consone all'idea di una musica "alta". L'intensità si frastaglia in lentissimi glissati, uniformi e seducenti come un'immagine dalla quale sia arduo distogliere lo sguardo. Un ristagno dei timbri, una staticità sognante, una visione interiore, immobile. Da lì si sale ancora, verso sonorità liquide, spaesanti. La pagina si presenta meno densa, docile all'immaginazione: un "crescendo a poco a poco", un brulicare delle percussioni metalliche, spinge il suono al fortissimo, e poi, "più veloce" ancora, verso un controllato disordine. Viene contemplato il rischio (la possibilità) del delirio: "Was will du dich, o meine Seele kränken", è scritto sotto il rigo delle percussioni ostinate, come un'invocazione del compositore allo strumento. Poi, le puntature rallentano, di nuovo tutto è inghiottito, gli strumenti cedono, uno ad uno.

Michele Dall'Ongaro (1957) Vita mia (1988)
per soprano, violino, violoncello e pianoforte testo di Alberto Bevilacqua I. Strada Romea (mosso)
Il. Improvviso (andante ma non troppo)
III. Ventriloqua mente (flessibile, rubato)

1. Strada Romea
è l'ora della penombra
che affila la lama, l'abbaglio
nell'occhio
della cosa che mai vide, ma che lui sa, che sbarra

2. Improvviso
per un pezzetto d'orto, per un verso
d'ombra in longitudinale sul tiglio
e l'occhio turchino
del puledro neonato,
ho ritoccato
il mio concetto d'universo

3. Ventriloqua mente
ventriloqua mente
per troppi infiniti, vuoti di memoria
universale,
inviscerata storia di voci
un poco amate e perse e prestate agli iddii
al Tempo,
non c'è perché
sia di tutte la più persa che resiste.

(Le poesie Strada Romea, Improvviso e Ventriloqua mente sono tratte dalla raccolta "Vita mia" di Alberto Bevilacqua pubblicata in Italia da Arnoldo Mondadori Editore)

I colori aspri ritagliati da una luce che sfòra la penombra vespertina; l'intimità stupita di un'Arcadia contemporanea, detta da un canto rarefatto, pudica melopea. Infine l'implosione di un ventriloquo specialissimo -certo un intellettuale- che parla con la propria mente. La scrittura musicale si offre duttile al senso del testo, ne sottolinea il carattere di evocazione, che procede, come spesso la memoria, attraverso folgorazioni e abbandoni: inquieti quanto le mutazioni ritmiche e le escursioni della voce (è canto e parola, grido e stupore). Nella terza lirica, quando lo sguardo si rivolge al proprio interno, abbandonando paesaggi e figure, la musica scava il suo percorso con altrettanto affissa tenacia: si varia sui microintervalli, si insiste su una nota sola, si apre e richiude il segno inquieto dell'espansione del suono. Un acquarello ancora umido, quando basta un soffio a mutare la tinta, a farle acquistare nuove sfumature, intensità. Addensamenti, rarefazioni: lo stile come rifugio, salvezza contro i "vuoti di memoria", lo smarrimento del senso.

Gérard Zinsstag (1941) Tempor (1991-92)
per flauto, clarinetto, violino, viola, violoncello e pianoforte
A Gérard Grisey
Le temps incarcéré
Le temps suspendu
Le temps manipulé

Temperatura, temperamento: calore, colore. O soltanto angoscia, nel Tempo, che i latini ci consegnano di genere neutro? Mai neutrale comunque e qui capace di assumere tre diversi caratteri: incarceré, suspendu, manipulé. Nulla è se non per come appare. Ossessivo, ci imprigiona all'inizio il pizzicato "secco" degli archi, orizzonte fisso come sbarre di una galera, gelido rimbalzo ai tocchi di desiderio del pianoforte. Rumori, nella solitudine: echi, rimbombi, ripetizioni, scansioni subite da chi è privo della libertà. (Il sogno troncato del prigioniero, il sadismo di chi lo illude: ascoltare Dallapiccola, Montale). Ma quando avviene questo sogno? È l'alba, oppure la notte a schiudersi su quelle visioni impotenti? Tecniche strumentali raffinate: divaricazioni di altezza, a creare conflitti spaesanti; il suono è tempo, nel tempo diventa struttura percettiva: la ripetizione si trasforma in concentrazione, l'economia degli intervalli provoca l'ondeggiare di un pendolo, che incanta. "Résonance spectrale", viene indicato in partitura; e nell'episodio conclusivo -il tempo manipolato- si vuole esplicitamente raggiungere l'illusione: "souffie sans emission du son". Ma in quel preciso istante sentiamo il flauto. Si sfalda il confine tra ascolto e visione, la persistenza del suono non è più nello strumento ma nell'aria e poi, soltanto, nella mente: così sperimentava, col sonoscoop, Luigi Nono nello studio di Friburgo. Quanti piano sono possibili, udibili? "Piano, piano, piano, piano, piano, fortissimo nel mio cuore", scriveva pensando a Schubert. Utopia del suono infinito, manipolazione genetica ambitissima ai compositori, loro faustiano delirio. Non occorre barattare l'anima con l'eternità, basterà "aumentare progressivamente la pressione dell'archetto, provocando così l'emissione di armonici molto lontani". Lo straniamento è garantito, se l'esecuzione è efficace. E il "pizzicato secco" dell'inizio, diventa ora, al congedo, un "pizzicato arpeggiato", svanito.

Daniele Lombardi (1946) Orphée (1986)
per soprano e pianoforte, testo di Paul Valéry
A Barbara Lazotti

…Je compose en esprit, sous les myrtes, Orphée
L'admirable!... Le feu, le des cirques purs descend;
Il change le mont chauve en auguste trophée
D'où s'exhale d'un dieu l'acte retentissant.

Si le dieu chante, il rompt le gite tout puissant;
Le soleil voit l'horreur du mouvement des pierres;
Une plainte inouie appelle éblouissants
Les hauts murs d'or harmonieux d'un sanctuaire.

Il chante, assis au bord du ciel splendide, Orphée
Le roc marche, et trébuche; et chaque pierre fée
Se sent un poids nouveau qui vers l'azur délire;

D'un Tempie à demi-nu le soir baigne l'essor
Et soi-même il s'assemble et s'ordonne dans l'or
A l'ame immense du grand hymme su la lyre
(da" Album de vers anciens")

"Orphée" è un'invocazione e un'assenza. Attigui, "rapido" e "calmato" si alternano nella tastiera, l'urlo e il sussurro nel canto. Il sonetto di Valéry, astrifiammante di simboli elegantissimi, filigrana liberty, viene attraversato da un suono altrettanto luminoso e trasparente, ma spesso -ecco l'invenzione- la musica, che non si sazia nel ricordo del mito, lo squassa con interventi di drammatica espressività. Il canto è un'onda, non un percorso spianato: in partitura, il segno grafico indica le oscillazioni, le vertigini pericolose del ricordo e del desiderio. La libertà concessa all'eroe è rabbia, se il viaggio ultraterreno fallisce. Voce e strumento esplodono in fff -un grido e "come un rullo di timpani"- quando il colore del suono è l'azzurro, ai confini estremi della ragione: "vers l'azur délire". Poi il brusco mutamento del ritmo e dell'intensità vengono usati in funzione rappresentativa; dal canto al parlato lentissimo, dalle sonorità più accese ai tremori di un pianissimo. Unghie, polpastrelli, dita, palmi, dorsi, avambracci: sviscerata anatomia di un potere, inseguito, svelato nel suo pieno splendore. Teatralità delle pause, loro uso per suggestionare, per sorprendere a far tendere l'udito. Ritornare all'origine, allo stupore del suono ancora possibile. Si azzardava, nella premessa, la necessità di riqualificare l'offerta acustica. Orfeo dovrebbe acconsentire.

Lucia Ronchetti (1963) Bianco temperie (1992)
improvviso per viola, violoncello, pianoforte e percussioni
All'Ex Novo Ensemble

Contorni netti, gesti duri come pietra; profili ritagliati con furore espressionista. Bianco è il colore del suono puro, il calore della fiamma più ardente. Bianca è la materia prima di raffreddarsi, di acquisire un forma. Richiami ancestrali nelle semicrome delle percussioni lignee che aprono il sipario sul pezzo (pezzo, oggetto di materia brutalmente forte) della Ronchetti, uscito dalla sua bottega di "artisan furieux". Successioni ritmiche scolpite nel corpo e nel gesto di un ipotetico -perché non immaginario?- danzatore. "Veloce e libero" si distende il suono del pianoforte, correndo lungo l'intera tastiera. Ma le cesure, le pause, le riprese sono continue, imprevedibili: non c'è requie in tanta temperie. E il gusto è mescolare i linguaggi: adoperare le sincopi del jazz più selvaggio assieme alle tecniche dell'emissione al ponticello, ai cluster. Siamo sull'orlo del cratere che conteneva tutti i suoni: anche la musica deve aver subito la condanna della torre di Babele. Il gioco inquietante potrebbe procedere ad libitum, ma l'autrice conosce il senso del limite: la concisione incide tracce profonde, quando non è sinonimo di effimero. Si diverte a stupirci, con teatralissimo gusto, lasciando la voglia di una coreografia per questa sua musica così materica.

Gaetano Giani Luporini (1936) Le azzurre trame di un La (1991)
per sei esecutori (flauto, clarinetto in sib, pianoforte, percussioni, violino e violoncello)

Sei esecutori alla caccia di un suono, inafferrabile essenza gassosa. Freon o neon, ghiaccio o luce? Entrambi fluidificano nel corpo del seduttore inguaribile. Languido, negli armonici e nei timbri eleganti fin de siècle (il precedente, beninteso). Ma anche Bastian contrario che ci porta su e poi bruscamente interrompe l'ascesa, incantandosi in rapide, frammentarie ripetizioni. Il cielo deve esserci precluso, ci rammenta questo sadico nipotino d'Ariele. Ridiscende, gentile e il colore si fa più denso, alla nostra portata, di nuovo accattivante, "lento e dolce", disponibile allo sguardo, meno effervescente nel ritmo. Le trame diventano risonanze, lunghe e ritardate: l'hanno preso, finalmente. Ma bastano tre battute di biscrome, una scala cromatica fremente verso la nota azzurra, un glissando che insegue la stessa meta, ed eccolo evadere di nuovo, verso il colore che gli compete: simbolo, nell'immaginario tardo-industriale, della volatilità.

Franco Oppo (1935) Silenzio (1971)
per contralto, oboe, violino, viola e violoncello
testo di Eugenio Montale

Non posso respirare se sei lontana.
Cosi scriveva Keats a Fanny Brawne
da lui tolta dall'ombra. È strano che il mio caso
si parva licet sia diverso. Posso
respirare assai meglio se ti allontani.
La vicinanza ci riporta eventi
da ricordare: ma non quali accaddero,
preveduti da noi come futuri
sali da fiuto, ove occorresse, o aceto
dei sette ladri (ora nessuno sviene
per quisquilie del genere, il cuore a pezzi o simili).
E l'ammasso dei fatti su cui avviene l'impatto
e, presente cadavere, l'impalcatura non regge.
Non tento di parlartene. So che se mi leggi
pensi che mi hai fornito il propellente
necessario e che il resto (purché non sia silenzio)
poco importa.
(da "Satura II'')

Dal silenzio, sillabando quasi ancora afasica, esce la voce: per dire che non può "re-spirare". Ma davvero? Se davvero ci credesse, Oppo non avrebbe scelto il testo di Montale, capolavoro d'ironia, sia pure feroce. Ecco allora tra l'inizio affettuosissimo della lirica (Keats a Fanny...) e il rovesciamento nel personale "caso diverso", gli archi che si incaricano, irridenti, di dubitare dell'assunto. Nel "caso" specifico l'impalcatura decisamente "non regge", rischiando di trascinare in una discesa abissale la voce e gli strumenti. Le scordature progressive degli archi, che crescono d'intensità fino a un ff conclusivo, corrodono la staticità delle lunghe note tenute, mentre -"tranquillo (mezza voce)"- il contralto si rivolge all'interlocutore muto: sì, è proprio il "silenzio" il terrore primitivo, il punto di non ritorno da evitare. Il poeta lo sa, quanto il compositore che lo sfiora e lo sfida, ma con guizzi se ne distacca, capriccioso, a volte furente. Le iterazioni sull'imperativo "da ricordare" sono anch'esse irridenti, preannunciano svenimenti, aceti per riaversi. L'aria si fa di vetro, fa freddo: la voce si cristallizza, ghiaccia, gli strumenti smorzano l'intensità, si raggelano nelle defatiganti, quotidiane "quisquilie". È il dramma? Via, presto si consolano, divagano liberi, sfruttando le possibilità offerte dall'alea: ogni unione, anche di note, è un azzardo. Poi la scrittura dai contorni obbligati riprende il sopravvento, verso l'epilogo. "Purché non sia silenzio": la lunga corona migrabonda del violoncello sull'intervallo di semitono s'interroga anch'essa sulle inconvenienze del dialogo in corso, immaginiamo da anni. Si richiude l'uscio su quell'interno, domestico inferno. Silenzio, prego.

Daniel Tosi (1953) Comme il vous plaira (De l'entendre)(1992-93)
(Suite de la Musique de Scéne pour la pièce de William Shakespeare, Version n.2)
per cinque esecutori (flauto in sol, clarinetto basso, violino, violoncello, pianoforte e percussioni)
In mémoriam Erik Satie

Come vi piacerà, di ascoltarlo. Non è una domanda dell'autore angosciato, ma una constatazione e un invito: il lavoro nasce infatti come musica di scena per un allestimento della commedia shakespeariana; post-moderna, pretenderanno alcuni, se qui si tratta del vero apparire più che della verità, sempre fuggente. Come i suoni e i timbri di Tosi: siamo evidentemente nel cuore di una notte, tra ombre, tenebre, angoli di paesaggio più chiari. Fra timori e piaceri. Il suono cammina -lunghi, lenti glissati, insistiti arpeggi- e s'imbambola, a sua volta stregando. Cambio di scena, secco e netto; è il momento dell'ironia, del suono brut; un incidente di percorso, un incontro imprevisto? Lo scherzo si ricompone nella forma rigorosa di brevi polifonie a cinque voci degli strumenti: interventi stupefacenti, accompagnati anche dall'invito a suonare e cantare insieme. Proseguiamo il cammino, mentre il sipario ora si apre bruscamente su un paesaggio più animato, attraversato da figure più veloci. Il congedo è invece più "comodo", l'ultima luce dissolve lentamente lasciando gustare il territorio di confine tra chiarore/penombra/oscurità. Siamo davvero a teatro, regno dell'artificio e della sorpresa; converrà non dimenticare che la dimensione visiva è suggerita, qui, soltanto dalla musica.

Sandro Cappelletto