Ritratto di Gaetano Donizetti GIULIA GS 201018

Musica da Camera

Quando Wagner fece visita a Rossini, a Parigi nel marzo 1860, uno dei temi sui quali la conversazione si sviluppò fu quello del predominio del melodramma, in Italia, su altre forme di creatività musicale. A Edmond Michotte, il musicologo belga che fece da tramite fra i due artisti, e che ha fissato nei propri appunti le parole scambiate in quello storico incontro, dobbiamo una fra le testimonianze più importanti sul problema lessicale e stilistico, ma anche storico e sociologico, che la dittatura del mondo teatrale (commissioni, rapporti con gli impresari e con gli editori, simbiosi creativa con i cantanti) poneva ai compositori italiani. Il vecchio Rossini, ormai fuori gioco, non poteva essere più esplicito. Quando Wagner gli chiese da quale fonte derivassero i luoghi isolati del suo catalogo dove si palesasse la ricerca e l'approfondimento delle forme, egli rispose: “Oh, avevo facilità, e molto istinto. In mancanza di una istruzione musicale approfondita (e, d'altra parte, dove avrei potuto trovarla, ai miei tempi in Italia?) il poco che sapevo, l’avevo imparato dalle partiture tedesche”. Il nocciolo della questione è tutto qui, nella divaricazione creatasi in pochi decenni fra il mondo del teatro e la musica tout court. Quando Mozart scese in Italia, era convinto di potervi apprendere qualche segreto dottrinale. Mezzo secolo dopo la frattura fra il teatro e la musica assoluta era divenuta profondissima, lo scarto incolmabile. Il teatro non era solo la calamita che doveva attrarre i giovani talenti musicali: era il destino che li attendeva. Il concetto della formazione (Bildung, alla tedesca, o paideia) che poteva valere per Beethoven, per Mendelssohn, ancora per Wagner, era sostituito da un tirocinio pratico, valido a forgiare gli strumenti di quel mestiere che permettesse di padroneggiare le esigenze del mercato. "Si trattava, per me, di mantenere mio padre, mia madre e mia nonna": sono ancora parole, semplicissime e definitive, di Rossini a Wagner.

Il caso di Donizetti funge da paradigma. Dalla prima opera, Il Pigmalione, composta sullo scadere dei diciannove anni, in poi, il catalogo donizettiano crea un lieve senso di vertigine a chi osservi il succedersi delle date e dei luoghi. La macchina per melodrammi agiva certamente in seguito agli impulsi nervosi di un uomo letteralmente incapace di rimanere inattivo, ma anche perché il cursus del compositore d'opera non ammetteva, per definizione, pause, ripieghi introspettivi, riassorbimenti nello studio. Ovvio che le forme della musica assoluta, Trii, Quartetti, Quintetti, la Sonata, la Sinfonia, venissero penalizzate. Quel che nell'Europa centrale era officina di esperimenti, laboratorio di ricerca, momento di un’attività speculativa libera da altri obblighi, e perciò tanto più ardita negli esiti di volta in volta attinti, in Italia rimaneva terreno di un'applicazione dimessa, eventuale oasi di riposo nel ritmo diabolico delle commissioni teatrali: oppure testimoniava una fase iniziale di studio, quasi l'assolvimento di un obbligo formale prima di passare a ciò che veramente contasse, la voce umana.

Eppure Donizetti, che le regole del mercato melodrammatico accettò forse come nessun altro, uscendone stremato, ebbe la sua fortuna. Johann Simon Mayr, il compositore bavarese maestro di cappella presso la chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo, lo ebbe come allievo sin da quando Gaetano aveva otto anni; e intorno a Mayr, virtuoso di viola, si riuniva una coterie filo-tedesca, intenta allo studio appassionato delle opere di Haydn, di Mozart, di Beethoven, ed anche di Reicha e di Mayseder. La casa di Alessandro Bertoli a Bergamo era una sorta di cripta, di centro segreto per l'accolita: e di lì si dipartiva una serie di iniziative pubbliche di valore storico, come l'esecuzione bergamasca della Creazione di Haydn, nel 1809. 11 piccolo Gaetano, corista in Santa Maria Maggiore, vi partecipò con ogni probabilità.

L'interesse da parte di Donizetti alle forme della musica assoluta è testimoniato dalla serie dei quartetti composti nel 1821: in ciascuno di essi veniva preso a modello un compositore, e Gaetano si compiaceva di sfoggiare il suo virtuosismo imitativo scrivendo via via un Quartetto “alla Beethoven”, “alla Haydn”, “alla Krommer”. Queste composizioni hanno mantenuto una certa notorietà. Molto più oscura è la vicenda delle opere raccolte adesso per la prima volta nella densa e rappresentativa antologia presentata dall’Ex Novo Ensemble. Si tratta di pagine destinate a diversi organici sempre nell'ambito del camerismo: testimonianze dell'apprendistato fulmineo compiuto da Donizetti sotto la guida di Mayr, e frammenti, chissà, di una vocazione incompiuta, di un destino negato della storia. Quali sarebbero state le vicende della musica italiana se un autore come Donizetti, in altre circostanze economiche rispetto a quelle in cui si trovò per nascita, avesse scelto di approfondire i generi toccati in gioventù, la Sonata per due strumenti, il Trio, il Tema con Variazioni? Forse la risposta più eloquente a questa domanda coincide con il silenzio di Rossini dopo il Guillaume Tell.

Le composizioni strumentali qui raccolte nascono esattamente come saggio stilistico in una fase di formazione, e hanno come sfondo l’omaggio a qualche amico come il tale “Benigni” cui è destinato il curioso Studio primo per clarinetto, del 1821; a nobiluomini come il “Signor Alessandro Zineroni” che riceve le fresche Variazioni in si bemolle maggiore per violino e pianoforte, con la raffinata trasformazione ritmica del tema nel Presto-scherzando conclusivo; o ancora a una vera e propria benefattrice quale Marianna Pezzoli Grattaroli, i cui denari esentarono Donizetti dal servizio militare e alla quale furono dedicate le due Sonate del 1819, la Sonata per flauto e pianoforte, con il dolce patetismo, già intriso di teatralità, del Largo introduttivo, e con la gestualità arguta e brillante dell’Allegro che ad esso segue, e la Sonata per violino e pianoforte, non poco esigente rispetto al solista che si trovi alla tastiera.

Sonate, Trii... La qualificazione è del tutto nominale: non solo perché le pagine sono generalmente articolate in un’introduzione lenta seguita da un unico movimento in forma di Sonata, ma soprattutto perché la musica diviene e si sviluppa non secondo la logica deduttiva tipica del camerismo germanico, ma seguendo un formulario convenzionale. Eppure non mancano momenti di interesse e squarci di assoluta bellezza: si pensi alla distribuzione timbrica, efficace e sapientissima, che si attua nel Trio in mi bemolle maggiore per pianoforte, violino e violoncello, del 1817; o all'abbandono a una cantabilità elegiaca quale si libera nel Largo in sol minore per violoncello e pianoforte; o alle inflessioni malinconiche che improvvisamente trapassano lo “sviluppo”, con l'incursione repentina della tonalità di la minore, del Trio per flauto, fagotto e pianoforte. In quelle poche battute avvertiamo una potenzialità irripetibile, un istante carico di promesse che spetterà alla storia di smentire, o di destinare altrove.

Francesco Maria Colombo