Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Venerdì 4 novembre 2011, ore 20.00


L'istante musicale



Daniele Ruggieri, Michela Caser* flauti
Mario Paladin viola, Monica Turoni arpa

Guida critica di Massimo Contiero


ARNOLD BAX(1883-1953)
Elegiac Trio (1916)
per flauto, viola e arpa

TORU TAKEMITSU (1930-1996)
And then I knew 'twas Wind (1992)
per flauto, viola e arpa

NINO ROTA (1930-1996)
Sonata (1937)
per flauto e arpa
Allegro molto moderato - Andante sostenuto - Allegro festoso

CLAUDE DEBUSSY (1862-1918)
Seconda Sonata (1915)
per flauto, viola e arpa
Pastorale - Interlude - Finale

HECTOR BERLIOZ (1803-1869)
Trio dall'Oratorio L'Enfance du Christ op.25 (1853/54)
per due flauti e arpa (*)



PRESENTAZIONE

Il programma che andiamo a presentare nasce intorno ad un organico strumentale divenuto ormai classico nella letteratura del Novecento: si potrebbe addirittura affermare che la sua invenzione si debba al genio di Claude Debussy, con la seconda delle Sonate francesi, del 1915. Il titolo di questo percorso vuol essere un doveroso tributo al gusto, alla delicatezza, all'inafferrabilità della sua musica.
Ma vi sono altre sinapsi tra le opere presentate questa sera. Una, forse la più evidente, deriva dall'impiego dell'arpa come rappresentazione dell'elemento acquatico (celebri i suoi interventi nella scena della fontana, in Pelléas et Mélisande ), impiego che trova riscontro nell'opera di Takemitsu (ricordiamo il suo desiderio di «nuotare nell'oceano che non ha né Oriente né Occidente») e in quella di Arnold Bax, che fu sempre affascinato dalla cultura irlandese e visse a lungo a Glencolumicille nel Donegal, un piccolo villaggio sulla costa occidentale «dominato dall'Atlantico». Anche la scelta di avvicinarsi al comporre senza gesti plateali; di evocare i «vecchi maestri»; la propensione alla malinconia, sentimento in grado di traghettare un mondo sonoro ormai perduto «nel moderno» senza perderne l'arcano mistero; lo sviluppo di una attenzione all'ascolto che «non respinge gli oggetti provenienti dall'esterno» (con una concezione, cara a Takemitsu, dell'opera d'arte come giardino musicale, non come mondo chiuso); tutte queste peculiarità sono sentite come essenze primarie per il comporre, e articolate con molte valenze nelle opere che ascolteremo questa sera .
Il rifiuto dell' «armatura delle formule», delle accademie, non è dunque per questi musicisti - come lo fu per Schoenberg e i suoi allievi - gesto determinato dalla volontà di riformare le regole del sistema musicale; in fin dei conti, il languore di riuscire, con vari stratagemmi, a «galleggiare nel mare della tonalità» rimane per gli autori che ascolteremo questa sera fonte di vitale, rassicurante serenità .
Altre liaison si possono stabilire tra le opere che ascolteremo in questo concerto, tanto che il titolo di questa serata potrebbe essere altrettanto efficacemente: "lambire il melos". È luogo comune diffuso che la musica del Novecento abbia messo in discussione il concetto tradizionale di melodia, che la memoria legava per lo più ad un certo impiego del canto - giunto al suo apogeo nel periodo verista - riscoprendo, quasi in opposizione, il concetto di melos: inteso come sviluppo orizzontale di una sequenza di suoni, che l'ascoltatore poteva percepire finalmente libero dai condizionamenti del passato, accettando concatenazioni intervallari anche ardite e aprendosi a gustarne nuove specificità.
Non si può fare a meno di citare la celebre espressione formulata da Arnold Schönberg nell'Harmonielehre (1911), Klangfarben Melodie (melodia di timbri), che molti studiosi hanno interpretato come la dichiarazione dell'inevitabile declino del parametro melodico a favore del parametro timbrico: senza rendersi conto che una nuova attenzione timbrica era efficace a riaffermare la potenza espressiva della melodia; lo stesso Schönberg in uno dei suoi aforismi risalenti agli anni 1909-1910, aveva sentenziato con sicurezza provocatoria e forte ambiguità: «la melodia è laforma d'espressione più primitiva della musica», in tal modo incitando varie generazioni di musicisti a sfuggire ai vincoli posti al comporre dalla presenza di una melodia. Questa sera ascolteremo opere dipregevole equilibrio che riescono invece a collocarsi senza strappi o dogmatismi in un clima storico di crisi della tonalità e nelle quali la nuova attenzione al melos assume una valenza rigeneratrice, tonificante, se non addirittura "salvifica".


Arnold Bax Elegiac Trio

L'Elegiac Trio di Arnold Bax ebbe la sua prima esecuzione alla Aeolian Hall di Londra il 26 marzo 1917.
Gli esecutori, il famoso flautista Albert Fransella, il compositore Waldo Warner alla viola e l'arpista Miriam Timothy, erano stati i protagonisti solo sei settimane prima della première londinese della Sonata di Claude Debussy. Se però guardiamo alle effettive date di composizione dei due lavori - praticamente coevi - possiamo escludere che Bax possa essere stato influenzato dall'analisi o dall'ascolto dell'opera di Debussy. Instancabile viaggiatore, soprattutto in Germania e in Russia, nutrì un autentico amore per la cultura irlandese: imparò il Gaelico, scrisse poesie, racconti e commedie usando lo pseudonimo di Dermot O'Byrne. Quando si trovava a Dublino frequentava circoli letterari e nazionalisti, e fra i suoi amici vi erano il poeta e scrittore Padraic Colum, fondatore della Irish Review, e Padraig Pearse, principale studioso della lingua irlandese. L'Elegiac Trio fu scritto, con un chiaro intento commemorativo, dopo i tragici giorni della Rivolta di Pasqua del 1916: era stato il primo tentativo dei militanti repubblicani di ottenere la costituzione di una Repubblica irlandese indipendente.
Risulta sorprendente che Bax e Debussy abbiano composto quasi nel medesimo periodo due opere dallo stesso organico strumentale: non tanto perché si possano evidenziare particolari contiguità stilistiche tra i due lavori, quanto per una comunanza di assunti estetici e programmatici.
La stupefatta indignazione di Bax alle notizie provenienti dall'Irlanda, trova sfogo nel sogno di una Irlanda idealizzata nel passato, che lo porta a citare l'antica canzone popolare Cathleen ní Hoolihan.
Come era stato anche il caso di Debussy - scrive a Jacques Durand nel 1915: «ho molto sofferto per una lunga aridità imposta al mio cervello dalla guerra» - anche Bax di fronte alla mancanza di sensibilità per le sorti del popolo irlandese trovava rifugio nell'evocazione di un mondo ormai perduto, nel tratteggiare un climamalinconico e velato ove sia possibile esprimere l'indignazione e la partecipazione emotivaalle vicende cruente della storia senza lasciarsi andare a gesti plateali.
Tale atteggiamento artistico richiama alla memoria una bella frase di Nino Rota, altro musicista che ascolteremo questa sera:
«Perché si compone musica? Per esprimere qualcosa nel contesto politico e religioso. Dalle sue lettere si capisce che Puccini non sapeva dell'esistenza della prima guerra mondiale. Credo invece che un musicista debba partecipare attivamente alla vita della società.
Questo però non vuol dire subordinare la musica alla politica».
Negli anni seguenti la prima guerra mondiale Bax emerse come una figura di primo piano: il suo impegno civile a favore dell'indipendenza dell'Irlanda non si esaurì e molte delle sue opere furono una reazione ai tragici eventi della Pasqua 1916. Una sua raccolta poetica, A Dublin Ballad and other poems , pubblicata nel 1918 sotto pseudonimo, fu addirittura proibita.


Toru Takemitsu And then I knew 'twas Wind

Il lavoro And then I knew 'twas Wind (1992), per flauto, viola e arpa di Toru Takemitsu e il, di poco precedente, How slow the Wind, per orchestra del 1991 - i cui titoli provengono da poesie di Emily Dickinson - condividono un materiale motivico comune; quasi a voler sottolineare il riferimento al vento contenuto in entrambe le citazioni; ma anche al mare, in quanto Takemitsu notò come il verso al quale è tratto il secondo titolo continua con "how slow the Sea". Il che crea un collegamento testuale - e il suo specchio motivico - con altre opere del periodo, come Archipelago S., per 21 esecutori, e Between Tides, per violino, violoncello e pianoforte, entrambe del 1993. Il processo di stabilizzazione del linguaggio musicale di Takemitsu raggiunge in questi ultimi anni della sua produzione - Takemitsu si ammalò nell'estate del 1995 e morì il 20 febbraio 1996 - un punto di tale equilibrio da far pensare che fossero tutte ricavate dalla stessa matrice. Tale constatazione analitica, contrasta - ma solo in apparenza - con le dichiarazioni di Takemitsu il quale considerava ogni nuovo brano «qualcosa di totalmente differente»: l'atteggiamento deriva dal guardare ad ogni nuovo lavoro come ad una visita in un altro giardino musicale, ove è certo possibile riconoscere elementi comuni ad opere coeve. Le osservazioni del compositore sui giardini suggeriscono che il giardino «non respinge gli oggetti provenienti dall'esterno» ed è dunque in grado di accogliere frammenti da altre composizioni dell'autore, e a volte persino da composizioni di altri autori (vale la pena di citare al riguardo i passaggi da La Mer di Debussy, inseriti in Quotation of Dream, per due pianoforti e orchestra del 1991). La parte della viola in And then I knew 'twas Wind contiene una breve allusione alla Sonata per flauto, viola ed arpa dello stesso Debussy - una citazione così ben nascosta che Takemitsu si sentì obbligato a segnalarne la provenienza in una nota in partitura. L'intera strumentazione di questo brano ricalca peraltro in modo manifesto quella della Sonata di Debussy.
Fin dal 1975 Takemitsu aveva dichiarato: «probabilmente io appartengo ad un genere di compositori che continua a pensare alla melodia; sono un musicista vecchio stile», evidenziando un accentuato ricorso al melos nella sua tarda produzione. Nella sua ultima intervista Takemitsu affermò che «se per qualche ragione la musica di oggi sembra aver dimenticato il canto, io penso che imparare da esperienze del passato, ad esempio da Brahms - non per guardare indietro, ma per creare cose nuove - sia molto importante per un compositore». Sia la tonalità che la melodia caratterizzano senza ambiguità le sue partiture per film o per teatro, e gli arrangiamenti pop: nelle ultime opere abbiamo spesso l'impressione di un tentativo di frantumare la barriera tra i generi e le destinazioni, nel tentativo di «nuotare nell'oceano che non ha oriente né occidente». I riferimenti tonali ci invitano a pensare che si tratti di musica che galleggia nel «mare della tonalità»: esempi evidenti al riguardo la conclusione in Re bemolle maggiore di And then I knew 'twas Wind e l'accordo comune, attorno al quale aleggiano alcuni suoni estranei - processo chiaramente riconducibile alle "risonanze aggiunte" di Messiaen - in How slow the Wind (che termina nella stessa tonalità).
Altri lavori di questi anni dimostrano come l'interesse di Takemitsu verso la costruzione dodecafonica non fosse esaurito del tutto. L'utilizzo di una serie diventa punto di partenza per plasmare materiali armonici, piuttosto che principio di organizzazione lineare. La divisione del "totale cromatico" in due diversi blocchi della tanto amata successione di altezze (Fa-Sol#-La-Do-Do#-Mi e Re#-Fa#-Sol-Sib. -Si-Re) viene utilizzato per generare i materiali costitutivi di And then I knew 'twas the Wind.
In questo caso, l'effetto prodotto dalla suddivisione è tutt'altro che seriale. Takemitsu non usa i due esacordi come un principio ordinatore, ma sembra al contrario divertirsi a derivare ogni possibile permutazione dalle note del primo insieme di sei suoni, come possiamo osservare nelle battute iniziali.In secondo luogo, per quanto nel corso dell'intero pezzo si trovino continui riferimenti ai suoni di questo esacordo, il suo complemento cromatico non viene mai enunciato in forma completa, ma è utilizzato come un serbatoio dal quale estrarre singoli suoni che aggiungono riflessi armonici diversi alle altezze del primo esacordo: in pratica un uso di sei suoni e della loro ombra .
In questo modo, Takemitsu evita ingegnosamente la monotonia e l'uniformità armonica, morbo ricorrente nelle tecniche dodecafoniche, adottando un metodo a tal punto plasmabile da consentire al compositore di citare in And then I knew 'twas the Wind il Leitmotiv di How slow the Wind in terze maggiori parallele, rimanendo tuttavia fedele alle premesse costruttive di base. I suoni della frase che ne risulta appartengono tutti al primo esacordo, ad eccezione della coloratura di due note tratte dal suo complemento cromatico. Le tecniche strumentali sperimentali - per quanto tutt'altro che assenti, come mostrano i glissandi di arpa in And then I knew 'twas the Wind o la scordatura della chitarra in Equinox (1993) - sono usate con parsimonia evidenziando la maestria di Takemitsu nel maneggiare forme timbriche "più convenzionali" per creare sottili e inusitate mescolanze di colori strumentali.
In un'intervista del 1988 il compositore aveva espresso il desiderio di «studiare l'orchestrazione con qualcun altro». E forse l'affermazione potrebbe essere analizzata nella medesima direzione che spinse Franz Schubert, negli ultimi giorni di vita, a prendere accordi per nuove lezioni di armonia.


Nino Rota Sonata (1937)

Gianandrea Gavazzeni (1909-1996) compositore, direttore d'orchestra e studioso tra i più insigni del Novecento, dedica una raccolta di articoli intitolata Brevi capitoli su Nino Rota (in G. Gavazzeni, Musicisti d'Europa. Studi sui contemporanei, Milano, Suvini Zerboni, 1955) all'analisi del percorso compositivo del Maestro dal 1932 al 1940. A proposito della Sonata per flauto e arpa, così scrive:
« Non è vero che tutto rimanga sempre uguale nelle musiche di Rota, che ogni tema riceva le medesime impostazioni, che venga risolto attraverso punti fermi, comuni o magari comodi per il musicista.La Sonata per violino propone i nuovi fermenti che si son visti. [in questa Sonata Gavazzeni aveva rilevato "un mordente, un tono asprigno e asciutto", "vivacità improvvise", sviluppi nei quali "la scheggiatura ritmica iniziale è ravvivata al massimo, osservata come elemento dominante, facendo avvertire così persino qualcosa di meccanico"]. Ma questi non si può dire proseguano nella Sonata per flauto e arpa, che è forse la misura più perfetta offerta da Rota. Idealmente questa Sonata si riallaccia al Quintetto [Gavazzeni gli attribuiva una "scrittura riposata" segno di "sicurezza espressiva, pur dove parrebbe esser fragile" e nel quale si delinea un "mondo poetico tutto intimo, volto alle mezze luci"], ma va oltre come bellezza, come felicità di tocco, magia di segno timbrico.
Sembra la somma poetica dell'autobiografismo, della verità, dell'inventare di Rota. Sue parole, veramente, discorsi soltanto suoi. Nella Sonata per flauto e arpa fanno un punto acutissimo, un valore ben alto, tra semplice rarità di giochi e melodie strumentali. Perché non dirlo? Qui pare il fiottar di voce d'un Ravel italiano, arcaico, intimissimo; d'uno che ha inventato uno stile prima inesistente. la Sonata ha tutta l'aria di voler rimaner ben ferma nella musica italiana moderna.»
Come rileva con grande acume Lorenzo Arruga, se in generale la musica di Rota offre subito riferimenti amichevoli d'ascolto e in tal modo induce a «disporla mentalmente come sottofondo ai pensieri: non provateci con questa, finirebbe per irritarvi: vuole spazio, vuole attenzione alle sottigliezze che sono necessarie per capirne il linguaggio. E vuole anche dirvi, pudicamente allegrezza: cioè nella luce della saggezza, nella penombra dell'esperienza, tenerezza e allegria.»
E forse meglio di ogni altro Rota stesso ce lo spiega: «Io non temo di essere melodico e orecchiabile- come si è scritto- un personaggio curiosamente inattuale del panorama della musica contemporanea.
[…] L'attualità della musica sta nella sostanza, nel messaggio che contiene, non nella forma esteriore.
[…] Quanto all'essere melodici, chi ha paura di esserlo teme le parentele. Mi spiego.La semplicità melodica porta con sé fatalmente una rivelazione di parentele, di derivazioni. Ma è una paura sciocca e anticulturale. Qualsiasi idea, qualsiasi ispirazione ha precise radici. Niente viene dal niente».


Hector Berlioz Trio dall'Oratorio L'Enfance du Christ op.25

L'oratorio L'Enfance du Christ di Hector Berlioz ebbe la sua prima rappresentazione alla Salle Herz di Parigi il 10 Dicembre 1854. La vicenda si articola in tre parti: Il sogno di Erode (la scena si svolge tra le strade di Gerusalemme, nel palazzo di Erode e nella stalla di Betlemme), La fuga in Egitto (l'addio dei pastori alla Sacra famiglia, il riposo della Sacra famiglia) , e L'arrivo a Sais (l'azione ha luogo nella città di Sais e nella casa del Padre di famiglia). Il Trio per due flauti e arpa, raro esempio di musica strumentale in Berlioz, è tratto dalla scena seconda della terza parte, appunto La casa del padre di famiglia. In essa il padre di una famiglia ismaelita, che ha appena accolto in casa Giuseppe e Maria, invita i propri figli a suonare per rincuorare i suoi affaticati ospiti: ogni pena cede ai flauti uniti all'arpa tebana. Si noti che Berlioz scrive questo brano per due flauti poiché gli assolo di flauto stracolmi di colorature, in quegli anni di gran moda, gli ispiravano profonda avversione.
La strumentazione molto lieve è la prima caratteristica dell'Enfance du Christ. Del resto l'arte di smaterializzare la sostanza sonora, poco percepibile in opere famose come la Fantastique, il Requiem o il Carnaval romain, è evidente sia nelle Chansons che in parti del Roméo et Juliette.
La perizia nel proporre un nuovo uso degli strumenti, e la capacità di impastarne i colori, del resto già evidente se si leggono le caratterizzazioni dei singoli strumenti nel suo Traité d'orchestration, ha condotto Berlioz a sfruttare le potenzialità coloristiche degli ensemble strumentali con straordinaria capacità evocativa. Nell'Enfance la rarefazione timbrica ha innanzitutto lo scopo di evocare un clima antico, e in questo senso vanno gran parte delle scelte strumentali del compositore. Se la prima parte dell'opera, Le songe d'Hérode (l'ultima in ordine di composizione), ha una strumentazione assai più spessa rispetto al resto dell'oratorio, per esprimere la drammaticità del ruolo di Erode e la pesantezza del clima che circonda il suo incubo, nel prosieguo l'orchestrazione si fa essenziale, a tratti minimalista.
Un uso estremamente accorto dei parametri timbrici, melodici e ritmici, serve allo scopo di dipingere visualizzare ogni evento, dal trotto e galoppo delle pattuglie romane nella Marche nocturne, all'addormentarsi del «divin enfant» nel Répos de la Sainte Famille con un lento disgregarsi della materia sonora; dalle evoluzioni cabalistiche degli indovini (scritto con abilissima irregolarità metrica) all'avvicinarsi del loro verdetto, sottolineato da un progressivo ispessimento dell'orchestra.
L'ansia che pervade Giuseppe e Maria alla ricerca di un rifugio nell'inospitale Sais, è meravigliosamente rappresentata da isolati colpi di timpano, che evocano l'implorazione di fronte alle porte chiuse della gente romana ed egiziana e poi si stempera nell'aprirsi di quella dell'ismaelita, dove la Sacra Famiglia troverà infine riparo. Il Trio per due flauti e arpa, eseguito dai giovani ismaeliti è una sorta di divertissement che viene a interrompere il flusso degli eventi con un espediente drammaturgico che richiama la concezione del teatro in Gluck, esaltando cioè un particolare inessenziale, squisitamente decorativo. Il trio precede il finale, con il celeste Épilogue (andantino mistico) intonato dal recitante e dal coro e che si conclude con un'ultima invocazione e l'amen delle sole otto voci di soprani e contralti
«derrière la scène».


Claude Debussy Sonata (1915)

Nel 1915 Debussy era ormai il più grande musicista di Francia, il più rappresentativo della sua patria; la sua gloria risplendeva nel mondo intero. Giunto all'apogeo della sua carriera, quando il suo paese subiva la terribile prova di una lunghissima guerra (i cui orrori lo avevano sconvolto), egli avrebbe voluto manifestare con ogni evidenza la vitalità dell'arte nazionale e il fiorire del suo genio. La ferma volontà di uscire dal genere della "sonata tedesca", con dileggio delle «grandes machines» dei classici e dei loro successori (César Franck e Vincent d'Indy), lo sprezzo dell'«armatura delle formule», dell'«accumulazione dei motivi e dei disegni sovrapposti» che avevano condotto la musica francese all'accademismo e alla retorica, coincidevano per Debussy con il guardare, con pari intensità, al passato e ad altri mondi. Il desiderio di aderire alla tradizione, e il suo forte sentimento nazionale - alimentato dalle circostanze della guerra - lo spinsero a guardare alle vecchie forme della Suite francese molto meno pesante e complessa della sonata, richiamandosi soprattutto a Couperin e Rameau: a Couperin, « il più poeta dei nostri clavicembalisti, la cui tenera malinconia sembra l'adorabile eco venuta dal fondo misterioso dei paesaggi ove si rattristano i personaggi di Watteau»; a Rameau, che gli sembrava così nuovo al concerto o al teatro, da considerarlo come «un contemporaneo cui all'uscita potremmo dire la nostra ammirazione». Ciò che voleva era ritrovare, senza la minima intenzione di imitazione, la loro leggerezza, il loro spirito, la loro concisione. Ma non gli bastava: una nuova attenzione all'ascolto, una nuova sensibilità si rivelavano necessarie:
«Ci sono stati, e ci sono ancora addirittura, dei piccoli e affascinanti popoli che hanno imparato la musica semplicemente come si impara a respirare.
Il loro conservatorio è il ritmo eterno del mare, il vento tra le foglie e i mille piccoli rumori che hanno ascoltato con cura, senza mai ascoltare degli arbitrari trattati».
La Sonata per flauto viola e arpa, venne originariamente concepita come ideale filiazione di un tipico organico barocco (flauto, oboe e clavicembalo) attualizzato con l'impiego dell'arpa, uno degli strumenti simbolo della poetica debussyana, il cui ruolo centrale in Pelleas et Mélisande creò addirittura dei clichés per molti compositori a venire. La sostituzione dell'oboe con la viola - probabilmente preferita proprio per una maggior duttilità nel produrre sonorità velate e aeree - avvenne ad abbozzo già ultimato. Come nella sonata per violoncello, ma in modo più caratteristico,
le melodie sono di una libertà di scrittura che ricerca uno stile monodico nuovo guardando molto indietro, fino alla musica medioevale. Canzoni popolari di trovatori e di trovieri, e più lontano ancora alla antichità indefinita del canto gregoriano.
Proprio in ragione di una ricerca di verità musicali primarie Debussy era decisamente ostile agli studiosi che vogliono trovare ad ogni costo una chiave di lettura delle strutture musicali, tanto da paragonarli a persone che, giunte ormai all'età adulta, non intendono rinunciare a coltivare l'atavica pulsione ludica di smontare i giocattoli. Così si accingono a smontare le strutture musicali senza accorgersi di perdere la cosa più importante gelosamente custodita nell'oggetto che smontano: il mistero. «Crimine di leso mistero» lo definisce Debussy in Monsieur Croche et autres écrits.
Nei medesimi scritti bolla definitivamente con il termine «amministrative» quelle composizioni che lasciano trapelare l'aderire meccanicamente ad una struttura formale "gerarchicamente preconfezionata", non dettata dall'istante musicale, cioè dalle esigenze emotive del brano cui si sta lavorando. Non è questa la sede per addentrarci in una discussione tecnica sulle strategie messe in atto da Debussy per legare volontà espressiva e controllo formale dell'opera occultando scrupolosamente (dopo l'uso) "la macchina" generatrice di tali strategie. È opinione critica comune che la musica di Debussy chieda di essere gustata in sé e per sé, cioè che i singoli istanti del discorso musicale si mostrino con una forte, a volte inconciliante, preziosa, individualità. Allo stesso tempo gli analisti - quasi provocati da una trama formale che si fa gioco di non negare apertamente i riferimenti sonatistici classici e preserva il ruolo significativo delle cadenze - si sono lungamente sforzati di indagare i principi razionali che sottendono le tre Sonate dell'ultimo periodo creativo di Debussy, e non sono mancati risultati musicologici di rilievo nella ricostruzione di quel canovaccio che, in qualche modo, si può far risalire ad un brandello di organizzazione classica del pensiero musicale, pur depurata da ogni gesto retorico e portata avanti con condotte armoniche a tal punto promiscue da rendere impossibile ricostruire le funzioni strutturali dell'armonia, essendo quest'ultima sempre imparentata con il modalismo e il pentatonismo. Il clima di ambivalenza armonica rappresenta un riflesso analogico del coltivare quella melanconia, mai estenuata né disperata, di accento tenero e rassegnato, di cui Debussy sentiva tutta la potenza quando, a proposito del Minuetto della Sonata per flauto, arpa e viola, scriveva a un amico: « C'est affreusement mélancolique, et je ne sais pas si l'on doit en rire ou en pleurer. Peut-être les deux?» (È terribilmente malinconica, e non so se si debba ridere o piangere. Forse tutte e due le cose?).

(a cura di AO)