Roberto Giaccaglia fagotto
Daniele Ruggieri flauto
Aldo Orvieto pianoforte
con la partecipazione di Michela Caser, Elia Guglielmo, Marco Aurelio Di Giorgio flauti
Marcello Giannandrea, Enrico Toffano, Stefano Meloni fagotti
HEITOR VILLA-LOBOS (1887-1959)
Bachianas brasileiras No. 6 (1938)
per flauto e fagotto
Aria (Choro): Largo - Fantasia: Allegro
PAOLO FURLANI (1964)
Music Blog (2010)
per flauto e pianoforte
Prima esecuzione assoluta
GORDON JACOB (1895-1984)
Partita (1969)
per fagotto solo
Preludio - Valse - Presto - Aria Antiqua - Capricietto
NINO ROTA (1911-1979)
Toccata op. 35 (1974)
per fagotto e pianoforte
LUDWIG van BEETHOVEN (1770-1827)
Trio WoO 37 in sol maggiore (1786)
per flauto, fagotto e pianoforte
Allegro - Adagio - Thema andante con Variazioni
GALINA USTVOLSKAYA (1873-1916)
Composition No. 3 Benedictus, qui venit 1975)
per quattro flauti, quattro fagotti e pianoforte
Come scrive Rousseau alla voce "Naturel" nella grande Encyclopédie
ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot
e D'Alembert, «la musique naturelle se dit du chant formé par la voix
humaine, par opposition à la musique artificielle, qui se fait avec des
instruments». Che la musica
sia prima di tutto "imitazione della natura" è un caposaldo teorico
dell'intero sistema estetico seicentesco, che permane almeno fino a metà
Ottocento. Il "naturel" si oppone tanto al "miraculeux" quanto all'
"artifìciel", ma non nella stessa maniera: a differenza del
"miraculeux" -
che rinvia al "surnaturel" -
l' "artifìciel" perde la dimensione naturale perché vi si aggiungono «le
soin & l'industrie de l'esprit humain, pour atteindre à quelque fin
particulière que l'homme se propose». La musica strumentale rischia dunque
di fondare la sua cifra distintiva sulla partecipazione dell'uomo e dunque per
questo appare come artificiale; la componente virtuosistica non fa che esaltare
questo allontanamento da una presunta naturalità di partenza, mettendo in
risalto «le soin & l'industrie» dell'esecutore. A partire da tale
premessa teorica, la musica strumentale trova una sua giustificazione facendo
dimenticare la componente "artificiale" e valorizzando, invece, quella
"naturale" per il tramite del canto che della natura è l'espressione
musicale più diretta. «Per ben
suonare, bisogna cantare» scriveva Tartini: l'associazione dello strumento
alla voce, viene dunque sentita come la qualità primaria dello strumentista
virtuoso ancora nel 1872, quando Baillot, in una nota al "Concours de violon
du Consevatoire de musique" ritiene necessario che un maestro di canto figuri
in commissione.
Nella Parigi
di fine Settecento troviamo la maggior concentrazione di "virtuosi"
in Europa, ma non si trattava certo del "virtuosismo" esaltato dai salotti
romantici, che ebbe qualche anno più tardi in Paganini il suo primo caso
emblematico. Tra i musicisti presenti a Parigi negli anni '80 e '90 del
Settento troviamo: i violinisti Giovanni Battista Viotti, Rodolphe Kreutzer,
Pierre Rode, il violoncellista Luigi Boccherini, il flautista François Devienne,
l'oboista Gaetano Besozzi, il fagottista Etienne Ozy e il cornista Giovanni
Punto.
Etienne Ozy, considerato il più importante fagottista del
suo tempo, prese parte ai Concert
Spirituel con molte esibizioni solistiche e presentando sue composizioni;
deve essere ricordato come autore della Nouvelle Méthode de basson, il
primo manuale che affronta l'apprendimento sistematico del fagotto in Francia.
Un'altra prova del fulgore a cui assurgeva l'uso dello strumento è lo
splendido "solo" che compare nell'aria di Neris «Medea! O Medea! È tutta
vinta e affranta» nella Medea di Cherubini, rappresentata per la prima volta al
Théâtre Feydeau di Parigi il 13 marzo 1797.
In questa temperie di grande fermento che vede, da un lato, un notevole impulso al carattere virtuosistico del fagotto (e alla sua metodica didattica), dall'altro la valorizzazione del registro tenorile dello strumento così vicino alla rappresentazione della voce umana, viene alla luce a Bonn nel 1786, il Trio del sedicenne Ludwig van Beethoven, uno dei lavori di musica da camera più rilevanti per questo strumento sul finire del secolo. Ci accingiamo a narrare brevemente le vicende che accompagnarono questa creazione.
Ludwig van Beethoven Trio WoO 37
Si ritiene che il Trio in
sol maggiore per pianoforte, flauto e fagotto (WoO 37, cioè appartenente al
catalogo delle "Werke ohne Opus", "Lavori senza numero d'opera") sia
stato scritto nel 1786 per la famiglia del Conte Friedrich von Westerholt, che
era capo attendente dell'Elettore. Il conte suonava il fagotto, mentre uno dei
suoi figli suonava il flauto, e alcuni servitori del conte erano strumentisti a
fiato. Per quanto si possa congetturare che la parte affidata alla tastiera
fosse destinata alla figlia del conte Maria Anna è difficile pensare che una
scrittura tanto tecnicamente ardua possa essere stata destinata ad una
dodicenne. La giovinetta nel 1786 studiava pianoforte con Beethoven, il quale
finirà per innamorarsi di lei, solo però nel 1788/9. Così l'ipotesi più
verosimile è che la parte pianistica del trio la eseguisse Beethoven stesso.
Con il progredire della sua abilità tecnica, comunque, è probabile che Maria
von Westerholt avesse potuto suonare il Trio con la sua famiglia, e questo
potrebbe rendere ragione delle affermazioni dei discendenti che rivendicano la
composizione del Trio espressamente per la propria famiglia. Un'altra ipotesi
risulta plausibile: che Beethoven avesse concepito il Trio per suonarlo con il
suo nuovo amico Anton Reicha, un flautista e compositore ceco che si era
trasferito a Bonn nel 1785, assieme ad uno dei numerosi fagottisti presenti a
corte. Il trio rivela in qualche tratto l'influenza di Mozart, ma in altre
parti, in particolare nel primo tempo, presenta una singolare alternanza nella
disposizione dei materiali tra episodi pianistici di carattere brillante e
virtuosistico, e sezioni che guardano a modelli antichi con realizzazioni scarne
della parte del basso riferibili alla forma della "Sonata a tre", cui del
resto l'organico strumentale quasi inevitabilmente si riferisce. Nonostante il
predominio del pianoforte, la scrittura per gli strumenti a fiato è molto
idiomatica; ci sono alcuni magnifici passaggi per il fagotto nel suo registro
tenorile, soprattutto nell'Adagio, dove ascende a tessiture molto acute che si
ritiene siano state di enorme difficoltà esecutiva ai tempi di Beethoven. Le
difficoltà tecniche nella parte per pianoforte (ed anche a tratti in quelle dei
fiati) sorgono principalmente da figurazioni scomode che fanno spesso uso di
grandi salti: soprattutto per quanto riguarda la parte pianistica, e
considerando la grande abilità tecnica di Beethoven pianista negli anni della
sua gioventù, questo sorprende non poco: la parte sembra scritta in modo molto
teorico con poca attenzione a favorire un certo agio esecutivo, e ancor meno a
mettere in rilievo le qualità virtuosistiche dell'interprete. Appaiono invece
superati i problemi di disarticolazione che si notano in alcuni dei lavori
giovanili di Beethoven e l'alternanza delle sezioni avviene in modo fluido e
organico; è da notare anche come il movimento lento sfoci nel Finale senza
interruzioni, espediente comune ai lavori del periodo di mezzo di Beethoven, ma
raro prima del 1800. Questo Trio considerato nel suo insieme, nonostante una
scrittura melodica, molto attraente, non dà certo prova che Beethoven al tempo
dominasse l'arte dello sviluppo motivico che diventerà il carattere
distintivo del suo stile posteriore.
L'eterogeneo affresco sonoro che Heitor Villa Lobos dedica a Bach con le Bachianas
brasileiras, un ciclo di nove composizioni scritte fra il 1930 e il 1945,
con un organico variabile dall'orchestra da camera alla grande orchestra, ha
due sole eccezioni nel quarto numero (un brano pianistico del 1930,
successivamente orchestrato nel 1941) e nel sesto numero, la Bachiana
che ascolteremo questa sera. Se si può evidentemente pensare che non potesse
mancare, all'architettura di questo ciclo, un'opera dedicata al confronto
con le opere di Bach per tastiera, la presenza della sesta Bachiana
per flauto e fagotto è emblematica. Eppure un ascolto attento di questo
meraviglioso lavoro ci rivela il fagotto come l'unico strumento moderno in
grado di raffigurare la melancolia, tratto
pregnante nelle esibizioni dei musicisti di strada, il Choro (dal portoghese, pianto, lamento) vera e propria anima della
musica popolare del Brasile.
Heitor Villa Lobos Bachianas brasileiras No. 6
Non è certo un'esagerazione affermare che Villa-Lobos ha
portato la musica brasiliana all'attenzione del mondo culturale
internazionale. Dopo aver viaggiato a lungo in gioventù, fino a sentire sulla
propria pelle gli idiomi della musica popolare sudamericana e caraibica ed esser
vissuto per gran parte degli anni '20 a Parigi, Villa Lobos rientrò in
Brasile nel giugno del 1930. Nominato responsabile dell'educazione musicale di
Rio de Janeiro nel contesto della radicale trasformazione delle istituzioni
brasiliane promossa da Getúlio Vargas, assunse l'incarico con grande
responsabilità e il suo stile compositivo ne fu profondamente influenzato: lo
stile sofisticato che aveva coltivato a Parigi venne temperato accogliendo una
marcata influenza della musica folkloristica brasiliana. «La mia opera è la
conseguenza di una predestinazione, è in grande quantità perché frutto di una
terra immensa, ardente e generosa». Così Villa Lobos descriveva il suo
rapporto con la musica, che
scaturiva in lui spontaneamente e lo chiamava ad una attività compositiva senza
posa. Il catalogo delle sue composizioni, che colpisce anche per
la sua vastità, rispecchia
l'anima dei diversi popoli del Brasile (indios, bianchi, neri) colti sullo
sfondo di una natura esuberante e di città in perpetua trasformazione. Non era
meno sorprendente come strumentista. Aveva imparato il violoncello e il
clarinetto con suo padre. In seguito, suonando insieme ai musicisti di strada
nelle ruas di Rio, aveva il ruolo del chitarrista virtuoso. A poco a poco
arrivò a suonare tutti gli strumenti acquisendo un inedito senso del timbro,
del «contrappunto logico, non scolastico» come egli stesso amava definirlo.
Fin dall'adolescenza Villa-Lobos era stato affascinato
dalla musica di Bach; in un primo tempo vi aveva trovato analogie con la musica
tradizionale brasiliana, per poi convincersi che essa rappresenta una fonte
folklorica universale e un legame tra tutti i popoli. Nelle
Bachianas l'autore fa uso di idiomi brasiliani trattandoli con
tecniche contrappuntistiche e armoniche direttamente derivate dall'epoca
barocca: quasi tutti i movimenti
infatti sono presentati con doppi titoli che alludono sia a movimenti della
Suite barocca che a specifici stili popolari brasiliani.
La Bachiana brasileira nº 6 del 1938, evoca
il contrappunto imitativo delle Invenzioni
a due voci di Bach; l'uso controllatissimo della dissonanza permette di identificare il pezzo
come un prodotto di un era più moderna, ma non snatura la sua forza che lo colloca
fantasmagoricamente nell'età barocca. Il primo movimento, Aria
(Choro) è, come si diceva, direttamente ispirato ai musicisti di strada con
il loro tipico procedere musicale calmo e imperturbabile: le lunghe frasi
melodiche sono giustapposte e intersecate a complessi passaggi virtuosistici, la
cui difficoltà tecnica è sempre volutamente posta in ombra dal fulgore del
canto. La natura emozionale dell'Aria
confluisce con naturalezza nella seguente Fantasia,
uno dei pochi brani della serie delle Bachianas che manca di un titolo
brasiliano; scritta con la mano sicura da un compositore che ha praticato
l'arte dell'improvvisazione fino allo sfinimento e per questo ha trovato in
se stesso un'intima fratellanza con l'arte di Bach, la Fantasia è ben lontana, ovviamente, dall'essere la trascrizione
di un'improvvisazione, ma ne
restituisce meravigliosamente il senso fissandone le movenze, i gesti, le
astuzie sulla carta da musica.
La funambolica densità di micro-riferimenti alla nostra memoria di ascolto, che troviamo nei sette minuti di Music Blog di Paolo Furlani, che questa sera conosce la sua prima esecuzione assoluta, trovano, a onor del vero, pochi riferimenti nella letteratura. Così ce ne parla il compositore:
Paolo Furlani Music blog
Ho scritto questo brano come un inedito <>Music Blog, "postando" per un po' di giorni un pensiero musicale, un frammento, appena sviluppato, partendo da un incipit già denso di significati. Un diario dell'anima e della memoria: molti sono i richiami a frammenti d'autore, in un intreccio continuo tra passato e contemporaneità che, credo, sia il modo in cui noi musicisti viviamo il nostro presente.
1. Il primo episodio è basato su un arpeggio per terze che genera un accordo "impossibile" (anche perché velocissimo). Un occhiolino agli accordi che aprono "The Turn of the Screw" di Britten.
2. Un confronto sul diverso modo di realizzare il ribattuto nei due strumenti.
3. Poi un Notturno inquietante, un lamento funebre, un pensiero triste rivolto alle sofferenze patite da Chizuko nella sua convalescenza.
4. Piccolo omaggio a Schumann: una "Novelletta"… malata, impazzita: una progressione ascendente continua, falsamente tonale, derivata dall'intreccio di scale discendenti.
5. Segue una piccola Berceuse politonale (che ricorda qualche "Romance" di Poulenc): tre frasi simili, col Flauto che lotta, cantando, per sganciarsi dalla regolarità metrica del Piano.
6. Fughetta, che richiama sia la "Sinfonia dei salmi" di Stravinsky (nella testa del Soggetto e nella disposizione pianistica) sia la scrittura contrappuntistica di Barbara Rettagliati.
7. Un omaggio al "Volo del calabrone" di Rimskij-Korsakov, qui ridotto a una zanzara, piuttosto fastidiosa, melodicamente e armonicamente.
8. Lied. Piccolo labirinto cromatico, ricco di triadi che pericolosamente scivolano ai limiti della tonalità; come un omaggio ai "Wesendonk Lieder" di Wagner.
9. Poi un piccolo Studio sulle scale e sul détaché, ricco di numeri e calcoli nella scelta delle durate e degli intervalli, come nelle "Études pour piano" di Ligeti e nella mia opera "Il principe granchio".
10. Infine, a chiudere il cerchio, una piccola "Scena" d'opera: Orfeo volge lo sguardo all'indietro e… succede l'irreparabile! Echeggia il suo lamento bisillabo: «Addio…» ["Farewell…"], su una terza minore discendente. Mentre si allontana, con la profonda nostalgia di qualcosa perduto per sempre, sembra che anche Euridice si unisca al lamentoso congedo. Un saluto alla luminosa Chizuko. (Paolo Furlani)
Torniamo, dopo questo breve "intermezzo", a puntare i riflettori sul protagonista di questa inusuale serata. Per quanto possa sorprendere non esisteva alcun lavoro di rilievo per fagotto solo, composto prima della fine della seconda guerra mondiale e dunque la Partita (1969) di Gordon Jacob - musicista che amava la sfida di cimentarsi con strumenti poco frequentati in letteratura - è senz'altro da ritenersi un lavoro importante per la storia dello strumento. Per quanto la sua musica sia sempre stata molto amata dagli interpreti, Jacob fu spesso rifiutato da molti esponenti dell' avanguardia per il suo porsi - a loro dire, acritico - come epigono dei grandi del passato; invece l'amore per i classici, si tradusse nel tentativo «di avvicinarsi al loro spirito di avventura e alla loro indipendenza di pensiero», per trarne ispirazione e non certo per imitarne lo stile.
Gordon Jacob Partita
La Partita
(scritta per il fagottista William Waterhouse) è una degli oltre settecento
lavori lasciataci da Gordon Jacob nella sua lunga attività di compositore, che
fu peraltro sempre affiancata da quella di docente di composizione al Royal College of Music di Londra, a proposito della quale sono da
citarsi almeno due testi fondamentali: The
composer and his art (1955) e The
elements of orchestration (1962). La Partita
ha una scrittura semplice, sobria e godibile all'ascolto, guarda ai modelli
barocchi e classici, ma si fa a tratti marcatamente cromatica, spigolosa e
dissonante. Fortemente convinto che « il giorno in cui si abbandonerà
completamente la melodia si spegnerà la musica», Jacob era altresì animato da
una forte urgenza comunicativa: «non si vorrebbe mai semplificare per il
pubblico, ma al tempo stesso mi ripugna lo snobismo intellettuale di alcuni
artisti progressisti».
La Partita,
uno dei «miei piccoli pezzi senza
pretese» - come egli
stesso li definiva - è divisa in cinque brevissimi movimenti (Preludio,
Valse, Presto, Aria Antiqua, Capricietto), tutti, ad eccezione del quarto,
scritti in tempi rapidi. Tranne che nell'ultimo movimento,
la forma è bipartita o tripartita, e la struttura fraseologica
quasi ovunque ciclica di quattro misure. I brani non possono definirsi
propriamente tonali, ma piuttosto tendenti ciascuno ad un focus
tonale diverso: in sequenza possiamo ravvisare un interessante scorrere
dei seguenti ambiti: La minore, Fa maggiore/minore, Do maggiore,
Re minore, Fa maggiore/minore.
Nino Rota Toccata
Domenico Losavio, brillante fagottista, prima allievo e poi docente al Conservatorio di Bari, sollecitò nel 1974 il suo Direttore a comporre qualcosa per il suo strumento. Nacque così la Toccata per fagotto e pianoforte (1974), l'ultima composizione da camera di Nino Rota, da cui germinerà successivamente il Concerto per fagotto e orchestra (1974/77). In un autorevole commento di Ennio Morricone - musicista che condivise con Rota la sorte di ritrovarsi uno smisurato talento per la musica da film, e di dedicare ad essa gran parte della sua attività professionale - viene affrontata una importante problematica: «Non avevo mai capito come facesse Rota (e poi ho capito) a scrivere la musica del cinema e poi il concerto, l'opera: era la stessa cosa che lui stava facendo[…] Lui scriveva e basta, non aveva il problema dell'ambiguità che io ho, senza fare paragoni. Io faccio un esercizio quando non scrivo la mia musica, lui invece faceva sempre la sua musica». Dunque in Rota non un atteggiamento bicefalo, dicotomico, nell'affrontare le due - pur parenti - forme d'arte, ma una continua, pulsante, compenetrazione di valori. Nelle sue ultime opere cameristiche, talora affidate a desueti organici (tra le quali spicca l'Aria e Marcia per contrabbasso e pianoforte) ritroviamo, arricchito dal consueto gusto per il timbro strumentale di matrice impressionista, un gioioso, ironico apparire di tutte le sue passioni musicali, il cinema, il teatro, addirittura - nell'episodio centrale della Toccata - la musica sacra: apparire e nulla più poiché Rota - compositore dalla solidissima preparazione - si divertiva a costruire "sviluppi" di materiali tematici con una ironia che si direbbe quasi indirizzata a sconcertare i musicologi impegnati ad analizzare la sua musica. Basti pensare che il "tanto atteso" sviluppo dei materiali tematici nella Toccata, si risolve nella degustazione di un semplice, cullante, andamento in arpeggi!
Un impiego estremo del fagotto nelle prime battute de Le sagre du printemps di Stravinskij - al punto da rendere irriconoscibile lo strumento alle orecchie di Saint-Saëns alla première parigina - è stato il primo episodio che ha letteralmente rivoluzionato l'immagine sonora dello strumento. In Composition No. 3 di Galina Ustvolskaya, per quattro flauti, quattro fagotti e pianoforte, si assiste ad un'altra fenomenale invenzione timbrica: la scrittura tratta gli ensemble omogenei come agglomerati strumentali inscindibili, costruendo una sorta di brano cameristico per iper-flauto, iper-fagotto e pianoforte. Il Trio è costruito pensando a tre entità sonore - la vecchia tastiera del pianoforte e le due nuove costituite dagli ensemble di flauti e fagotti - che procedono ciascuna formando una linea indipendente, una sorta di contrappunto di Cluster-melodie.
Galina Ustvolskaya Composition No. 3 "Benedictus, qui venit"
Galina Ustvolskaya e il suo maestro Dimitri Shostakovic si
formarono entrambi al Conservatorio di Leningrado diplomandosi rispettivamente
nel 1947 e nel 1924. Entrambi personaggi schivi ed emblematici ebbero però due
atteggiamenti diametralmente opposti di fronte alle imposizioni autoritarie del
regime sovietico: mentre Šostakovic
raccoglieva le gioie e i dolori di una carriera pubblica, la
Ustvolskaya si isolava da ogni rapporto con le istituzioni, percorrendo
un non facile cammino artistico, indipendente e solitario.
Rispettata solo a malincuore dai colleghi in Unione
Sovietica, ed ancor oggi poco valorizzata nel contesto della musica russa
contemporanea, Galina Ustvolskaya ebbe però sempre la stima di Shostakovic: «Sono
convinto che la musica di Galina
Ivanovna Ustvolskaya conoscerà fama mondiale, e sarà apprezzata da tutti
coloro che hanno consapevolezza che la verità nella musica è di importanza
fondamentale». E ancora in una lettera inviata alla sua allieva: «Non è lei
ad essere influenzata da me, ma piuttosto io ad essere influenzato da lei». L'ammirazione
di Shostakovic è testimoniata anche dalla citazione di un tema originale del Trio
per clarinetto violino e pianoforte della Ustvolskaya (1949) nel primo movimento
del Quinto Quartetto per archi di (1952), e di nuovo nel movimento Notte
della Suite di Michelangelo (1974).
Lo sviluppo dei materiali
per ripetizione, l'uso degli ostinati e l'inflessibile severità
contrappuntistica, sono senz'altro tratti che accomunano la musica della
Ustvolskaya a quella del suo maestro, ma in Shostakovic è sempre presente un
articolato intento narrativo, elemento estraneo alla poetica della Ustvolskaya,
che sembra mettere a confronto la sua ansia per le incertezze con una sicurezza
allarmante; votarsi al misticismo, all'esaltazione, ma anche imporsi un rigido
controllo sulle passioni; aderire una visione ombrosa - a tratti lugubre - del
destino umano, ma sorreggersi ad una fede solidissima.
La compositrice insiste nei
suoi scritti sulla sua completa indipendenza da qualunque scuola o influenza
compositiva, come anche una tendenza ad allontanarsi - senza fratture e con un
austero rispetto - dalle forme e dai contenuto della tradizione. La critica,
spaesata dalla concisione e dalla potenza di una delle musiche più inquietanti
e intransigenti della nostra epoca, ha voluto intravedere legami - che a noi
sinceramente paiono assai deboli - con i percorsi artistici di autori quali
Giacinto Scelsi, Mirolslav Kabelac e Allan Petterson, addirittura affinità con
il Minimalismo.
Nella Composition No. 3 del 1974/75,
il cui sottotitolo Benedictus qui venit,
indica una evidente relazione con la messa cattolica, l'associazione timbrica dei quattro flauti, dei quattro fagotti e
del pianoforte serve a evocare il
cangiante mistero di un suono che proviene da un altro mondo.
Si tratta di una fra le
molte composizioni dell'autrice scritte senza stanghette di battuta,
espediente che permette una flessibilità metrica più ampia e consente
all'esecutore una maggior riconoscibilità delle ampie arcate melodiche del
lavoro. Pur essendo proposto all'inizio un tema, dall'inquietante carattere
di marcia, vi è un chiaro intento di trasfigurarlo con aspre spigolosità,
improvvise deviazioni, inserti di brutali silenzi, quasi a fargli attraversare un mare in tempesta,
per poi ricondurlo, solo nelle battute finali, enimagmaticamente, alla sua
ombrosa origine.