Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Giovedì 24 novembre 2011, ore 20.00


CURVA SPAZIOTEMPORALE CHIUSA



Ex Novo Ensemble
Davide Teodoro clarinetto
Carlo Lazari violino
Annamaria Pellegrino violino
Mario Paladin viola
Carlo Teodoro violoncello


Guida critica di Stefano Bellon


WOLFGANG AMADEUS MOZART (1756-1791)
Quintetto in la maggiore KV 581 (1789)
Allegro - Larghetto - Menuetto - Allegretto con variazioni

ROBERT SCHUMANN (1810-1856)/FERRUCCIO BUSONI (1866-1924)
Abendlied op. 85 nº 12 (1849)
trascrizione di Ferruccio Busoni per clarinetto e quartetto d'archi (1880)

PËTR ILIC CAJKOVSKIJ (1840-1893)/TORU TAKEMITSU (1930-1996)
Herbstlied (1876)
trascrizione di Toru Takemitsu per clarinetto e quartetto d'archi (1993)

SALVATORE SCIARRINO (1947)
Quintettino nº 1 (1976)

MORTON FELDMAN (1926-1987)
Two Pieces (1961)

STEFANO BELLON (1956)
Elegy in a cube (2011)
per quartetto d'archi
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta


PRESENTAZIONE

L'espressione che connota questo concerto è desunta dalla fisica: una "curva spazio-temporale chiusa" è una linea di universo, che un oggetto percorrerebbe in determinate condizioni teoriche, sia nello spazio che nel tempo, da un determinano punto di partenza fino a ritornare a quello stesso punto iniziale (viaggiando, quindi, a ritroso nel tempo). Dunque, passato e futuro non hanno il tradizionale rapporto consequenziale, ma quest'ultimo può invertirsi. D'altro canto, secondo la teoria della relatività ristretta è più naturale pensare ad una realtà quadridimensionale (la quarta dimensione è appunto il tempo), caratterizzata da un "continuum spaziotemporale", dove passato e futuro sono compresenti. Ne risulta, in ogni caso una visione assai più problematica del concetto di tempo, del rapporto tra passato e futuro.
Per altre vie il concetto classico di tempo è stato messo in discussione anche dal filosofo francese Henri Bergson con la sua teoria della durata interiore: il tempo non ha uno svolgimento diacronico, ma si dilata, si restringe, si sovrappone a se stesso, si annulla, proprio secondo i ritmi della coscienza. Questa concezione - assieme a quella di William James, per cui la coscienza è un pensiero che si presenta come un flusso indistinto che scorre nella mente umana - influenzò non poco la narrativa novecentesca.
Gli scrittori di inizio Novecento tentano di mettere in luce, attraverso le loro opere la parte sommersa di quell' "iceberg" la cui punta visibile rappresenta la parte razionale della persona. A questo scopo vengono sviluppate nuove forme espressive che ricordano per certi versi quelle tipiche del cinema, dal flash-back al fade-out, allo slow-up e altri artifici che permettono di creare più livelli di narrazione. Inoltre alcuni scrittori arrivano a stravolgere le regole morfosintattiche attraverso l'omissione della punteggiatura, costruzioni di anacoluti e, addirittura, veri e propri errori formali, che destrutturano la lingua, rendendola così più duttile nell'espressione immediata dell'attività psichica dei personaggi.
Esempi classici di queste strategie innovative poste in atto per rivitalizzare l'atto dello scrivere sono il fiume di parole e di pensieri senza ben definita scansione cronologica che troviamo in Ulysses di James Joyce o il "tempo misto" in cui avviene la narrazione nella Coscienza di Zeno di Italo Svevo.
La tecnica usata è quella del monologo interiore, atto a rappresentare lo stream of consciousness (flusso di coscienza), dove spazio e tempo non appaiono più concetti oggettivi, ma sono variamente deformati attraverso il filtro della soggettività.

Problematica, sotto certi aspetti, anche la concezione del tempo che si evince dal programma di questa serata, nella quale domina un capolavoro assoluto della letteratura cameristica, si potrebbe dire con retorica "un'opera d'arte fuori dal tempo", mentre nella seconda parte si apre una rassegna di brevi brani, tra loro senz'altro eterogenei quanto a collocazione temporale, sintassi timbrica e armonica, destinazione, ma fortemente legati da una necessità di parafrasi della memoria. Abendlied di Robert Schumann e Herbstlied di Pëtr Il'ic Cajkovskij nelle versioni - rispettivamente - di Ferruccio Busoni e Toru Takemitsu risuonano in due dimensioni temporali diverse, quella dell'autore originario e quella del trascrittore: e l'esperienza di ascolto ci dimostrerà che il "viaggio nel tempo" non avviene solo nel suo senso "naturale" cioè dalla sensibilità dell'autore antico verso quella del suo co-autore "moderno", ma anche in senso opposto poiché il trascrittore facendo leva su potenzialità espressive a lui care - ma latenti nel testo originale - ne propone un "restauro conservativo" che segue i canoni del "moderno", dunque squisitamente deformante. Nei lavori di Sciarrino e Feldman, assistiamo invece ad una forte volontà di rilettura circolare di materiali semplici: processo fortemente strutturato proprio per evitare qualsiasi possibilità per l'ascoltatore di ricordare anche brevi frammenti motivici; nessun gesto musicale dovrà dunque risultare marcato nella memoria, proprio per consentire a chi vive questa esperienza di ascolto di entrare in un "continuum spaziotemporale", cioè in un tempo deprivato della sua naturale direzionalità.


Wolfgang Amadeus Mozart Quintetto in la maggiore KV 581

Quintetto col clarinetto è stato scritto per Anton Stadler (1753-1812), virtuoso di clarinetto e di clarinetto di bassetto, amico e "fratello di loggia massonica" di Mozart. Passione tardiva ma intensissima quella di Mozart per questo strumento che lo accompagnò, con frequenti apparizioni di rilievo solistico, in tutte le grandi opere dell'ultimo suo periodo creativo. Alla prima esecuzione, un ricevimento prenatalizio per raccogliere fondi a favore delle vedove dei musicisti viennesi, e come già era avvenuto per il Trio K 498, Mozart stesso suonava la viola accanto all'amico Stadler: a questo evento è legato un episodio curioso, in quanto Mozart affidò alla viola, strumento per tradizione relegato a funzioni di ripieno armonico, un breve momento solistico (la variazione "in minore" dell' ultimo movimento) costruito utilizzando un patetico inciso ripetuto con caparbia ostinazione: un grande effetto teatrale, che interrompe il clima di brillante svago che caratterizza il resto del movimento e nel quale spesso la critica ha scorto la parodia di un incedere noioso, stanco e brontolone di uno strumento non capace di slanci virtuosistici. Queste variazioni su un semplice tema di carattere infantile, come piaceva a Haydn, chiudono il Quintetto e costituiscono l'unico momento di trattazione virtuosistica dei ruoli strumentali: Mozart, infatti, conscio che questo complesso particolare richiedeva un approccio diverso da quello impiegato per Quintetti KV 515 e KV 516 per archi, ha concepito l'opera non come una «conversazione alla pari tra cinque begli spiriti», ma pensando al clarinetto come un ospite da accogliere con il suo particolare mondo espressivo. Era necessario dunque riplasmare le condotte dialogiche tra i protagonisti di questa avventura sonora, con attenzione a non porre il clarinetto in una posizione predominante (sminuendo così la chance di un «conversare alla pari») e con disponibilità ad accogliere la timbrica dolce e sensuale dello strumento, nell'affresco di un vero e proprio trionfo della cantabilità, culmine luminoso di una serie di lavori (comprendente i tre quartetti per Federico Guglielmo II), che tradiscono la loro vicinanza a Così fan tutte.
Nel primo tempo, ancor prima dell'entrata in campo del clarinetto con una aerea figurazione in arpeggi, un chiaro mattino di primavera sembra accoglierci con le note dello splendido tema in la maggiore. Il secondo tema, anch'esso presentato dagli archi, è pensato per essere subito ripreso dal clarinetto, nel modo minore della dominante, accentuandone il carattere nostalgico. Lo sviluppo ci rivela come Mozart ritenesse l'elaborazione tematica del tutto estranea a questa composizione, i cui temi sono stati inventati allo scopo di rifulgere di luce propria.
Il famoso e bellissimo larghetto, un vero gioiello di bel suono, sfrutta la nobile cantabilità del clarinetto, i cui suoni bassi (nel caratteristico registro dello chalumeau) trovano un efficacissimo impiego; nella seconda parte l' "assolo" sarà ripercorso in un duetto tra clarinetto e primo violino, mentre gli altri strumenti li accompagnano con accordi mollemente dondolanti.
Nel minuetto i cinque strumenti si riuniscono; il primo dei due trii, con i suoi toni cupi, è affidato agli archi soli, mentre il secondo trio riconduce il clarinetto quasi al ruolo di strumento popolare. Tuttavia, già con le cullanti battute d'eco che seguono all'inizio della seconda frase del tema, assistiamo a una genialissima stilizzazione del tono popolare, che si manifesta poi anche nel misterioso ritorno al tema iniziale e nella sua ripresa variata.


Robert Schumann /Ferruccio Busoni Abendlied op. 85

Robert Schumann concepì i suoi 12 vierhändige Clavier Stücke für kleine und grosse Kinder op. 85 per un uso familiare. Il 6 Settembre 1849 Schumann suonò il primo pezzo, la Geburststags-Marsch con la figlia Marie, di otto anni, per il trentesimo compleanno della madre Clara.
L'editore Schuberth di Amburgo sperando di replicare l'enorme successo ottenuto l'anno prima con Album für die Jugend op 68, annunciò una seconda raccolta, ponendo l'accento sul carattere di continuazione dell'op 68. Seguendo le regole commerciali dell'editoria del tempo, allo scopo di accrescerne la diffusione, ne propose immediatamente trascrizioni per pianoforte solo (Carl Reinecke) e per violino o violoncello e pianoforte (Friedrich Hermann). Il successo editoriale, però, si limitò all'ultimo brano della raccolta, l'Abendlied, che divenne ben presto la più nota opera di Schumann nel XIXº secolo con più di trenta versioni per i più diversi organici in vendita. Il compositore Teodor Kirchner, fervente ammiratore di Schumann, ammise che avrebbe scambiato tutta la propria produzione (più di un migliaio di pezzi pianistici e lieder) per quest'unica composizione. Joseph Joachim lo trascrisse per violino e piccola orchestra nel luglio del 1861 per commemorare il quinto anniversario della morte di Schumann. La «Riduzione per Clarinetto con accomp. di Quart. ad arco» di Ferruccio Busoni fu probabilmente realizzata negli anni in cui Busoni si trovava a Graz (1878-1881), contestualmente alla Suite in Sol minore per clarinetto e Quartetto d'archi, ad uso concertistico del padre, il clarinettista virtuoso Ferdinando Busoni.
«Debbo a mio padre la fortuna d'essere stato molto severamente spinto, nella mia fanciullezza, allo studio di Bach; e questo in un'epoca e in un paese, in cui il maestro non era valutato molto più di un Carl Czerny. Quale sano istinto abbia portato mio padre, semplice virtuoso di clarinetto (a cui piaceva suonare fantasie sul Trovatore e sul Carnevale di Venezia) , uomo di educazione musicale insufficiente, italiano e amatore del belcanto - quale istinto abbia portato proprio un uomo simile, animato dall'ambizione che coltivava per suo figlio, a indovinare la sola strada giusta: mi sembra una misteriosa disposizione del destino». Come scrive Sergio Sablich, Bach fu per Buson «maestro di arte e di vita» e studiando la musica di Bach si forma in Busoni la convinzione che «ogni notazione è già trascrizione di un'idea astratta. […] Nel momento in cui la penna se ne impadronisce il pensiero perde la sua Forma originale. L'intenzione di fissare con la scrittura l'idea impone già la scelta di un ritmo e di una tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere determinano sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto dell'indistruttibile carattere originario dell'idea qualcosa permanga, tuttavia a partire dal momento della scelta questo carattere viene ridotto e costretto a un tipo già classificato. L'idea diventa una sonata, un concerto; e questo è già un adattamento dell'originale. Da questa prima alla seconda trascrizione il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione originale, e che quindi non si perde questa per colpa di quella. [...] Perché l'opera d'arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo».


Pëtr Il'ic Čajkovskij/Toru Takemitsu Herbstlied

Nei sei mesi centrali del 1876 Čajkovskij non compose opere di rilievo ma non si può dire che sia stato un periodo del tutto infruttuoso. Dal dicembre 1875 al novembre 1876 Čajkovskij compose ed inviò mensilmente al periodico Nuvellist di Pietroburgo un pezzo pianistico ispirato al mese in cui il periodico veniva pubblicato; il direttore di Nuvellist, Nikolaj Bernard sceglieva alcuni versi da premettere alla composizione: i titoli dei brani sono in russo e in francese, i versi in russo, le indicazioni agogiche in italiano; diventeranno presto i più celebri pezzi pianistici di Čajkovskij.
Come annotato da Kashkin, Čajkovskij riteneva questi dodici pezzi, chiamati nel loro insieme Le Stagioni, pezzi d'occasione di scarsa importanza, e per non saltare qualcuna delle date in cui si era impegnato a consegnarli aveva incaricato il suo servitore di ricordargli l'impegno, molto puntigliosamente. Non è difficile prestare fede al racconto secondo il quale, una volta al mese, nel giorno prescelto, il servitore diceva: "Pëtr Ilic, è tempo di spedire a S. Pietroburgo", e Pëtr Ilic scriveva un singolo pezzo di getto e lo spediva. Le Stagioni aspirano ad essere autentici pezzi di musica da salotto, nei quali dunque nulla è mai davvero sorprendente per l'ascoltatore. Il decimo, Chant d'automne, reca questi versi: «Autunno, si sfoglia del tutto il nostro povero giardino/le foglie ingiallite volano al vento…» del conte Aleksej Konstantinovic Tolstoj (1817-1875) lontano cugino del più noto Lev Nikolaevic Tolstoj (1828-1910). L'andamento (Andante doloroso e molto cantabile) è quello di una romanza per canto e pianoforte; il brano è solcato da una dolce vena pittoresca probabilmente ispirata all'epigrafe poetica del verso di Tolstoj; in tonalità di re minore e in tempo binario, una melodia asimmetrica (proposta di quattro battute, risposta di cinque) viene presentata prima all'acuto, poi al grave con una conclusione che va smorzandosi con grande perizia. La tessitura melodica principale è arricchita da una melodia secondaria nel registro di tenore, tecnica spesso magistralmente usata da Čajkovskij per esempio nel Pas d'action con i soli violino e violoncello nel secondo atto del Lago dei Cigni.
La trascrizione di Toru Takemitsu di Chant d'automne (Herbstlied, il titolo in lingua tedesca) per clarinetto e quartetto d'archi ha visto la sua prima esecuzione nel settembre del 1993 allo Yatsugatake Kogen Festival di Nagano. Ultimo piccolo omaggio di Takemitsu nel contesto della sua ventennale collaborazione con il grande virtuoso Richard Stoltzman. La collaborazione tra Takemitsu e Stoltzman risale già al 1975 quando Takemitsu compone per l' Ensemble Tashi - di cui Stoltzman fa parte - Quatrain (1975) e Quatrain II (1977, per ensemble e orchestra), per coronarsi nel 1991 con il Concerto per clarinetto e orchestra Fantasma/Cantos. Non è certo un mistero l'amore di Takemitsu per l'Autunno, lo testimoniano innumerevoli titoli di sue composizioni: November Steps (1967), Autumn (1973), A String Around Autumn (1989), In an Autumn Garden (1979), e dunque anche la trascrizione di Herbstlied è sicuramente frutto di una ritrovata sintonia con i tanto amati autori romantici. Come in tutta la musica di Takemitsu emerge limpida la volontà di un confronto a viso aperto con la tradizione musicale occidentale. Nella sua ultima intervista (con la pianista Noriko Ogawa, per la BBC), Takemitsu affermava che «se per qualche ragione la musica di oggi sembra aver dimenticato il canto, io penso che imparare da esperienze del passato, ad esempio da Brahms - non per guardare indietro, ma per creare cose nuove - sia molto importante per un compositore». Una estrema accuratezza di fattura, consente a Takemitsu di coniugare la rigorosa aderenza all'originale con la propria cifra stilistica personale, costituita da un colore di suono continuamente cangiante, ottenuto mediante raffinate variazioni timbriche tra suoni armonici e naturali, negli strumenti ad arco.

Salvatore Sciarrino Quintettino n°1

Il Quintettino n°1 per clarinetto e quartetto d'archi di Salvatore Sciarrino è idealmente parte di un dittico completato dal Quintettino n°2 per strumenti a fiato. Dedicato al clarinettista Michel Arrignon è una sorta di miniatura dove con accuratezza di cesello vengono esibiti tutti quegli artifizi tecnico strumentali per ottenere quel suono impalpabile, mai statico, sempre in divenire tipico della poetica sciarriniana. Al quartetto d'archi - che crea un tessuto sonoro quasi aereo, volatile, fatto di un caleidoscopico pulviscolo di suoni: armonici, flautati, sfiorati, battuti - si contrappone la presenza più materica del clarinetto con formicolanti glissandi microtonali, immobili bicordi e più aggressivi multifonici. La struttura si compone di una prima parte dall'andamento quasi ondivago che sfocia in una furioso prestissimo conclusivo. Per Salvatore Sciarrino «dovrebbe giungere sempre per l'artista un momento in cui il linguaggio si semplifica, in cui la coscienza alleggerisce lo stile dalle molte sovrastrutture dell'Io: un affinarsi interiore cui fosse subordinato, d'ora in poi, ogni problema tecnico.» Questi due Quintettini documentano un momento di transizione nella poetica di Salvatore Sciarrino, quasi l'autore stia attraversando «un arcipelago di opere che riflette questa svolta». «Vi si può leggere una ulteriore attenzione alla psicologia nell'organizzare la forma: le simmetrie - quelle più speculari - verranno abbandonate, per balenare solo nell'illusorietà del percepire. Allora il discorso distillò una dimensione straniata, di deformazione prospettica, e la fisiologia, appena riscoperta, fu assottigliata per discendere meglio alle origini del pensiero.
Già la trasformazione sonora, rendendo irriconoscibili gli strumenti, sottraeva per così dire la fonte all'ascoltatore. A partire da quegli anni il suono si spazializza fortemente, sono indotte altre sensazioni, le caratteristiche di una percezione globale. Il pianissimo, non più semplice attributo, diviene veicolo ed essenza del suono lontano. E le sue folate non provocano un incresparsi della musica pura, la disgregazione logica. Al contrario, vi si manifesta una realtà sonora che vive al di là, misteriosamente ai limiti della notte: la mente si fa spazio all'immagine, e questa è portatrice di senso.»


Morton Feldman Two Pieces

Two pieces for clarinet and string quartet fanno parte di un gruppo di lavori di Morton Feldman (come Intervals, O'Hara Songs, For Franz Kline del 1961/2) di poco posteriori alla composizione delle cinque Durations, scritte tra il 1960 e il 1961. Il mondo sonoro di questo periodo creativo si contrappone a quello degli anni '50 (il cosiddetto "periodo grafico") poiché Feldman era riuscito a risolvere, almeno provvisoriamente, uno dei dilemmi che lo assillarono per tutta la vita: come ottenere un buon risultato musicale pur eliminando il controllo su alcuni parametri sonori. L'esperienza della Intersection del 1951/3 aveva lasciato Feldman profondamente scontento: «Dopo diversi anni passati a comporre musica grafica cominciai a scoprire il suo peggior difetto: non stavo soltanto liberando i suoni, ma stavo anche liberando l'esecutore. Non avevo mai pensato al grafico come a un'arte dell'improvvisazione, ma piuttosto come un'avventura sonora totalmente astratta». Un severo processo di autoanalisi portò Feldman a considerare che la tendenza a leggere come improvvisazioni le sue opere, non fosse da imputarsi al "cattivo gusto" degli esecutori, ma che egli stesso «fosse ancora coinvolto in certi procedimenti e in una certa continuità che facevano ancora percepire la loro presenza». Feldman intende dire che - per quanto l'avesse combattuta strenuamente - si avvertiva nella musica la presenza di una dialettica nei materiali, e questa veniva "letta" dall'esecutore nella forma di una improvvisazione. Nella nuova serie di pezzi, le Durations, il compositore approda «a uno stile più complesso in cui ogni strumento vive la propria vita nel proprio mondo sonoro. In ognuno di questi pezzi gli strumenti attaccano simultaneamente e sono poi liberi di scegliere le durate all'interno di un tempo generale fissato: le altezze invece sono date». Del resto, come Cage osserva acutamente, tutta la musica scritta da Feldman nei decenni successivi in notazione convenzionale non sarebbe altro che la sua musica grafica "interpretata" da lui stesso. Può essere sorprendente, ma più di un critico ha osservato che For clarinet and string quartet (brano dell'ultima fase creativa di Feldman per il medesimo organico, del 1983, di 42 minuti di durata) e Two pieces for clarinet and string quartet (di 5 minuti di durata) abbiano molto in comune. Ambedue sono introspettivi, interiori, trasparenti e concisi, e nonostante la maggior delicatezza e brevità del pezzo più giovanile, le differenze sono in superficie, non di contenuto e certamente non poetiche. Questa enorme difformità di durate tra i due lavori avvalora l'ipotesi della "rilettura" circolare (e sempre difforme) del proprio stesso testo: in For clarinet and string quartet la ripetizione esatta o alterata ("simmetria danneggiata", imperfezioni che rivelano una caratteristica umana, la presenza di fantasia e fallibilità), la ripetizione al retrogrado (tanto amato lo specchio, forse perché Feldman sentiva la riflessione come una caratteristica profondamente umana), l'insistenza su motivi di due note (reminiscenza della respirazione) sono anti-strutture che evitano meccanicità e pesantezza. Entrambi i lavori mettono in luce due aspetti fondamentali della musica di Feldman: integrità di pensiero e immaginazione. L'assenza in Feldman di una melodia convenzionale e dell'uso di comprensibili mezzi formali è in realtà dovuta alle decisioni esistenziali da lui prese, scelte fedeli al suo carattere e al suo spirito. Proprio con i Two pieces che ascolteremo stasera, Feldman comincia a rinunciare alle opposizioni dialettiche (per esempio nei cambi di registro), ritenendo che il suono «abbia una sua tendenza a manifestare proporzioni proprie; sviluppando questo pensiero si finisce per scoprire che tutti gli elementi di differenziazione esistono già prima nel suono stesso e, se si vuole lasciar "essere" il suono, si deve dunque allontanare ogni desiderio di differenziazione». Gesti molto semplici creano effetti di enorme intensità; una nota singola (oppure due, tre o quattro diversamente combinate) possono costituire un motivo, che non viene mai sviluppato. Feldman trovò la bellezza, la sicurezza e la verità non nel processo (cioè nella costruzione) della composizione, ma nella poesia di collocare i suoni nel tempo: «la mia idea è più quella di "essere" il tempo che non quella di trattarlo come un elemento compositivo. No, neanche costruire con il tempo funzionerebbe: il tempo, semplicemente, deve essere lasciato stare».


Stefano Bellon Elegy in a cube

Il titolo viene da un testo in versi di John Ciardi in cui figure geometriche elementari, pur imprigionate nelle loro stesse forme, generano una combinatoria anche animistica di reazioni e suggestioni, radiosa e incantevole, secondo una dinamica incessante scatenata dalle frizioni tra geometrie e percezione. Ne vien fuori una geometria pregna di corpo, anche.
Questo in Ciardi ma, in fondo, questi sono anche gli aspetti dai quali mi sembra di essere più irretito sul piano dell'immaginazione musicale. E che un'opera provenga poi dalla tradizione, da me stesso o da altri è, sotto questo profilo, completamente irrilevante.
Nella composizione di Elegy in a Cube ho assunto con deliberato proposito una prospettiva sovrapponibile a quella schiusa nel testo di John Ciardi: ad esempio, la distribuzione anomala del quartetto sullo spazio scenico è funzionale a relazioni spaziali (quindi geometrico-percettive) inconsuete per gli interpreti innanzi tutto, ma per il pubblico e l'ascolto immediatamente dopo. Inoltre, a tali geometrie corrispondono nessi e dinamiche che - premendomi ancor più - agiscono in profondità sui diversi livelli del testo musicale. Commissionato dal Quartetto Ex Novo, Elegy in a Cube è dedicato agli esecutori. (Stefano Bellon)


(A cura di RC)