WOLFGANG AMADEUS MOZART (1756-1791)
Quintetto in la maggiore KV 581 (1789)
Allegro - Larghetto - Menuetto - Allegretto con variazioni
ROBERT SCHUMANN (1810-1856)/FERRUCCIO BUSONI (1866-1924)
Abendlied op. 85 nº 12 (1849)
trascrizione di Ferruccio Busoni per clarinetto e quartetto d'archi (1880)
PËTR ILIC CAJKOVSKIJ (1840-1893)/TORU TAKEMITSU (1930-1996)
Herbstlied (1876)
trascrizione di Toru Takemitsu per clarinetto e quartetto d'archi (1993)
SALVATORE SCIARRINO (1947)
Quintettino nº 1 (1976)
MORTON FELDMAN (1926-1987)
Two Pieces (1961)
STEFANO BELLON (1956)
Elegy in a cube (2011)
per quartetto d'archi
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta
L'espressione che connota
questo concerto è desunta dalla fisica: una "curva spazio-temporale chiusa" è
una linea di universo, che un oggetto percorrerebbe in determinate condizioni
teoriche, sia nello spazio che nel tempo, da un determinano punto di partenza
fino a ritornare a quello stesso punto
iniziale (viaggiando, quindi, a ritroso nel tempo). Dunque, passato e futuro
non hanno il tradizionale rapporto consequenziale, ma quest'ultimo può
invertirsi. D'altro canto, secondo la teoria della relatività ristretta è più
naturale pensare ad una realtà quadridimensionale (la quarta dimensione è
appunto il tempo), caratterizzata da un "continuum spaziotemporale", dove
passato e futuro sono compresenti. Ne risulta, in ogni caso una visione assai più
problematica del concetto di tempo, del rapporto tra passato e futuro.
Per altre vie il concetto classico di tempo è stato messo in
discussione anche dal filosofo francese Henri Bergson
con la sua teoria della durata interiore: il tempo non ha uno svolgimento
diacronico, ma si dilata, si restringe, si sovrappone a se stesso, si annulla,
proprio secondo i ritmi della coscienza. Questa concezione - assieme a quella
di William James, per cui la coscienza è un pensiero che si presenta come un
flusso indistinto che scorre nella mente umana - influenzò non poco la
narrativa novecentesca.
Gli scrittori di inizio Novecento tentano di mettere in
luce, attraverso le loro opere la parte sommersa di quell' "iceberg" la cui
punta visibile rappresenta la parte razionale della persona. A questo scopo
vengono sviluppate nuove forme espressive che ricordano per certi versi quelle
tipiche del cinema, dal flash-back al
fade-out, allo slow-up e altri artifici che permettono di creare più livelli di
narrazione. Inoltre alcuni scrittori arrivano a stravolgere le regole
morfosintattiche attraverso l'omissione della punteggiatura, costruzioni di
anacoluti e, addirittura, veri e propri errori formali, che destrutturano la
lingua, rendendola così più duttile nell'espressione immediata dell'attività
psichica dei personaggi.
Esempi classici di queste strategie innovative poste in atto
per rivitalizzare l'atto dello
scrivere sono il fiume di parole e di pensieri senza ben definita scansione
cronologica che troviamo in Ulysses di
James Joyce o il "tempo misto" in cui avviene la narrazione nella Coscienza
di Zeno di Italo Svevo.
La tecnica usata è quella del monologo interiore, atto a rappresentare lo stream
of consciousness (flusso
di coscienza), dove spazio e tempo non appaiono più concetti oggettivi, ma sono
variamente deformati attraverso il filtro della soggettività.
Problematica, sotto certi aspetti, anche la concezione del
tempo che si evince dal programma di questa serata, nella quale domina un
capolavoro assoluto della letteratura cameristica, si potrebbe dire con
retorica "un'opera d'arte fuori dal tempo", mentre nella seconda parte si apre
una rassegna di brevi brani, tra loro senz'altro eterogenei quanto a
collocazione temporale, sintassi timbrica e armonica, destinazione, ma fortemente
legati da una necessità di parafrasi della memoria. Abendlied di Robert Schumann e Herbstlied di Pëtr Il'ic Cajkovskij nelle versioni - rispettivamente - di
Ferruccio Busoni e Toru Takemitsu risuonano in due dimensioni temporali diverse,
quella dell'autore originario e quella del trascrittore: e l'esperienza di
ascolto ci dimostrerà che il "viaggio nel tempo" non avviene solo nel suo senso
"naturale" cioè dalla sensibilità dell'autore antico verso quella del suo
co-autore "moderno", ma anche in senso opposto poiché il trascrittore facendo
leva su potenzialità espressive a lui care - ma latenti nel testo originale -
ne propone un "restauro conservativo" che segue i canoni del "moderno", dunque
squisitamente deformante. Nei lavori di Sciarrino e Feldman,
assistiamo invece ad una forte volontà di rilettura circolare di materiali
semplici: processo fortemente strutturato proprio per evitare qualsiasi
possibilità per l'ascoltatore di ricordare anche brevi frammenti motivici;
nessun gesto musicale dovrà dunque risultare marcato nella memoria, proprio per
consentire a chi vive questa esperienza di ascolto di entrare in un "continuum
spaziotemporale", cioè in un tempo
deprivato della sua naturale direzionalità.
Quintetto col clarinetto è stato
scritto per Anton Stadler (1753-1812), virtuoso di
clarinetto e di clarinetto di bassetto, amico e "fratello di loggia massonica"
di Mozart. Passione tardiva ma intensissima quella di Mozart per questo strumento
che lo accompagnò, con frequenti apparizioni di rilievo solistico, in tutte le
grandi opere dell'ultimo suo periodo creativo. Alla prima esecuzione, un
ricevimento prenatalizio per raccogliere fondi a favore delle vedove dei
musicisti viennesi, e come già era avvenuto per il Trio K 498, Mozart stesso
suonava la viola accanto all'amico Stadler: a questo
evento è legato un episodio curioso, in quanto Mozart affidò alla viola,
strumento per tradizione relegato a funzioni di ripieno armonico, un breve momento
solistico (la variazione "in minore" dell' ultimo movimento) costruito
utilizzando un patetico inciso ripetuto con caparbia ostinazione: un grande
effetto teatrale, che interrompe il clima di brillante svago che caratterizza
il resto del movimento e nel quale spesso la critica ha scorto la parodia di un
incedere noioso, stanco e brontolone di uno strumento non capace di slanci
virtuosistici. Queste variazioni su un semplice tema di carattere infantile,
come piaceva a Haydn, chiudono il Quintetto e
costituiscono l'unico momento
di trattazione virtuosistica dei ruoli strumentali: Mozart, infatti, conscio
che questo complesso particolare richiedeva un approccio diverso da quello
impiegato per Quintetti KV 515 e KV 516
per archi, ha concepito l'opera non come una «conversazione alla pari tra
cinque begli spiriti», ma pensando al
clarinetto come un ospite da accogliere con il suo particolare mondo
espressivo. Era necessario dunque riplasmare le condotte dialogiche tra i
protagonisti di questa avventura sonora, con attenzione a non porre il
clarinetto in una posizione predominante (sminuendo così la chance di un «conversare alla pari») e
con disponibilità ad accogliere la timbrica dolce e sensuale dello strumento,
nell'affresco di un vero e proprio trionfo della cantabilità, culmine luminoso
di una serie di lavori (comprendente i tre quartetti per Federico Guglielmo
II), che tradiscono la loro vicinanza a Così fan tutte.
Nel primo tempo, ancor prima dell'entrata in campo del
clarinetto con una aerea figurazione in arpeggi, un chiaro mattino di primavera
sembra accoglierci con le note dello splendido tema in la maggiore. Il secondo
tema, anch'esso presentato dagli archi, è pensato per essere subito ripreso dal clarinetto, nel modo minore della
dominante, accentuandone il carattere nostalgico. Lo sviluppo ci rivela come
Mozart ritenesse l'elaborazione tematica del tutto estranea a questa
composizione, i cui temi sono stati inventati allo scopo di rifulgere di luce
propria.
Il famoso e bellissimo larghetto,
un vero gioiello di bel suono, sfrutta la nobile cantabilità del clarinetto, i
cui suoni bassi (nel caratteristico registro dello chalumeau)
trovano un efficacissimo impiego; nella seconda parte l' "assolo" sarà
ripercorso in un duetto tra clarinetto e primo violino, mentre gli altri
strumenti li accompagnano con accordi mollemente dondolanti.
Nel minuetto i
cinque strumenti si riuniscono; il primo dei due trii, con i suoi toni cupi, è
affidato agli archi soli, mentre il secondo trio riconduce il clarinetto quasi
al ruolo di strumento popolare. Tuttavia, già con le cullanti battute d'eco che
seguono all'inizio della seconda frase del tema, assistiamo a una genialissima stilizzazione del tono popolare, che si
manifesta poi anche nel misterioso ritorno al tema iniziale e nella sua ripresa
variata.
Robert Schumann concepì i suoi 12 vierhändige Clavier
Stücke für kleine und grosse Kinder op. 85 per un uso familiare. Il 6 Settembre 1849
Schumann suonò il primo pezzo, la Geburststags-Marsch con la figlia Marie, di otto anni, per
il trentesimo compleanno della madre Clara.
L'editore Schuberth di Amburgo
sperando di replicare l'enorme successo ottenuto l'anno prima con Album für die Jugend op 68, annunciò
una seconda raccolta, ponendo l'accento
sul carattere di continuazione dell'op 68. Seguendo le regole commerciali dell'editoria
del tempo, allo scopo di accrescerne la diffusione, ne propose
immediatamente trascrizioni per
pianoforte solo (Carl Reinecke) e per violino o
violoncello e pianoforte (Friedrich Hermann). Il successo editoriale, però, si
limitò all'ultimo brano della raccolta, l'Abendlied, che divenne ben presto
la più nota opera di Schumann nel XIXº secolo con più di trenta versioni per i
più diversi organici in vendita. Il compositore Teodor Kirchner, fervente ammiratore di Schumann, ammise che
avrebbe scambiato tutta la propria produzione (più di un migliaio di pezzi
pianistici e lieder) per quest'unica
composizione. Joseph Joachim lo
trascrisse per violino e piccola orchestra nel luglio del 1861 per commemorare
il quinto anniversario della morte di Schumann. La «Riduzione per Clarinetto
con accomp. di Quart. ad arco» di Ferruccio Busoni fu probabilmente realizzata negli anni in cui Busoni si trovava a Graz (1878-1881), contestualmente alla Suite in Sol minore per clarinetto e
Quartetto d'archi, ad uso concertistico del padre, il clarinettista
virtuoso Ferdinando Busoni.
«Debbo a mio padre
la fortuna d'essere stato molto severamente spinto, nella mia fanciullezza,
allo studio di Bach; e questo in un'epoca e in un paese, in cui il maestro non
era valutato molto più di un Carl Czerny. Quale sano
istinto abbia portato mio padre, semplice virtuoso di clarinetto (a cui piaceva
suonare fantasie sul Trovatore e sul Carnevale di Venezia) , uomo di educazione musicale insufficiente, italiano e amatore del belcanto -
quale istinto abbia portato proprio un uomo simile, animato dall'ambizione che
coltivava per suo figlio, a indovinare la sola strada giusta: mi sembra una
misteriosa disposizione del destino». Come scrive Sergio Sablich,
Bach fu per Buson «maestro di arte e di vita» e
studiando la musica di Bach si forma in Busoni la
convinzione che «ogni notazione è già
trascrizione di un'idea astratta. […] Nel momento in cui la penna
se ne impadronisce il pensiero perde la sua Forma originale. L'intenzione di
fissare con la scrittura l'idea impone già la scelta di un ritmo e di una
tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere determinano
sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto dell'indistruttibile
carattere originario dell'idea qualcosa permanga, tuttavia a partire dal
momento della scelta questo carattere viene ridotto e costretto a un tipo già
classificato. L'idea diventa una sonata, un concerto; e questo è già un
adattamento dell'originale. Da questa prima alla seconda trascrizione il passo
è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso
solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non
distrugge la versione originale, e che quindi non si perde questa per colpa di
quella. [...] Perché l'opera d'arte musicale sussiste intera e immutabile
prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del
tempo».
Nei sei mesi centrali del 1876 Čajkovskij non compose opere di
rilievo ma non si può dire che sia stato un periodo del tutto infruttuoso. Dal
dicembre 1875 al novembre 1876 Čajkovskij
compose ed inviò mensilmente al periodico Nuvellist di Pietroburgo un pezzo
pianistico ispirato al mese in cui il periodico veniva pubblicato; il direttore
di Nuvellist,
Nikolaj Bernard sceglieva alcuni versi da premettere alla composizione: i
titoli dei brani sono in russo e in francese, i versi in russo, le indicazioni agogiche in italiano; diventeranno presto i più celebri
pezzi pianistici di Čajkovskij.
Come annotato da Kashkin, Čajkovskij riteneva questi dodici pezzi, chiamati nel loro
insieme Le Stagioni, pezzi d'occasione di scarsa importanza, e per non saltare
qualcuna delle date in cui si era impegnato a consegnarli aveva incaricato il
suo servitore di ricordargli l'impegno, molto puntigliosamente. Non è difficile
prestare fede al racconto secondo il quale, una volta al mese, nel giorno
prescelto, il servitore diceva: "Pëtr Ilic, è tempo di spedire a S. Pietroburgo", e Pëtr Ilic scriveva
un singolo pezzo di getto e lo spediva. Le Stagioni aspirano ad essere autentici
pezzi di musica da salotto, nei quali dunque nulla è mai davvero sorprendente
per l'ascoltatore. Il decimo, Chant d'automne, reca questi versi: «Autunno, si sfoglia del
tutto il nostro povero giardino/le foglie ingiallite volano al vento…» del conte Aleksej Konstantinovic Tolstoj (1817-1875) lontano cugino del più
noto Lev Nikolaevic Tolstoj (1828-1910). L'andamento
(Andante doloroso e molto cantabile) è quello di una romanza per canto e
pianoforte; il brano è solcato da una dolce vena pittoresca probabilmente
ispirata all'epigrafe poetica del verso di
Tolstoj; in tonalità di re minore e in tempo binario, una melodia
asimmetrica (proposta di quattro battute, risposta di cinque) viene presentata
prima all'acuto, poi al grave con una conclusione che va smorzandosi con grande
perizia. La tessitura melodica
principale è arricchita da una melodia secondaria nel registro di tenore,
tecnica spesso magistralmente usata da Čajkovskij per
esempio nel Pas d'action con
i soli violino e violoncello nel secondo atto del Lago dei Cigni.
La trascrizione di Toru Takemitsu
di Chant d'automne (Herbstlied, il
titolo in lingua tedesca) per clarinetto e quartetto d'archi ha visto la sua
prima esecuzione nel settembre del 1993 allo Yatsugatake
Kogen Festival di Nagano. Ultimo piccolo omaggio di Takemitsu nel contesto della sua ventennale collaborazione
con il grande virtuoso Richard Stoltzman. La
collaborazione tra Takemitsu e Stoltzman
risale già al 1975 quando Takemitsu compone per l' Ensemble Tashi
- di cui Stoltzman fa parte - Quatrain (1975) e Quatrain II (1977, per ensemble e orchestra),
per coronarsi nel 1991 con il Concerto
per clarinetto e orchestra Fantasma/Cantos. Non è certo un mistero l'amore di Takemitsu per l'Autunno, lo testimoniano innumerevoli titoli
di sue composizioni: November Steps (1967),
Autumn
(1973), A String
Around Autumn (1989), In an Autumn Garden (1979), e dunque anche la trascrizione di
Herbstlied
è sicuramente frutto di una ritrovata sintonia con i tanto amati autori
romantici. Come in tutta la musica di Takemitsu
emerge limpida la volontà di un confronto a
viso aperto con la tradizione musicale occidentale. Nella sua ultima
intervista (con la pianista Noriko Ogawa, per la BBC), Takemitsu
affermava che «se per qualche ragione la musica di oggi sembra aver dimenticato
il canto, io penso che imparare da esperienze del passato, ad esempio da Brahms - non per guardare indietro, ma per creare cose
nuove - sia molto importante per un compositore». Una estrema accuratezza di
fattura, consente a Takemitsu di coniugare la
rigorosa aderenza all'originale con la propria cifra stilistica personale,
costituita da un colore di suono
continuamente cangiante, ottenuto mediante raffinate variazioni timbriche tra
suoni armonici e naturali, negli strumenti ad arco.
Salvatore Sciarrino Quintettino n°1
Il Quintettino n°1 per clarinetto e quartetto d'archi
di Salvatore Sciarrino è idealmente parte di un dittico completato dal Quintettino n°2 per strumenti a fiato. Dedicato al
clarinettista Michel Arrignon è una sorta di
miniatura dove con accuratezza di cesello vengono esibiti tutti quegli artifizi
tecnico strumentali per ottenere quel suono impalpabile, mai statico, sempre in
divenire tipico della poetica sciarriniana. Al
quartetto d'archi - che crea un tessuto sonoro quasi aereo, volatile, fatto di
un caleidoscopico pulviscolo di suoni: armonici, flautati, sfiorati, battuti -
si contrappone la presenza più materica
del clarinetto con formicolanti
glissandi microtonali, immobili bicordi
e più aggressivi multifonici. La struttura si compone
di una prima parte dall'andamento quasi ondivago che sfocia in una
furioso prestissimo conclusivo. Per Salvatore Sciarrino
«dovrebbe giungere sempre per l'artista un momento in cui il linguaggio si
semplifica, in cui la coscienza alleggerisce lo stile dalle molte
sovrastrutture dell'Io: un affinarsi interiore cui fosse subordinato, d'ora in
poi, ogni problema tecnico.» Questi due Quintettini documentano
un momento di transizione nella poetica di Salvatore Sciarrino,
quasi l'autore stia attraversando «un arcipelago di opere che riflette questa
svolta». «Vi si può leggere una ulteriore attenzione alla psicologia nell'organizzare
la forma: le simmetrie - quelle più speculari - verranno abbandonate, per
balenare solo nell'illusorietà del percepire. Allora il discorso distillò una
dimensione straniata, di deformazione prospettica, e la fisiologia, appena
riscoperta, fu assottigliata per discendere meglio alle origini del pensiero.
Già la trasformazione sonora, rendendo irriconoscibili gli
strumenti, sottraeva per così dire la fonte all'ascoltatore. A partire da
quegli anni il suono si spazializza fortemente, sono indotte altre sensazioni,
le caratteristiche di una percezione globale. Il pianissimo, non più
semplice attributo, diviene veicolo ed essenza del suono lontano. E le
sue folate non provocano un incresparsi della musica pura, la disgregazione
logica. Al contrario, vi si manifesta una realtà sonora che vive al di là,
misteriosamente ai limiti della notte: la mente si fa spazio all'immagine,
e questa è portatrice di senso.»
Two pieces for clarinet and string quartet fanno parte di un gruppo di lavori di Morton Feldman (come Intervals, O'Hara Songs, For Franz Kline del 1961/2) di poco posteriori alla composizione delle cinque Durations, scritte tra il 1960 e il 1961. Il mondo sonoro di questo periodo creativo si contrappone a quello degli anni '50 (il cosiddetto "periodo grafico") poiché Feldman era riuscito a risolvere, almeno provvisoriamente, uno dei dilemmi che lo assillarono per tutta la vita: come ottenere un buon risultato musicale pur eliminando il controllo su alcuni parametri sonori. L'esperienza della Intersection del 1951/3 aveva lasciato Feldman profondamente scontento: «Dopo diversi anni passati a comporre musica grafica cominciai a scoprire il suo peggior difetto: non stavo soltanto liberando i suoni, ma stavo anche liberando l'esecutore. Non avevo mai pensato al grafico come a un'arte dell'improvvisazione, ma piuttosto come un'avventura sonora totalmente astratta». Un severo processo di autoanalisi portò Feldman a considerare che la tendenza a leggere come improvvisazioni le sue opere, non fosse da imputarsi al "cattivo gusto" degli esecutori, ma che egli stesso «fosse ancora coinvolto in certi procedimenti e in una certa continuità che facevano ancora percepire la loro presenza». Feldman intende dire che - per quanto l'avesse combattuta strenuamente - si avvertiva nella musica la presenza di una dialettica nei materiali, e questa veniva "letta" dall'esecutore nella forma di una improvvisazione. Nella nuova serie di pezzi, le Durations, il compositore approda «a uno stile più complesso in cui ogni strumento vive la propria vita nel proprio mondo sonoro. In ognuno di questi pezzi gli strumenti attaccano simultaneamente e sono poi liberi di scegliere le durate all'interno di un tempo generale fissato: le altezze invece sono date». Del resto, come Cage osserva acutamente, tutta la musica scritta da Feldman nei decenni successivi in notazione convenzionale non sarebbe altro che la sua musica grafica "interpretata" da lui stesso. Può essere sorprendente, ma più di un critico ha osservato che For clarinet and string quartet (brano dell'ultima fase creativa di Feldman per il medesimo organico, del 1983, di 42 minuti di durata) e Two pieces for clarinet and string quartet (di 5 minuti di durata) abbiano molto in comune. Ambedue sono introspettivi, interiori, trasparenti e concisi, e nonostante la maggior delicatezza e brevità del pezzo più giovanile, le differenze sono in superficie, non di contenuto e certamente non poetiche. Questa enorme difformità di durate tra i due lavori avvalora l'ipotesi della "rilettura" circolare (e sempre difforme) del proprio stesso testo: in For clarinet and string quartet la ripetizione esatta o alterata ("simmetria danneggiata", imperfezioni che rivelano una caratteristica umana, la presenza di fantasia e fallibilità), la ripetizione al retrogrado (tanto amato lo specchio, forse perché Feldman sentiva la riflessione come una caratteristica profondamente umana), l'insistenza su motivi di due note (reminiscenza della respirazione) sono anti-strutture che evitano meccanicità e pesantezza. Entrambi i lavori mettono in luce due aspetti fondamentali della musica di Feldman: integrità di pensiero e immaginazione. L'assenza in Feldman di una melodia convenzionale e dell'uso di comprensibili mezzi formali è in realtà dovuta alle decisioni esistenziali da lui prese, scelte fedeli al suo carattere e al suo spirito. Proprio con i Two pieces che ascolteremo stasera, Feldman comincia a rinunciare alle opposizioni dialettiche (per esempio nei cambi di registro), ritenendo che il suono «abbia una sua tendenza a manifestare proporzioni proprie; sviluppando questo pensiero si finisce per scoprire che tutti gli elementi di differenziazione esistono già prima nel suono stesso e, se si vuole lasciar "essere" il suono, si deve dunque allontanare ogni desiderio di differenziazione». Gesti molto semplici creano effetti di enorme intensità; una nota singola (oppure due, tre o quattro diversamente combinate) possono costituire un motivo, che non viene mai sviluppato. Feldman trovò la bellezza, la sicurezza e la verità non nel processo (cioè nella costruzione) della composizione, ma nella poesia di collocare i suoni nel tempo: «la mia idea è più quella di "essere" il tempo che non quella di trattarlo come un elemento compositivo. No, neanche costruire con il tempo funzionerebbe: il tempo, semplicemente, deve essere lasciato stare».