GIOVANNI BATTISTA VIOTTI (1755-1824)
Quartetto in do minore op. 22 nº 2 (1806)
per flauto, violino, viola e violoncello
Moderato ed espressivo - Menuetto Presto e Trio -Allegro agitato e con fuoco
ALESSANDRO ROLLA (1757-1841)
Quartetto in mi minore op. 2 nº 1 BI 428 (1824)
per flauto, violino, viola e violoncello
Allegro - Largo - Rondò
LETIZIA MICHIELON (1969)
Mit drei Spielkarten (2011)
Serenata per flauto e trio d'archi
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta
ERMANNO WOLF-FERRARI (1876-1916)
Introduzione e Balletto op. 35 (1946)
per violino e violoncello
MAX REGER (1873-1916)
Serenata in sol maggiore op. 141 (1915)
per flauto, violino e viola
Vivace - Larghetto - Presto
Il programma di questa serata può essere letto, senza complicate sovrastrutture, come tributo a quegli
autori che si sono espressi
nell'ossequio alla "tradizione": termine che, come ben sappiamo, condivide
la medesima radice con il termine "tradimento". La parola dunque schiude il
nostro universo interpretativo ad almeno tre ambiti: la re-invenzione del
passato, il ri-trovamento delle radici del presente, la ri-cerca non traumatica del nuovo. La mutevolezza di giudizio sugli autori che operano in queste "zone di transizione",
che in qualche modo faticano ad aderire ad una lettura evolutiva del
pensiero musicale, è stata sempre sconcertante: la loro funzione di traghettatori, ricercatori di trait-d'-union tra prassi lungamente sperimentate e
nuove acquisizioni linguistiche, le loro pacate tendenze innovative sono
state sempre molto difficilmente recepite dai contemporanei. Valutiamo oggi
pienamente il grande valore delle opere di Viotti e Rolla nel contesto del
nascente Classicismo viennese, ma ci è difficile figurarci il clima di profondo
fermento che abitava la musica di quegli anni: cosa doveva succedere, in una
Accademia milanese dei primi decenni dell'Ottocento, in una serata in cui
Rolla - eccellente violinista e grande divulgatore - presentava un quartetto
dell'op. 59 di Beethoven, seguito da sue nuove composizioni; e a Parigi o a
Londra, dove Viotti visse, tra il 1782 e il 1824, freneticamente attivo come
violinista virtuoso, compositore, impresario? Quali dovevano essere i giudizi, i
gusti, le opinioni dei contemporanei verso la sua musica? Allo stesso modo -
cent'anni dopo - il critico
Carl Kreibs nel 1905 ci dipinge così lo sconcerto che provocava la musica di Reger:
«A volte compone in modo tanto
innocente da sembrare un bambino che si succhia ancora il pollice, a volte in
uno stile che induce gli ascoltatori a chiedersi se gli esecutori siano usciti
di senno». E che dire della figura emblematica di Ermanno Wolf-Ferrari,
eccellente operista del Novecento, nel quale si ammirano - più di cent'anni dopo - perfette
stilizzazioni del teatro di Rossini e Mozart?
Dobbiamo dunque accingerci ad ascoltare i brani proposti in
questa serata di Ex Novo Musica 2011 con il medesimo spirito di ricerca che
connota l'intero percorso del Festival, per meglio comprendere questo
florilegio di composizioni la cui unità risiede in una visione dell'arte che
accoglie il nuovo fin dove lo sente capace di armonizzarsi con
l'antico e che manifesta espressione di equilibrio interiore.
Giovanni Battista Viotti Quartetto in do minore op. 22 nº2, WII:14
La produzione per quartetto di Giovanni Battista Viotti si
articola in 18 opere originali (W II: 1-18): i dodici quartetti composti a Parigi tra gli anni 1783-86 e apparsi , sei
come op. 1 e sei come op. 3; i sei
quartetti composti a Londra di cui tre quartetti
con flauto apparsi come op. 22 nel periodo 1801-1806, e i Trois quatuors
concertans... Dédiés à son frère A.[ndré] Viotti, senza
numero d'opera del 1817. Non conosciamo la data esatta della prima
stampa londinese dei quartetti con flauto dell'opera 22, stampa che si può
far risalire al più tardi al 1806 in quanto immediatamente dopo apparvero,
quasi contemporaneamente altre due edizioni parigine e l'edizione di Breitkopf
& Härtel a Lipsia nel 1807. Un'ulteriore prova della diffusione dei
quartetti è la comparsa dei Trois duos pour deux violins op. 19, che
ebbero varie edizioni parigine negli anni 1806-1807. Il lettore noterà
ovviamente l'incongruenza: la trascrizione porta infatti un numero d'opera
antecedente all'opera originale. Giovanni Battista Viotti non faticava
evidentemente a trovare editori per le proprie opere, prova ne è che a fronte
di più di un centinaio di composizioni originali, troviamo quasi altrettante
trascrizioni. L'autore stesso o altri compositori-interpreti noti all'epoca
le predisponevano, segno l'immediata ricezione del pubblico, con rapidità
sorprendente: tra i trascrittori delle opere di Viotti troviamo i pianisti Jan
Ladislav Dussek, Jean Baptist Cramer, Muzio Clementi, ma anche il flautista François
Devienne (primo insegnante di
flauto presso il Conservatoire che trascrive nel 1804 il Concerto per violino WI:23). E' noto a
questo proposito il pensiero di Beethoven a proposito della «mania» che
definisce «mostruosa» di
strumentare le composizioni per organici differenti da quelli originali; ed
anche l'avidità dei flautisti dilettanti, nel veder trascritto ogni genere di
lavoro per il proprio strumento, non
viene certo sottaciuta: «in tal modo sarebbero soddisfatti gli appassionati
di flauto che già mi hanno sollecitato a farlo [adattare cioè il Settimino
op. 20 ad un organico con flauto]. Essi sciamerebbero intorno e se ne
ciberebbero avidamente come tanti insetti». La prassi editoriale del tempo, per
evidenti motivazioni commerciali, sollecitava i compositori a scrivere per
flauto o a predisporre immediatamente trascrizioni delle loro opere per questo
strumento. I musicologi hanno perciò molto studiato in merito alla concezione
"originaria" dell' opera 22: se da un lato i quartetti risultano le uniche
opere originali con strumenti a fiato nel catalogo di Viotti, tale
considerazione non è peraltro sufficiente ad affermare la scelta meramente
"commerciale" di scrivere per questo strumento. Il piano tonale dell'
opera 22: Si bemolle Maggiore - Do minore - Mi bemolle maggiore, dimostra
una concezione razionale con una simmetria della tonalità minore rispetto alle
maggiori e una forte affinità tra le tre tonalità dei quartetti.
Mentre i quartetti
degli anni di Parigi si innestano nel filone del Quatuor brillant -
seppur già nell'op. 3 si nota già una tendenza a temperare lo smalto
solistico tipico del ruolo del primo violino, con un trattamento paritetico delle parti dei due violini - i
quartetti dell'op. 22, scritti a Londra circa quindici anni dopo, aderiscono
al genere del Quatuor concertant . La lunga pausa creativa nella
composizione di quartetti, denota in Viotti un momento di riflessione per
giungere a proporre una sintesi
originale tra una musica che amava i frequenti contrasti drammatici e la
forte caratterizzazione scenica - dunque una concezione narrativa di derivazione belcantistica - e la parziale
adesione ai modelli più strutturati del Wiener klassische Streichquartett di Haydn e Beethoven.
La scelta di aderire alla forma del quartetto in quattro movimenti (obbligatoria
nella Vienna del tempo) avverrà solo nel 1817 con gli ultimi Trois quatuors
concertans, forse le più importanti opere cameristiche di Viotti, che
manifestano con freschezza e genuinità l'adesione ai modelli viennesi, con un
modo del tutto personale di trattare la forma-sonata. I quartetti con flauto op.
22 - ancora nella tradizionale strutturazione in tre tempi - sono dunque
emblematici di una fase di transizione in cui Viotti è alla ricerca di
coniugare il suo temperamento drammaturgico, attento dunque più agli accadimenti
che non alla costruzione musicale, con l'imporsi dei modelli fortemente
strutturati del Classicismo viennese
Alessandro Rolla Quartetto in mi minore op.2 nº1 BI 428
La produzione strumentale di
Alessandro Rolla, nato a Pavia nel 1757, annovera più di seicento opere, tra le
quali un buon numero dedicate alla viola: già quindicenne Rolla rivela il suo
talento eccezionale nel suonare questo strumento all'epoca poco apprezzato,
ricco tuttavia di valenze virtuosistiche. Un aneddoto celebre, ritenuto
attendibile poiché tramandato da Stendhal nei suoi diari di viaggio, vieta a
Rolla di sounare in pubblico la viola, poichè le donne non potevano ascoltarlo
senza cadere in deliquio o essere colte da attacchi di nervi. L'elezione a
Primo violino dell'orchestra di Parma, dove risiederà tra il 1792 e il 1802,
gli darà la possibilità di esibirsi come violinista solista e per questa sua
mansione di virtuoso Rolla comporrà un gran numero di concerti (ne conosciamo 21)
in cui il virtuosismo raggiunge vertici tecnici sconosciuti persino ai contemporanei
Viotti, Rode e Kreutzer.
Figura indiscutibilmente emblematica della cultura italiana nel Lombardo Veneto,
fu «primo violino e direttore» dell'orchestra del Teatro alla Scala dal 1802
al 1833: con carattere tollerante e solido professionismo seppe sopravvivere ai
mutamenti politici del suo tempo, sia durante la dominazione francese
(1801-1815) che nella restaurazione austriaca, portando un profondo rinnovamento
all'orchestra: sul modello delle orchestre parigine di fine secolo vi
introdusse strumentisti di grande valore come il fagottista Gaetano Grossi, il
clarinettista Giuseppe Adami, e nel mese di marzo 1803 riuscì addirittura ad
ottenere dal Governo francese uno speciale contratto alle prime parti della
Scala. Il Conservatorio di Milano, fondato in quegli anni, e modellato su quello
di Parigi, deve a Rolla, suo primo docente di violino, l'introduzione della
grande musica francese nel Lombardo-Veneto: creerà in 25 anni di insegnamento
una scuola di violino e viola, non inferiore a quella parigina del celebre
Kreutzer. Nel 1796 il tredicenne Paganini si rivolge a Rolla, il quale da subito
ne riconosce l'eccezionale talento, nel 1813 favorirà in ogni modo la sua
esibizione alla Scala, nel 1820 la pubblicazione dei 24 Capricci presso Ricordi.
Anche Paganini, nell'ultimo decennio
della sua vita con il XIV e il XV Quartetto e la Sonata per la gran
viola, renderà omaggio a Rolla, riconoscendogli la fama di "maestro di
Paganini". Nelle accademie private milanesi che si svolgevano presso le dimore
delle famiglie aristocratiche, dell'alta borghesia o di uomini
"illuminati" e sensibili alle arti, si eseguiva un repertorio certo
influenzato dalla cultura asburgica ma anche a lavori di compositori autoctoni, volti a fare emergere a turno i vari
interpreti di cui erano ben noti i pregi. Rolla
stesso, che ancora nel 1841, a 85 anni «continua a suonare ogni settimana
Quartetti dei nostri eroi tedeschi e precisamente con variazione primo e secondo
violino, non raramente con foga giovanile», prendeva parte alle esecuzioni per
le quali si circondava di professionisti, allievi volenterosi e amateurs dotati di abilità
considerevoli.
Luis Spohr, che esegue alla Scala nel 1816, in prima mondiale, il suo celebre
Ottavo concerto per violino, "In modo di scena cantata", op. 47,
attribuisce a Rolla la fortuna di
Beethoven in Lombardia con le importanti esecuzioni, a Milano, dei Tre
quartetti op 59, la Quarta sinfonia (che Rolla dirigerà nel 1813),
l'ouverture del Coriolano, il Quarto concerto per pianoforte ed
il Concerto per violino, avvenute tra il novembre 1807 e l'estate del
1808.
Rolla si trova dunque a vivere,
seppur da Milano, dunque se vogliamo di
riflesso, il passaggio nodale dall'esperienza classica a quella romantica
(morì, infatti, nel 1841, in pieno Romanticismo) esprimendosi con grande
equilibrio: nella piena coscienza di non poter aderire alle profonde innovazioni
formali proprie del Classicismo viennese (che tanto aveva studiato, nelle sua
veste di esecutore) , sceglie con efficacia di aderire alle forme composte del
Settecento, modernizzate con
immissioni di intimo lirismo di ascendenza romantica e di trascinante
virtuosismo. Nella sua produzione cameristica dedicata alle Accademie, non poche
pagine sono rivolte ad ensemble con flauto solista, all'epoca strumento alla
moda praticato da molti nobili milanesi: come ad esempio Giovanni Ballabio,
allievo del celebre flautista Giuseppe Rabboni, docente presso il neonato
Conservatorio di musica, che appare il più probabile ispiratore di molte opere
dedicate a questo strumento. Il primo dei quartetti dell'opera 2 in mi minore
(BI 428 secondo il catalogo Bianchi/Inzaghi) si articola, con
scrittura pacatamente virtuosistica ben calibrata tra le parti di flauto e
violino, in tre tempi: ad una brevissima introduzione di ascendenza operistica,
segue un Allegro dalla semplice ma
solida struttura formale bitematica. Segue un bellissimo Largo,
che pone in splendida luce la sonorità statica, velata e
notturna di una melodia affidata alla simbiosi sonora dell'ensemble di violino e viola - scritti con sapiente moto parallelo, per lo più per seste - al quale
si contrappone un andamento più irrequieto, insieme intimo e patetico, di
matrice marcatamente romantica del flauto. Nel conciso Rondò finale il refrain viene ripetuto con
petulanza quasi ossessiva vivificata solo da brevi momenti virtuosistici nella parte di
violino: espediente teatrale per lasciar spazio ad un bellissimo minuetto, dal
sapore squisitamente galante, che domina la parte centrale del movimento.
Letizia Michielon Mit drei Spielkarten, Serenata per flauto e trio d'archi
La Serenade, ludico omaggio alla Serenata per 11 strumenti di Maderna e al teatro mozartiano, trae ispirazione dal saggio kierkegaardiano sul Don Giovanni e dalla concezione dello Spiel (il gioco) in Wahreit und Method (Verità e Metodo) di Gadamer. Le tre carte, il cui ordine viene estratto, prima dell'esecuzione, rappresentano la trasmutazione (Verwandlung) delle tre figure mozartiane in cui si articola lo stato estetico. Frammenti della serie maderniana si intrecciano così a cellule motiviche, accuratamente occultate, estratte da Le Nozze di Figaro ("Farfallon, farfallon amoroso"), Flauto magico (Siebzehnter Auftritt, tra Monostato e Papageno) e DonGiovanni ("Fin ch'an del vino calda la testa"). La drammatizzazione del desiderio prende ora il volto sognante di Cherubino (ove il desiderio malinconico è reso dall'impasto vellutato della viola e del flauto contralto), ora quello lieve e giocoso di Papageno (ove il desiderio cercante è affidato agli intrecci del flauto in do e del violino), ora quello inquietante e magnetico di Don Giovanni (in cui il desiderio bramante parla attraverso la voce profonda del violoncello e del flauto basso). Il gioco della seduzione descritto in Enten-Eller si fonde così con la concezione gadameriana della Verwandlung e la sorpresa dell'alea: l'estrazione iniziale stabilisce non solo l'ordine delle Verwandlungen ma anche la successione dei frammenti di cui si compone la cadenza del flauto solo. Nella scena finale il trio d'archi e l'ottavino - ultima trasmutazione del flauto - portano alla luce la fonte del materiale melodico consentendo, dopo la mimesis (imitazione), il piacere estetico del ri-conoscimento, e svelando la consonanza tra ludus e opera d'arte. (Letizia Michielon)
Ermanno Wolf-Ferrari Introduzione e Balletto op. 35
Una celebre frase tratta dagli scritti di Schönberg ci può
aiutare a introdurre l'estetica musicale affatto diversa di Ermanno
Wolf-Ferrari: «Denn Wenn es Kunst ist, ist sie nicht für alle, und wenn sie für
alle ist, ist sie keine Kunst» (Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte).
Tale asserzione, da
molti interpretata come una prova dell'intellettualismo esasperato che
starebbe alla base della concezione estetica del compositore austriaco,
considera l'arte come un bene fruibile solo da un'élite culturale.
Come sappiamo Schönberg, idolatrato da tanti critici e
musicisti come il vero artecife del rinnovamento del linguaggio musicale
novecentesco, era al tempo stesso detestato da molti altri che a lui soprattutto
imputavano lo scollamento sempre più profondo verificatosi tra musica nuova e
pubblico, il presunto deterioramento del gusto e in ultima analisi la creazione
di una miriade di astruserie musicali che il pubblico era chiamato ad accogliere
con atteggiamento passivo e fideistico. Tra
i nostrani detrattori di Schönberg e delle
avanguardie musicali, nella polemica che animò la prima metà del secolo
scorso, spicca per la sua convinzione la figura di Ermanno Wolf-Ferrari,
musicista senz'altro "ragguardevole", secondo la definizione di Massimo
Mila, anche se su posizioni decisamente conservatrici. Wolf-Ferrari per il
grande pubblico è in genere associato a Venezia e a Goldoni, ma la sua
produzione presenta molteplici sfaccettature che coniugano con sapienza due
culture, quella tedesca e quella italiana (e veneziana). La cultura tedesca
risulta tutto sommato prevalente nella sua musica strumentale ma presente anche
nella sua produzione operistica: elegante nell'armonia, raffinata nei colori
orchestrali, sicura nel trattamento delle forme, palesa senz'altro la lezione
di Mozart. Un musicista, dunque, che si innesta con naturalezza nella cultura
musicale mitteleuropea, e ne condivide il grande amore per le regole. Nelle sue
Considerazioni attuali sulla musica (Tucci, 1943) il compositore italo-tedesco si scaglia
contro una tipologia di musicista da lui definito "sanculotto dell'arte",
che pur di apparire nuovo e originale irride alle regole portando
all'anarchia e al brutto. Scrive Wolf-Ferrari:
«Il dramma di questa crociata contro le regole si rispecchia nei Maestri Cantori, dove già se ne fa oggetto di riflessione. Il rappresentante della regola senza genio, Beckmesser, vi è messo in ridicolo nel modo più crudo; quello della genialità ignara di regole, Walter, su un piedistallo di gloria. Ma perché sarebbe stato troppo contraddittorio il concetto di un genio senza studio affatto, e sovrumano o preumano un artista raffinatissimo, come Walter che sapesse la musica così come la sanno gli uccelli, Wagner gli fa dare una lezione da Hans Sachs, presentendo il pericolo che dal fanatismo della rivoluzione per la rivoluzione potesse sorgere una nuova sorta di pedante a sventolare la bandiera anarchica di chi si crede genio solo perché non ha mai voluto studiare. Per cui Hans Sachs, ad impedire l'avvento di questo nuovo Beckmesser dalla posa genialoide, è costretto a parlar di regole con Walter e, quando questi gli chiede "come debba cominciare secondo le regole", a rispondergli così: "Stabilitele voi stesso e poi seguitele"».
La colpa dunque è, secondo Wolf-Ferrari, di chi non si sottopone a nessuna regola, neanche stabilita da se stesso.
Introduzione balletto op. 35, è uno degli ultimi lavori strumentali di Wolf-Ferrari. Le sue prime opere cameristiche - scritte tutte tra il 1895 e il 1901 - denotano una completa adesione al mondo musicale romantico, senza peraltro tener conto di valenze già affermate in quegli anni, come il cromatismo, l'uso limitato delle progressioni, la densità tematica. Uno stile completamente abbandonato nei lavori cameristici degli ultimi anni, a partire dal 1940. Il lungo percorso creativo della sua produzione operistica, dal primo successo dei Quatro Rusteghi (1906), al Campiello (1936), ha prodotto una lunga pausa creativa nel genere della musica da camera. In questi lavori della piena maturità (scritti tra il 1940 e l'anno della morte, il 1948) Wolf-Ferrari sente di doversi allontanare energicamente dalla temperie romantica e per assumere a modello l'eleganza, la compostezza e l'equilibrio formale propri del Settecento musicale italiano. Non si tratta però di cambiare i propri riferimenti estetici o rivolgere lo sguardo a forme di tradizione che si sentono ora più vicine al proprio gusto ma di raggiungere uno stato di grazia che egli stesso definisce «limpidezza del cuore»: «Se la lente dell'occhio fosse in se stessa colorata, l'occhio non vedrebbe questo colore e gli altri [colori] ne verrebbero influenzati. Così deve essere limpido e "incolore" il cervello perché possa arrivare l'attimo creativo. Questo stato di limpidezza del cuore gli indiani lo definiscono con l'espressione: avere il cuore vuoto, espressione che è una lode, perché così intendono dire che solo il cuore vuoto da interessi parziali è capace di darsi tutto ad un attimo e renderlo, in tal modo, sublime.»
Secondo
la mia opinione Reger dovrebbe essere frequentemente eseguito: in primo luogo
perché ha composto molto, e in secondo luogo perché è morto da tempo, ma non
valutiamo lucidamente la sua importanza (penso sia un genio)». Arnold Schönberg,
non era certo in accordo con i musicologi che guardavano alla musica di Reger
come antefatto alla "rottura
radicale" con la tradizione che avrebbe condotto alla musica atonale e alla
formulazione della tecnica dodecafonica. Questa
impostazione, infatti concentra la riflessione sull'aspetto dell'innovazione
armonico-sintattica del linguaggio musicale, sminuendo il valore dell'opera di
Reger che, come affermò il critico Carl Kreibs nel 1905 «adottava
molteplici strategie per riferirsi alla tradizione». Dunque assistiamo a
scelte che aderiscono perfettamente alla tradizione, ma solo limitatamente a
certi parametri del comporre, mentre altre aspettative vengono invece totalmente
disattese.
Nel 1915 Reger era finalmente riuscito a stabilirsi a Jena,
con il conforto dell'incarico di insegnamento ottenuto presso il Conservatorio
di Lipsia e trovò in questo periodo della sua vita una calma e una libertà
interiore mai prima sperimentate. «Ora lo stile libero di Jena di Reger ha
inizio», scrisse egli stesso. In pochi giorni nell'aprile del 1915,
accontentandosi della metà della commissione offertagli dall'editore, compose
un paio di "lavori amichevoli", da lui stesso descritti, con uno dei suoi
tipici understatements, come "musica
da camera in miniatura": non dedicò questi pezzi a nessuno, né cercò di
farli eseguire. La Serenata op. 141
sembra concepita quasi per controbilanciare l'asprezza delle opere del periodo
di Monaco che gli avevano fruttato la fama di enfant
terrible della musica tedesca. Reger compose la Serenata fra la Sonata
op. 139 per violino e pianoforte e la Fantasia
op. 135b per organo (non bisogna farsi tradire dalla successione numerica
del catalogo), cioè quasi come interludio tra lavori che costituirono delle
vere sfide ed ebbero una travagliata gestazione compositiva; una pausa
rilassante rispetto alla travolgente serietà delle questioni poste dall'arte
e dalla vita, quasi un trattenersi
dalla sublimità monumentale e da grandiose accumulazioni espressive. Ma
semplicità non implica naïveté, piuttosto
l'adesione allo Stile galante con un
lavoro di altissima manifattura. Nella Serenata
op. 141 Reger non cerca mai di essere rivoluzionario, ma traduce l'antico
in un linguaggio moderno, ed elabora le novità a partire dall'antico. Una
consonanza con i classici (modello per questa Serenata sono la Serenata op. 25 di Beethoven la
Serenata KV 563 di Mozart) si concilia felicemente con la disciplina
contrappuntistica e lo sviluppo della struttura per giustapposizione di periodi
musicali asimmetrici ereditata da Brahms.
La Serenata, può sembrare in apparenza conformarsi allo
schema classico in più movimenti, derivato dalla Suite barocca; in realtà il
cuore del lavoro risiede nel meraviglioso adagio che viene incorniciato
da due movimenti rapidi e brillanti. Tale architettura
si deve al cambiamento di prospettiva nel rapporto con la le consuetudini
formali: nel primo movimento infatti
la forma-sonata viene esposta in modo fedele fino allo sviluppo per poi venir
abbandonata totalmente per lasciar
spazio ad un uso libero dei materiali fin lì esposti; il che dimostra come il
compositore stava solo citando la
forma sonata, come si fa riferimento ad un ricordo. Ciò crea sorpresa, quasi
disillusione nell'ascoltatore che si attendeva un calco della struttura della forma sonata classica. Il tardo stile
libero di Reger produce risultati niente affatto spettacolari, ma che guardano
molto al futuro con crescente distacco dalle convenzioni; il suo uso di
liberi gesti nel contesto di forme chiuse, definito felicemente da
Schoenberg prosa musicale, mette in luce la dolorosa lotta creativa del compositore e
permette l'espressione di pensieri altissimi con mezzi molto semplici: una
inquietante serenità che è possibile, come dice Rilke, solo «al momento in
cui la gioia è circondata dalla consapevolezza della morte».
(a cura di RC)