Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Sabato 22 ottobre 2011, ore 20.00


Armoniose transizioni



Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Carlo Lazari violino
Mario Paladin viola
Carlo Teodoro violoncello

Guida critica di Letizia Michielon


GIOVANNI BATTISTA VIOTTI (1755-1824)
Quartetto in do minore op. 22 nº 2 (1806)
per flauto, violino, viola e violoncello
Moderato ed espressivo - Menuetto Presto e Trio -Allegro agitato e con fuoco

ALESSANDRO ROLLA (1757-1841)
Quartetto in mi minore op. 2 nº 1 BI 428 (1824)
per flauto, violino, viola e violoncello
Allegro - Largo - Rondò

LETIZIA MICHIELON (1969)
Mit drei Spielkarten (2011)
Serenata per flauto e trio d'archi
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta

ERMANNO WOLF-FERRARI (1876-1916)
Introduzione e Balletto op. 35 (1946)
per violino e violoncello

MAX REGER (1873-1916)
Serenata in sol maggiore op. 141 (1915)
per flauto, violino e viola
Vivace - Larghetto - Presto


PRESENTAZIONE

Il programma di questa serata può essere letto, senza complicate sovrastrutture, come tributo a quegli autori che si sono espressi nell'ossequio alla "tradizione": termine che, come ben sappiamo, condivide la medesima radice con il termine "tradimento". La parola dunque schiude il nostro universo interpretativo ad almeno tre ambiti: la re-invenzione del passato, il ri-trovamento delle radici del presente, la ri-cerca non traumatica del nuovo. La mutevolezza di giudizio sugli autori che operano in queste "zone di transizione", che in qualche modo faticano ad aderire ad una lettura evolutiva del pensiero musicale, è stata sempre sconcertante: la loro funzione di traghettatori, ricercatori di trait-d'-union tra prassi lungamente sperimentate e nuove acquisizioni linguistiche, le loro pacate tendenze innovative sono state sempre molto difficilmente recepite dai contemporanei. Valutiamo oggi pienamente il grande valore delle opere di Viotti e Rolla nel contesto del nascente Classicismo viennese, ma ci è difficile figurarci il clima di profondo fermento che abitava la musica di quegli anni: cosa doveva succedere, in una Accademia milanese dei primi decenni dell'Ottocento, in una serata in cui Rolla - eccellente violinista e grande divulgatore - presentava un quartetto dell'op. 59 di Beethoven, seguito da sue nuove composizioni; e a Parigi o a Londra, dove Viotti visse, tra il 1782 e il 1824, freneticamente attivo come violinista virtuoso, compositore, impresario? Quali dovevano essere i giudizi, i gusti, le opinioni dei contemporanei verso la sua musica? Allo stesso modo - cent'anni dopo - il critico Carl Kreibs nel 1905 ci dipinge così lo sconcerto che provocava la musica di Reger: «A volte compone in modo tanto innocente da sembrare un bambino che si succhia ancora il pollice, a volte in uno stile che induce gli ascoltatori a chiedersi se gli esecutori siano usciti di senno». E che dire della figura emblematica di Ermanno Wolf-Ferrari, eccellente operista del Novecento, nel quale si ammirano - più di cent'anni dopo - perfette stilizzazioni del teatro di Rossini e Mozart?
Dobbiamo dunque accingerci ad ascoltare i brani proposti in questa serata di Ex Novo Musica 2011 con il medesimo spirito di ricerca che connota l'intero percorso del Festival, per meglio comprendere questo florilegio di composizioni la cui unità risiede in una visione dell'arte che accoglie il nuovo fin dove lo sente capace di armonizzarsi con l'antico e che manifesta espressione di equilibrio interiore.


Giovanni Battista Viotti Quartetto in do minore op. 22 nº2, WII:14

La produzione per quartetto di Giovanni Battista Viotti si articola in 18 opere originali (W II: 1-18): i dodici quartetti composti a Parigi tra gli anni 1783-86 e apparsi , sei come op. 1 e sei come op. 3; i sei quartetti composti a Londra di cui tre quartetti con flauto apparsi come op. 22 nel periodo 1801-1806, e i Trois quatuors concertans... Dédiés à son frère A.[ndré] Viotti, senza numero d'opera del 1817. Non conosciamo la data esatta della prima stampa londinese dei quartetti con flauto dell'opera 22, stampa che si può far risalire al più tardi al 1806 in quanto immediatamente dopo apparvero, quasi contemporaneamente altre due edizioni parigine e l'edizione di Breitkopf & Härtel a Lipsia nel 1807. Un'ulteriore prova della diffusione dei quartetti è la comparsa dei Trois duos pour deux violins op. 19, che ebbero varie edizioni parigine negli anni 1806-1807. Il lettore noterà ovviamente l'incongruenza: la trascrizione porta infatti un numero d'opera antecedente all'opera originale. Giovanni Battista Viotti non faticava evidentemente a trovare editori per le proprie opere, prova ne è che a fronte di più di un centinaio di composizioni originali, troviamo quasi altrettante trascrizioni. L'autore stesso o altri compositori-interpreti noti all'epoca le predisponevano, segno l'immediata ricezione del pubblico, con rapidità sorprendente: tra i trascrittori delle opere di Viotti troviamo i pianisti Jan Ladislav Dussek, Jean Baptist Cramer, Muzio Clementi, ma anche il flautista François Devienne  (primo insegnante di flauto presso il Conservatoire che trascrive nel 1804 il Concerto per violino WI:23). E' noto a questo proposito il pensiero di Beethoven a proposito della «mania» che definisce «mostruosa»  di strumentare le composizioni per organici differenti da quelli originali; ed anche l'avidità dei flautisti dilettanti, nel veder trascritto ogni genere di lavoro per il proprio strumento,  non viene certo sottaciuta: «in tal modo sarebbero soddisfatti gli appassionati di flauto che già mi hanno sollecitato a farlo [adattare cioè il Settimino op. 20 ad un organico con flauto]. Essi sciamerebbero intorno e se ne ciberebbero avidamente come tanti insetti». La prassi editoriale del tempo, per evidenti motivazioni commerciali, sollecitava i compositori a scrivere per flauto o a predisporre immediatamente trascrizioni delle loro opere per questo strumento. I musicologi hanno perciò molto studiato in merito alla concezione "originaria" dell' opera 22: se da un lato i quartetti risultano le uniche opere originali con strumenti a fiato nel catalogo di Viotti, tale considerazione non è peraltro sufficiente ad affermare la scelta meramente "commerciale" di scrivere per questo strumento. Il piano tonale dell' opera 22: Si bemolle Maggiore - Do minore - Mi bemolle maggiore, dimostra una concezione razionale con una simmetria della tonalità minore rispetto alle maggiori e una forte affinità tra le tre tonalità dei quartetti.
Mentre i quartetti degli anni di Parigi si innestano nel filone del Quatuor brillant - seppur già nell'op. 3 si nota già un
a tendenza a temperare lo smalto solistico tipico del ruolo del primo violino, con un trattamento paritetico delle parti dei due violini - i quartetti dell'op. 22, scritti a Londra circa quindici anni dopo, aderiscono al genere del Quatuor concertant . La lunga pausa creativa nella composizione di quartetti, denota in Viotti un momento di riflessione per giungere  a proporre una sintesi originale tra una musica che amava i frequenti contrasti drammatici e la forte caratterizzazione scenica - dunque una concezione narrativa di derivazione belcantistica - e la parziale adesione ai modelli più strutturati del Wiener klassische Streichquartett di Haydn e Beethoven. La scelta di aderire alla forma del quartetto in quattro movimenti (obbligatoria nella Vienna del tempo) avverrà solo nel 1817 con gli ultimi Trois quatuors concertans, forse le più importanti opere cameristiche di Viotti, che manifestano con freschezza e genuinità l'adesione ai modelli viennesi, con un modo del tutto personale di trattare la forma-sonata. I quartetti con flauto op. 22 - ancora nella tradizionale strutturazione in tre tempi - sono dunque emblematici di una fase di transizione in cui Viotti è alla ricerca di coniugare il suo temperamento drammaturgico, attento dunque più agli accadimenti che non alla costruzione musicale, con l'imporsi dei modelli fortemente strutturati del Classicismo viennese

 

Alessandro Rolla Quartetto in mi minore op.2 nº1 BI 428

La produzione strumentale di Alessandro Rolla, nato a Pavia nel 1757, annovera più di seicento opere, tra le quali un buon numero dedicate alla viola: già quindicenne Rolla rivela il suo talento eccezionale nel suonare questo strumento all'epoca poco apprezzato, ricco tuttavia di valenze virtuosistiche. Un aneddoto celebre, ritenuto attendibile poiché tramandato da Stendhal nei suoi diari di viaggio, vieta a Rolla di sounare in pubblico la viola, poichè le donne non potevano ascoltarlo senza cadere in deliquio o essere colte da attacchi di nervi. L'elezione a Primo violino dell'orchestra di Parma, dove risiederà tra il 1792 e il 1802, gli darà la possibilità di esibirsi come violinista solista e per questa sua mansione di virtuoso Rolla comporrà un gran numero di concerti (ne conosciamo 21) in cui il virtuosismo raggiunge vertici tecnici sconosciuti persino ai contemporanei Viotti, Rode e Kreutzer. Figura indiscutibilmente emblematica della cultura italiana nel Lombardo Veneto, fu «primo violino e direttore» dell'orchestra del Teatro alla Scala dal 1802 al 1833: con carattere tollerante e solido professionismo seppe sopravvivere ai mutamenti politici del suo tempo, sia durante la dominazione francese (1801-1815) che nella restaurazione austriaca, portando un profondo rinnovamento all'orchestra: sul modello delle orchestre parigine di fine secolo vi introdusse strumentisti di grande valore come il fagottista Gaetano Grossi, il clarinettista Giuseppe Adami, e nel mese di marzo 1803 riuscì addirittura ad ottenere dal Governo francese uno speciale contratto alle prime parti della Scala. Il Conservatorio di Milano, fondato in quegli anni, e modellato su quello di Parigi, deve a Rolla, suo primo docente di violino, l'introduzione della grande musica francese nel Lombardo-Veneto: creerà in 25 anni di insegnamento una scuola di violino e viola, non inferiore a quella parigina del celebre Kreutzer. Nel 1796 il tredicenne Paganini si rivolge a Rolla, il quale da subito ne riconosce l'eccezionale talento, nel 1813 favorirà in ogni modo la sua esibizione alla Scala, nel 1820 la pubblicazione dei 24 Capricci presso Ricordi. Anche Paganini, nell'ultimo decennio della sua vita con il XIV e il XV Quartetto e la Sonata per la gran viola, renderà omaggio a Rolla, riconoscendogli la fama di "maestro di Paganini". Nelle accademie private milanesi che si svolgevano presso le dimore delle famiglie aristocratiche, dell'alta borghesia o di uomini "illuminati" e sensibili alle arti, si eseguiva un repertorio certo influenzato dalla cultura asburgica ma anche a lavori di compositori autoctoni, volti a fare emergere a turno i vari interpreti di cui erano ben noti i pregi. Rolla stesso, che ancora nel 1841, a 85 anni «continua a suonare ogni settimana Quartetti dei nostri eroi tedeschi e precisamente con variazione primo e secondo violino, non raramente con foga giovanile», prendeva parte alle esecuzioni per le quali si circondava di professionisti, allievi volenterosi e amateurs dotati di abilità considerevoli.
Luis Spohr, che esegue alla Scala nel 1816, in prima mondiale, il suo celebre Ottavo concerto per violino, "In modo di scena cantata", op. 47, attribuisce a Rolla la fortuna di Beethoven in Lombardia con le importanti esecuzioni, a Milano, dei Tre quartetti op 59, la Quarta sinfonia (che Rolla dirigerà nel 1813), l'ouverture del Coriolano, il Quarto concerto per pianoforte ed il Concerto per violino, avvenute tra il novembre 1807 e l'estate del 1808.
Rolla si trova dunque a vivere, seppur da Milano, dunque se vogliamo di riflesso, il passaggio nodale dall'esperienza classica a quella romantica (morì, infatti, nel 1841, in pieno Romanticismo) esprimendosi con grande equilibrio: nella piena coscienza di non poter aderire alle profonde innovazioni formali proprie del Classicismo viennese (che tanto aveva studiato, nelle sua veste di esecutore) , sceglie con efficacia di aderire alle forme composte del Settecento, modernizzate con immissioni di intimo lirismo di ascendenza romantica e di trascinante virtuosismo. Nella sua produzione cameristica dedicata alle Accademie, non poche pagine sono rivolte ad ensemble con flauto solista, all'epoca strumento alla moda praticato da molti nobili milanesi: come ad esempio Giovanni Ballabio, allievo del celebre flautista Giuseppe Rabboni, docente presso il neonato Conservatorio di musica, che appare il più probabile ispiratore di molte opere dedicate a questo strumento. Il primo dei quartetti dell'opera 2 in mi minore (BI 428 secondo il catalogo Bianchi/Inzaghi) si articola, con scrittura pacatamente virtuosistica ben calibrata tra le parti di flauto e violino, in tre tempi: ad una brevissima introduzione di ascendenza operistica, segue un Allegro dalla semplice ma solida struttura formale bitematica. Segue un bellissimo Largo, che pone in splendida luce la sonorità statica, velata e notturna di una melodia affidata alla simbiosi sonora dell'ensemble di violino e viola - scritti con sapiente moto parallelo, per lo più per seste - al quale si contrappone un andamento più irrequieto, insieme intimo e patetico, di matrice marcatamente romantica del flauto. Nel conciso Rondò finale il refrain viene ripetuto con petulanza quasi ossessiva vivificata solo da brevi momenti virtuosistici nella parte di violino: espediente teatrale per lasciar spazio ad un bellissimo minuetto, dal sapore squisitamente galante, che domina la parte centrale del movimento.


Letizia Michielon Mit drei Spielkarten, Serenata per flauto e trio d'archi

La Serenade, ludico omaggio alla Serenata per 11 strumenti di Maderna e al teatro mozartiano, trae ispirazione dal saggio kierkegaardiano sul Don Giovanni e dalla concezione dello Spiel (il gioco) in Wahreit und Method (Verità e Metodo) di Gadamer. Le tre carte, il cui ordine viene estratto, prima dell'esecuzione, rappresentano la trasmutazione (Verwandlung) delle tre figure mozartiane in cui si articola lo stato estetico. Frammenti della serie maderniana si intrecciano così a cellule motiviche, accuratamente occultate, estratte da Le Nozze di Figaro ("Farfallon, farfallon amoroso"), Flauto magico (Siebzehnter Auftritt, tra Monostato e Papageno) e DonGiovanni ("Fin ch'an del vino calda la testa"). La drammatizzazione del desiderio prende ora il volto sognante di Cherubino (ove il desiderio malinconico è reso dall'impasto vellutato della viola e del flauto contralto), ora quello lieve e giocoso di Papageno (ove il desiderio cercante è affidato agli intrecci del flauto in do e del violino), ora quello inquietante e magnetico di Don Giovanni (in cui il desiderio bramante parla attraverso la voce profonda del violoncello e del flauto basso). Il gioco della seduzione descritto in Enten-Eller si fonde così con la concezione gadameriana della Verwandlung e la sorpresa dell'alea: l'estrazione iniziale stabilisce non solo l'ordine delle Verwandlungen ma anche la successione dei frammenti di cui si compone la cadenza del flauto solo. Nella scena finale il trio d'archi e l'ottavino - ultima trasmutazione del flauto - portano alla luce la fonte del materiale melodico consentendo, dopo la mimesis (imitazione), il piacere estetico del ri-conoscimento, e svelando la consonanza tra ludus e opera d'arte. (Letizia Michielon)


Ermanno Wolf-Ferrari Introduzione e Balletto op. 35

Una celebre frase tratta dagli scritti di Schönberg ci può aiutare a introdurre l'estetica musicale affatto diversa di Ermanno Wolf-Ferrari: «Denn Wenn es Kunst ist, ist sie nicht für alle, und wenn sie für alle ist, ist sie keine Kunst» (Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte). Tale asserzione, da molti interpretata come una prova dell'intellettualismo esasperato che starebbe alla base della concezione estetica del compositore austriaco, considera l'arte come un bene fruibile solo da un'élite culturale.
Come sappiamo Schönberg, idolatrato da tanti critici e musicisti come il vero artecife del rinnovamento del linguaggio musicale novecentesco, era al tempo stesso detestato da molti altri che a lui soprattutto imputavano lo scollamento sempre più profondo verificatosi tra musica nuova e pubblico, il presunto deterioramento del gusto e in ultima analisi la creazione di una miriade di astruserie musicali che il pubblico era chiamato ad accogliere con atteggiamento passivo e fideistico. Tra i nostrani detrattori di Schönberg e delle avanguardie musicali, nella polemica che animò la prima metà del secolo scorso, spicca per la sua convinzione la figura di Ermanno Wolf-Ferrari, musicista senz'altro "ragguardevole", secondo la definizione di Massimo Mila, anche se su posizioni decisamente conservatrici. Wolf-Ferrari per il grande pubblico è in genere associato a Venezia e a Goldoni, ma la sua produzione presenta molteplici sfaccettature che coniugano con sapienza due culture, quella tedesca e quella italiana (e veneziana). La cultura tedesca risulta tutto sommato prevalente nella sua musica strumentale ma presente anche nella sua produzione operistica: elegante nell'armonia, raffinata nei colori orchestrali, sicura nel trattamento delle forme, palesa senz'altro la lezione di Mozart. Un musicista, dunque, che si innesta con naturalezza nella cultura musicale mitteleuropea, e ne condivide il grande amore per le regole. Nelle sue Considerazioni attuali sulla musica (Tucci, 1943) il compositore italo-tedesco si scaglia contro una tipologia di musicista da lui definito "sanculotto dell'arte", che pur di apparire nuovo e originale irride alle regole portando all'anarchia e al brutto. Scrive Wolf-Ferrari:

«Il dramma di questa crociata contro le regole si rispecchia nei Maestri Cantori, dove già se ne fa oggetto di riflessione. Il rappresentante della regola senza genio, Beckmesser, vi è messo in ridicolo nel modo più crudo; quello della genialità ignara di regole, Walter, su un piedistallo di gloria. Ma perché sarebbe stato troppo contraddittorio il concetto di un genio senza studio affatto, e sovrumano o preumano un artista raffinatissimo, come Walter che sapesse la musica così come la sanno gli uccelli, Wagner gli fa dare una lezione da Hans Sachs, presentendo il pericolo che dal fanatismo della rivoluzione per la rivoluzione potesse sorgere una nuova sorta di pedante a sventolare la bandiera anarchica di chi si crede genio solo perché non ha mai voluto studiare. Per cui Hans Sachs, ad impedire l'avvento di questo nuovo Beckmesser dalla posa genialoide, è costretto a parlar di regole con Walter e, quando questi gli chiede "come debba cominciare secondo le regole", a rispondergli così: "Stabilitele voi stesso e poi seguitele"».

La colpa dunque è, secondo Wolf-Ferrari, di chi non si sottopone a nessuna regola, neanche stabilita da se stesso.

Introduzione balletto op. 35, è uno degli ultimi lavori strumentali di Wolf-Ferrari. Le sue prime opere cameristiche - scritte tutte tra il 1895 e il 1901 - denotano una completa adesione al mondo musicale romantico, senza peraltro tener conto di valenze già affermate in quegli anni, come il cromatismo, l'uso limitato delle progressioni, la densità tematica. Uno stile completamente abbandonato nei lavori cameristici degli ultimi anni, a partire dal 1940. Il lungo percorso creativo della sua produzione operistica, dal primo successo dei Quatro Rusteghi (1906), al Campiello (1936), ha prodotto una lunga pausa creativa nel genere della musica da camera. In questi lavori della piena maturità (scritti tra il 1940 e l'anno della morte, il 1948) Wolf-Ferrari sente di doversi allontanare energicamente dalla temperie romantica e per assumere a modello l'eleganza, la compostezza e l'equilibrio formale propri del Settecento musicale italiano. Non si tratta però di cambiare i propri riferimenti estetici o rivolgere lo sguardo a forme di tradizione che si sentono ora più vicine al proprio gusto ma di raggiungere uno stato di grazia che egli stesso definisce «limpidezza del cuore»: «Se la lente dell'occhio fosse in se stessa colorata, l'occhio non vedrebbe questo colore e gli altri [colori] ne verrebbero influenzati. Così deve essere limpido e "incolore" il cervello perché possa arrivare l'attimo creativo. Questo stato di limpidezza del cuore gli indiani lo definiscono con l'espressione: avere il cuore vuoto, espressione che è una lode, perché così intendono dire che solo il cuore vuoto da interessi parziali è capace di darsi tutto ad un attimo e renderlo, in tal modo, sublime.»

 

Max Reger Serenata in sol magg. op.141

Secondo la mia opinione Reger dovrebbe essere frequentemente eseguito: in primo luogo perché ha composto molto, e in secondo luogo perché è morto da tempo, ma non valutiamo lucidamente la sua importanza (penso sia un genio)». Arnold Schönberg, non era certo in accordo con i musicologi che guardavano alla musica di Reger come antefatto alla "rottura radicale" con la tradizione che avrebbe condotto alla musica atonale e alla formulazione della tecnica dodecafonica. Questa impostazione, infatti concentra la riflessione sull'aspetto dell'innovazione armonico-sintattica del linguaggio musicale, sminuendo il valore dell'opera di Reger che, come affermò il critico Carl Kreibs nel 1905 «adottava molteplici strategie per riferirsi alla tradizione». Dunque assistiamo a scelte che aderiscono perfettamente alla tradizione, ma solo limitatamente a certi parametri del comporre, mentre altre aspettative vengono invece totalmente disattese.
Nel 1915 Reger era finalmente riuscito a stabilirsi a Jena, con il conforto dell'incarico di insegnamento ottenuto presso il Conservatorio di Lipsia e trovò in questo periodo della sua vita una calma e una libertà interiore mai prima sperimentate. «Ora lo stile libero di Jena di Reger ha inizio», scrisse egli stesso. In pochi giorni nell'aprile del 1915, accontentandosi della metà della commissione offertagli dall'editore, compose un paio di "lavori amichevoli", da lui stesso descritti, con uno dei suoi tipici understatements, come "musica da camera in miniatura": non dedicò questi pezzi a nessuno, né cercò di farli eseguire. La Serenata op. 141 sembra concepita quasi per controbilanciare l'asprezza delle opere del periodo di Monaco che gli avevano fruttato la fama di enfant terrible della musica tedesca. Reger compose la Serenata fra la Sonata op. 139 per violino e pianoforte e la Fantasia op. 135b per organo (non bisogna farsi tradire dalla successione numerica del catalogo), cioè quasi come interludio tra lavori che costituirono delle vere sfide ed ebbero una travagliata gestazione compositiva; una pausa rilassante rispetto alla travolgente serietà delle questioni poste dall'arte e dalla vita, quasi un trattenersi dalla sublimità monumentale e da grandiose accumulazioni espressive. Ma semplicità non implica naïveté, piuttosto l'adesione allo Stile galante con un lavoro di altissima manifattura. Nella Serenata op. 141 Reger non cerca mai di essere rivoluzionario, ma traduce l'antico in un linguaggio moderno, ed elabora le novità a partire dall'antico. Una consonanza con i classici (modello per questa Serenata sono la Serenata op. 25 di Beethoven la Serenata KV 563 di Mozart) si concilia felicemente con la disciplina contrappuntistica e lo sviluppo della struttura per giustapposizione di periodi musicali asimmetrici ereditata da Brahms.
La Serenata, può sembrare in apparenza conformarsi allo schema classico in più movimenti, derivato dalla Suite barocca; in realtà il cuore del lavoro risiede nel meraviglioso adagio che viene incorniciato da due movimenti rapidi e brillanti. Tale architettura si deve al cambiamento di prospettiva nel rapporto con la le consuetudini formali: nel primo movimento infatti la forma-sonata viene esposta in modo fedele fino allo sviluppo per poi venir abbandonata totalmente per lasciar spazio ad un uso libero dei materiali fin lì esposti; il che dimostra come il compositore stava solo citando la forma sonata, come si fa riferimento ad un ricordo. Ciò crea sorpresa, quasi disillusione nell'ascoltatore che si attendeva un calco della struttura della forma sonata classica. Il tardo stile libero di Reger produce risultati niente affatto spettacolari, ma che guardano molto al futuro con crescente distacco dalle convenzioni; il suo uso di liberi gesti nel contesto di forme chiuse, definito felicemente da Schoenberg prosa musicale, mette in luce la dolorosa lotta creativa del compositore e permette l'espressione di pensieri altissimi con mezzi molto semplici: una inquietante serenità che è possibile, come dice Rilke, solo «al momento in cui la gioia è circondata dalla consapevolezza della morte».

(a cura di RC)