Concerto 12


Mercoledì 20 dicembre 2023 ore 17:30
Conservatorio Benedetto Marcello, Sala Concerti


in collaborazione con
Conservatorio Benedetto Marcello
SaMPL (Sound and Music Processing Lab)


IL SUONO VENEZIANO








Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Alessandro Baccini oboe, oboe d’amore
Davide Teodoro clarinetto
Carlo Lazari violino
Carlo Teodoro violoncello
Alberto Mesirca chitarra
Annunziata Dellisanti percussioni
Aldo Orvieto pianoforte

Alvise Vidolin regia sonora
Paolo Zavagna live electronics
Claudio Ambrosini direttore



Il concerto vede la partecipazione di:
allievi della Scuola di Musica Elettronica
del Conservatorio Benedetto Marcello:
Patrizio Manfrin regia sonora
Davide Commone live electronics.

Giovani musicisti selezionati
a cura dell’Ex Novo Ensemble:
Andrea Magris e Eugenio Migotto flauto
Francesco Di Giacinto e Nelson Nuñez Medina oboe
Francesco Cristante e Alvise Bernaus clarinetto
Paolo Goganyan e Noemi Colcera violino
Giacomo Benvenuto e Enrico Muscardin chitarra






Claudio Ambrosini (1948)
Il satellite sereno (a Bruno Maderna)
(1989) per flauto, oboe, clarinetto,
violino, violoncello, percussioni,
pianoforte e live electronics

Stefano Bellon (1956)
Nana, Bruneto (2023)
per violino e elettronica
Commissione Ex Novo Musica
Produzione SaMPL
(Sound and Music Processing Lab)
prima esecuzione assoluta

Bruno Maderna (1920-1973)
Aulodia per Lothar (1965)
per oboe d’amore e chitarra ad libitum
Y después (1971) per chitarra
a dieci corde
Solo (1971) per musette, oboe,
oboe d’amore e corno inglese –
Tempo libero (1971)
per nastro magnetico

Bruno Maderna (1920-1973)
Serenata per un Satellite (1969)
versione di Claudio Ambrosini (2023)
per flauto, oboe, clarinetto,
violino, chitarra, marimba
e due ensemble in eco
Commissione Ex Novo Musica
PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA





Maderna e gli interpreti

«Se qualcuno mi assegna un compito io cerco di fare del mio meglio come
artigiano. È il minimo che un musicista possa fare. Non dico che uno debba per
forza suonare come un angelo: questo è un grande talento, una qualità divina.
Non è questo che va giudicato. Però bisogna suonare al meglio che si può»
Bruno Maderna, 1973

«Non puoi spiegare a nessuno cosa vuol dire amare – o lo sai fare
oppure no. E così anche con un’orchestra. Puoi provare a spiegare alle
persone la bellezza di Monteverdi, ma se non la sentono dentro puoi
dire quello che vuoi, eppure non ti spiegherai mai bene, non potrai
trasmettere il tuo entusiasmo. La bellezza la devono scoprire da sé»
Bruno Maderna, 1967

Claudio Ambrosini Il satellite sereno.
Nel 1969 a Darmstadt, in occasione del lancio del
primo satellite spaziale europeo, Bruno Maderna scrisse (e diresse mentre
il razzo decollava) la Serenata per un satellite, uno dei capolavori del
genere ‘aleatorio’, un brano in cui l’interprete è chiamato a definire un
proprio percorso esecutivo, a decidere come muoversi fra la ventina di
frammenti di pentagramma disseminati sull’unica pagina di cui consta
l’opera. Poi Maderna prematuramente morì e la Serenata continuò il suo
volo intorno al mondo finché nel 1985 non decisi di fissare nel dettaglio, in
una vera partitura, la mia ‘versione‘ di quell’anno. Come una foto d’epoca,
come il referto grafico di una registrazione sonora. Era infatti una versione
molto ‘arricchita’, in cui avevo volontariamente inserito, oltre ad alcune
idee personali, le novità musicali nate dopo la scomparsa di Maderna.
Anche per evidenziare il concetto di aggiornamento, di evoluzione che
ritengo sia geneticamente insito in qualsiasi pratica ‘aperta’, in progress.
E così, con l’Ex Novo Ensemble, l’abbiamo eseguita per vari anni un
po’ qua e un po’ là, in Europa e anche in America. Poi, nel 1989, Mario
Messinis m’invitò a partecipare con un nuovo lavoro a una serie di concerti
che aveva progettato in onore di Maderna per la RAI di Milano. Quale
occasione migliore per verificare se, dopo tante esecuzioni e omaggi, il
satellite si fosse finalmente ‘rasserenato’? Il satellite sereno è dunque
un lavoro a specchio, o meglio ‘a rimbalzo’, che contiene cioè tutte le
cose (tecniche strumentali e processi compositivi) che avevo aggiunto
all’originale maderniano e di cui, in quest’occasione, con un sorriso d’intesa
mi riappropriavo. Augurandomi uno sguardo altrettanto divertito da parte
di Bruno e un verdetto benevolo dal suo divino orecchio: onniascoltante,
come direbbe Giuliano Scabia. [Claudio Ambrosini]

Stefano Bellon Nana Bruneto.
Brunetto Grossato è il nome con cui Maderna bambino
è noto al pubblico musicale italiano del primo dopoguerra. A partire
dall’adolescenza, il cognome del padre sparisce e Bruno assume quello
della madre, morta anni prima. La biografia è nota, ed è naturale pensare
che la sparizione del nome paterno indichi una frattura che incrinerà
poi l’edificio di un’intera vita. Brunetto Grossato è il prima, Maderna il
dopo. Nana, Bruneto qui vorrebbe stare per ‘dormi, riposa, Bruno…’: una
preghiera augurale di ritrovata quiete, rivolta a quel prima da cui sorgono
le lacerazioni e le malinconie del dopo. Sib, La, Re e Mi (le quattro note
ricavabili dal nome di Bruno Maderna) costituiscono con le loro permutazioni
una specie di feticcio musicale che, quasi una coperta di Linus, mi trascino
da vent’anni o forse più, e da cui ho estratto anche il nucleo generatore del
pezzo dedicato in amicizia a Carlo Lazari. [Stefano Bellon]

Bruno Maderna Aulodia per Lothar.
Il brano fu composto nel 1965 ed ebbe la sua prima
esecuzione il 9 settembre 1965 nel contesto del XXVIII Festival di musica
da Camera della Biennale di Venezia nell’interpretazione dell’oboista
Lothar Faber (dedicatario) e del chitarrista Alvaro Company. L’oboe in
Maderna, sia come solista che nei Concerti, incarna un suono primordiale,
di reminiscenza ellenica, l’antico aulos, lo strumento ad ancia singola o
doppia associato a Dioniso e alle divinità pelasgiche, che stimolavano
le espressioni più violente dell’istinto e del sentimento. I Greci antichi
chiamavano aulodía il canto accompagnato o raddoppiato dall’aulos
e che, secondo Teofrasto, ha origine da tre affetti: dolore, piacere
ed entusiasmo – da cui il lamento funebre, il canto conviviale e l’inno
liturgico. Secondo Massimo Mila (Maderna musicista europeo, 1976, pp.
52-54) si racconta che l’auléta Sàcada di Argo si esibisse con spiccato
virtuosismo strumentale «in ogni sorta di guizzi, di raffiche, di ghirigori
strumentali». Per Maderna invece l’oboe non è strumento di esasperato
virtuosismo, e neppure di «acrobazie agilissime e di «svolazzi», spesso
affidati al flauto. «Per lui l’oboe è strumento eminentemente cantante,
perciò l’eventuale improprietà del termine aulodía è provvidenziale e
significativa, designando proprio quella caratteristica canora ch’egli
attribuisce allo strumento. Aulodía: non canto accompagnato dall’aulòs,
ma canto strumentale, per mezzo dell’aulòs. Quella categoria della musica
di Maderna che abbiamo proposto di chiamare melodia assoluta.» Mila
prende a prestito dal Dodecachordon di Enrico Glareano, un trattato
musicale del Cinquecento, le categorie di phonascus (puro inventore di
melodie) e symphoneta (sapiente combinatore di armonie), dando la
«palma del maggior pregio all’arte del phonascus» in quanto quella del
symphoneta «si può imparare». Phonascus invece si nasce: non c’è scuola
né studio che possano aiutare. «Nell’Aulodía Maderna riconferma la sua
schietta vocazione di phonascus nell’impresa disperata di cantare, cioè
di affidare tutto a un filo di melodia strumentale, coi tempi che corrono,
dopo Wagner, Strauss, Stravinskij e compagnia bella, dopo l’intossicazione
armonica e il tecnicismo da cui è governata la musica contemporanea.»
La malinconia dell’oboe e dell’oboe d’amore «si effonde in un discorso
melodico di mirabile continuità, che prende slancio da sé stesso, librato
come il volo di un aliante, secondo il capriccioso sostegno delle correnti
d’aria. […] In un episodio centrale il discorso dello strumento a fiato,
accompagnato da percussioni della chitarra battuta sulla cassa, si fa più
frastagliato e capriccioso. […] Ma presto l’oboe fa ritorno alla sua natura
malinconica e meditativa, che però in questa serena composizione non
degenera mai nella tristezza.»

Bruno Maderna Y después.
Il brano è stato composto a Darmstadt nel 1971 per il chitarrista
spagnolo Narciso Yespes, al quale è dedicato. Utilizza uno strumento a
dieci corde con una particolare accordatura: la settima corda è la più bassa
(D2) mentre ottava, nona, decima corda hanno accordature intermedie
tra le altre corde, ed hanno la funzione di arricchire le possibilità tecniche
dello strumento. L’idea e l’utilizzo delle cosiddette corde ‘rientranti’
origina dalle chitarre del Sei-Settecento. Yepes in collaborazione con il
liutaio José Ramirez III mise a punto lo strumento intorno agli anni ’60
del Novecento, al termine di un lungo periodo di sperimentazione. Bruno
Maderna utilizza la chitarra a dieci corde con la scordatura della settima
corda a B1 (dunque una terza minore più bassa dell’accordatura originale),
allo scopo di evocare il suono di strumenti antichi e lontani, con un colore
più scuro e profondo rispetto alla chitarra a sei corde. Le partiture solistiche
non vanno mai disgiunte dalle opere sinfoniche di Maderna. Y después, ad
esempio, prende il titolo da una poesia di Federico Garda Lorca tratta dal
Poème du canto jondo, il cui testo era già stato musicato da Maderna in
una sezione corale della Suite aus der Oper «Hyperion», eseguita a Berlino
nel 1969: «I labirinti / che il tempo crea / svaniscono. // (Rimane solo /
il deserto.) // Il cuore, / fonte del desiderio, / svanisce. // (Rimane solo
/ il deserto.) // La speranza dell’alba / e i baci / svaniscono. // Rimane
solo il deserto / ondulato. / Il deserto.» In quest’opera, il testo, non
recitato né cantato, ma come rivelato attraverso la musica, accompagna
silenziosamente l’andamento del brano, prima di svanire nelle ultime due
pagine della partitura. Suggerisce al contempo all’esecutore la forma
per utilizzare in modo suggestivo i frammenti forniti da Maderna, che
dovranno essere ripetuti, interpolati liberamente con dinamiche e tempi
ad libitum nell’improvvisazione finale. Y después trae ispirazione dall’arte
andalusa nella sua filiazione araba e moresca, dalle profonde modulazioni
del cante jondo, «filo che ci unisce all’Oriente impenetrabile» e dal duende,
quell’impulso oscuro e fremente, quella trance, quei suoni neri di una forza
misteriosa, avvertita ma ignorata dalla ragione – «lo spirito della terra».

Bruno Maderna Solo e Tempo libero I.
Il brano fu composto nel 1971, tutte le sue parti
fanno parte di Ausstrahlung, per voce femminile, flauto e oboe obbligati,
grande orchestra, e nastro magnetico, opera da cui sono tratti materiali per
molti lavori solistici di Maderna afferenti al suo ultimo periodo creativo.
Benché in partitura non appaia alcuna indicazione in merito, numerosi
programmi di sala e recensioni testimoniano la prassi di Lothar Faber – se
non addirittura di Maderna stesso, ma comunque senz’altro da lui approvata
– di sovrapporre o alternare i brani solistici con il nastro magnetico Tempo
libero I. Nelle registrazioni storiche di Lothar Faber, il solista propone una
serie di strutture che contrastano con la registrazione elettronica ricreando
lo schema di contrapposizione solo/tutti molto spesso presente nelle opere
sinfoniche di Maderna. Nella dialettica tra oboe e mezzo elettronico il
nastro magnetico funge da elemento di disturbo, simboleggia un’irruzione
del mondo esterno nella solitudine del poeta, allo stesso modo di quanto
avviene nel Concerto per violino. Così ne parla Maderna, ammettendo che
tale atteggiamento provenga dal pensiero di Hyperion, un’opera che ha
condizionato radicalmente la sua poetica: «si tratta della testimonianza
dell’artista, del poeta, dell’uomo, che è solo e tenta di convincere gli altri
delle sue idee o del suo ideale. E questo ideale è talmente alto, o buono,
o tollerante, che gli uomini non sono in grado di comprenderlo, pertanto,
tentano di annientare il profeta.» (in Conversazione con Christof Bitter e
Theo Olof, 1970). In questa versione di Solo il nastro magnetico di deve
dunque essere considerato come una sorta di ‘stimolatore’ del processo
improvvisativo che unisce il solista al regista del suono.

Bruno Maderna Serenata per un Satellite
La Serenata per un satellite di Bruno Maderna
è uno dei capolavori indiscussi della Musica Aleatoria. La partitura
consta di un solo foglio, sul quale i pentagrammi sono disegnati non
solo orizzontalmente ma anche diagonalmente, rivolti in su e in giù,
magneticamente attratti o respinti fino ai bordi della pagina, costretti a
produrre incroci, sovrapposizioni, parallelismi, scontri. È un’opera classica
di quel periodo, in cui si chiedeva all’interprete di ‘trovare una strada’
in mezzo all’apparente caos esposto in partitura, di scegliere lui quale
frammento suonare e con quale strumento, quale percorso seguire, da
dove cominciare, dove e quando finire.
Benché la Musica Aleatoria sia aperta per definizione, personalmente
ritengo sia necessario aggiungere un elemento in più: riuscire quasi a
‘datare’ ogni esecuzione, inserendovi dei dettagli,dei principi compositivi
o esecutivi propri (o, almeno, noti) del periodo in cui quella esecuzione
avviene. In altre parole, ritengo si debba sentire che un’esecuzione
del 1969 (anno di composizione della Serenata) è diversa – e non solo
perché le frasi di cui il brano si compone sono suonate in una sequenza
differente – da un’esecuzione del 1989 o del 2029. A distanza di anni di
sicuro molte cose sono cambiate rispetto alla primissima esecuzione,
nuove tecniche strumentali si sono consolidate, nuove teorie compositive
(come per esempio la Musica Minimalista o la Musica Spettrale) si sono
affacciate all’orizzonte e costituiscono oggi alcuni dei sistemi praticati,
o alcuni dei linguaggi e delle tecniche possibili. Maderna è morto assai
prematuramente, nel 1973. Non ha potuto quindi conoscere le nuove
correnti o le nuove tecniche ma credo che se fosse vissuto le avrebbe
forse amate o rifiutate, ma in ogni caso le avrebbe indagate, si sarebbe
confrontato con esse. Se la filologia musicale è ‘attenzione al passato’, per
l’opera aperta mi pare dovrebbe essere ‘attenzione al futuro’.
Nella mia trascrizione del 1985 avevo voluto quindi ‘segnare’ lo stato della
musica in quel momento. La partitura che ne è nata usa rigorosamente
il testo di Maderna, indicandone un ‘percorso di attraversamento’, come
si fa di solito per questo genere di opere. Ma nello stesso tempo si
apre al dopo: ai suoni multifonici dei fiati, per esempio, che iniziavano
ad affermarsi proprio alla fine degli anni ’60 e che Maderna molto
probabilmente avrebbe usato, se fosse vissuto più a lungo.
Ma dove inserire queste nuove pratiche senza modificare il testo
originale? Avevo allora deciso di avvalermi dei ‘disegnini’ con cui Maderna
aveva ‘decorato’ la sua composizione, e che fino a quel momento erano
stati trascurati dagli interpreti. Nel suo foglio ci sono per esempio delle
curiose ‘mini-scacchiere’, che ravvivano il punto in cui due pentagrammi si
incrociano; o altri segni più elaborati, che qui e là collegano i righi musicali
più lontani; o altri segni ancora, più confusi e arruffati, che sembrano
cancellature, o scarti della mano, ma che forse vogliono suggerire nuove
articolazioni, nuovi suoni.
La nuova versione che verrà presentata questa sera si arricchisce di
un elemento in più: al gruppo strumentale centrale si aggiungono due
altre sorgenti sonore, due gruppi ‘in eco’, cioè lontani, disposti in modo
da irradiare tutto l’ambiente del concerto, avvolgendo il pubblico con
suoni che provengono dai lati, da dietro e anche dall’alto. Questi nuclei
sonori ‘spazializzati’ fungono da specchi che moltiplicano la polifonia,
producendo echi, rifrazioni, eterofonie capaci di rivelare ulteriori
potenzialità della partitura maderniana. Una ‘danza dei suoni nello
spazio’, che rimanda a quel vero prototipo della stereofonia che furono i
cori battenti usati nella Basilica di San Marco fin dal Rinascimento. Era con
quelle sorgenti sonore ‘spezzate’, o ‘battenti’ – cioè separate, dialoganti e
disposte in vari punti della chiesa – che Willaert, i Gabrieli, Monteverdi e
gli altri musicisti della Serenissima creavano le loro cangianti trame sonore.
Un’epoca di grandi sperimentazioni e geniali intuizioni che Bruno
Maderna – con l’amico Luigi Nono e sotto la guida di Gian Francesco
Malipiero – fu tra i primissimi a indagare, trascrivere, reinventare.
[Claudio Ambrosini]