Concerto 11


Martedì 12 dicembre 2023 ore 20.00
Gran Teatro La Fenice Sale Apollinee


ASTRAZIONE ED ESPRESSIONE








Monica Bacelli
mezzosoprano

Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Davide Teodoro clarinetto
Carlo Lazari violino
Mario Paladin viola
Carlo Teodoro violoncello
Nicoletta Sanzin arpa
Aldo Orvieto pianoforte






Paul Hindemith (1895-1963)
Sonata (1939) per clarinetto e pianoforte
Mäßig bewegt – Lebhaft – Sehr
langsam – Kleines Rondo, gemächlich

Claude Debussy (1862 - 1918)
Sonata L 145 (1915) per flauto, viola e arpa
Pastorale (Lento, dolce rubato) –
Interlude (Tempo di minuetto) –
Finale (Allegro moderato ma risoluto)

Igor Stravinskij (1882 - 1971)
Epitaphium (1959)
per flauto, clarinetto, arpa

Gian Francesco Malipiero (1882-1973)
Due Sonetti del Berni (1922)
per soprano e pianoforte
Chiome d’argenti fine, irte e attorte
senz’arte – Cancheri e Beccafichi


Bruno Maderna (1920-1973)
Liriche su Verlaine (1946-47)
per soprano e pianoforte
Aquarelles (da Romances sans paroles) –
Sérénade (da Poèmes saturniens)
Sagesse

Gian Francesco Malipiero
Sonata a cinque (1934)
per flauto, violino, viola, violoncello, e arpa
Allegro – Marziale





Gian Francesco Malipiero e Bruno Maderna: chi fu l’allievo e chi il maestro?


«Chi si aspettasse la chiarificazione puntuale di un eventuale discepolato
malipieriano a Maderna, resterà infatti molto, molto deluso. Innanzitutto, in
questo rapporto, i ruoli sembrano essere, meglio dire sono, indiscutibilmente
intercambiabili. Non è tanto solo Malipiero che serve alla crescita di Maderna,
ma piuttosto avviene il contrario: Maderna serve a Malipiero per rimettersi
in gioco anche come compositore nel terribile secondo dopoguerra. Gli
offre nuovi stimoli […], gli suggerisce nuovi strumenti per un’autoanalisi
linguistica su cui si fonda la struttura della continuità dell’ermetico linguaggio
del vecchio maestro»

«È anche vero che Malipiero ha aiutato moltissimo Maderna: lo ha adottato,
ma non gli ha voluto insegnar nulla, non gli ha chiesto prove d’amor
epigonico, non ha posto vincoli al suo talento; gli ha solo raccontato come
è cominciata la cosa per lui: non nelle classi di Conservatorio, ma nella
frequentazione di tracce antiquarie nella sala manoscritti della Biblioteca
Marciana. Poi lo ha presentato a Dallapiccola e a Scherchen, quindi lo ha
nomignolato affettuosamente “figlio mio snaturatissimo”, stimando sempre
la sua diversità. […]»

Paolo Cattelan, Premessa a AA.VV., Malipiero Maderna 1973-1993,
Olschki, 2000




Gian Francesco Malipiero e Paul Hindemith

In «Visita a Paul Hindemith», un articolo della Gazzetta del Popolo del 15
settembre 1936 (n. 220, p.3) Malipiero fa il resoconto di un incontro con
Hindemith nella sua casa di Berlino, nell’estate del 1936: «Da un anno
sapevamo che Hindemith aveva finito poesia e musica di una nuova opera
della quale potemmo finora sentire soltanto qualche frammento sinfonico
nei concerti: Mathis der Maler. [...] Hindemith, raccontandoci il soggetto
e suonando i punti principali di questo suo ultimo lavoro teatrale, appariva
insolitamente nervoso, agitato, e noi eravamo commossi perché la musica
di questo Mathis der Maler ci avvince e ci convince. È una musica forte,
dal respiro largo, drammaticamente efficace. Sentimmo che anche egli,
amareggiato e deluso, avrebbe voluto sotterrare gli arnesi del suo mestiere.
Dimenticare! Perché? Congedandoci non sapevamo come calmarlo o
consolarlo anche perché non riusciamo nemmeno ora a comprendere la sua
vera situazione. Trovandoci un po’ nelle sue stesse condizioni gli dicemmo
che oramai anch’egli era un musicista universale, e di non preoccuparsi
perché avendo nel mondo intero ammiratori fedeli che lo seguono e
comprendono l’isolamento non è possibile.» In filigrana a questo racconto
si legge il momento di insanabile contrasto che Hindemith visse a partire
dal 1936 con il regime nazionalsocialista culminato con l’esilio in Svizzera,
a Bluche-sur-Sierre, nel Vallese, nel settembre 1938. Hitler in persona si era
opposto all’allestimento di Mathis der Maler, Hindemith era stato accusato
di ‘bolscevismo culturale’; nella primavera del 1937 era stato costretto a
dimettersi dalla Hochschule di Berlino. Nelle ripetute tournée americane
di quegli anni si posero le basi per il suo trasferimento negli Stati Uniti,
avvenuto nei primi giorni del 1940.

Paul Hindemith Sonata per clarinetto e pianoforte. La Sonata fu composta in soli sette
giorni (21-28 settembre 1939). Si inserisce nel vasto progetto di Sonate
per strumento solista e pianoforte, dalla difficoltà strumentale misurata,
destinate all’attività concertistica: venticinque opere in totale di cui ben
sedici furono composte negli ultimi anni di permanenza in Europa. In
questa fase creativa Hindemith aveva abbracciato l’utilizzo di condotte
armoniche moderatamente diatoniche, a tratti arcaicizzanti, con impiego
di procedimenti imitativi e pedali armonici: il progetto era quello di aderire
pienamente a regole formali classiche benché ripensate sotto la lente del suo
potente sguardo inventivo. Nella sua principale opera teorica, Unterweisung
im Tonsatz, revisionata proprio nel periodo 1937-39, Hindemith propone una
ricerca di ‘naturalezza’ e compostezza nell’organizzazione dei materiali. Le
forme classiche devono venir rimeditate con autenticità emotiva ma senza
eccessi e perdita di equilibrio; nelle mani di quel grande interprete qual
egli era, il corpus delle Sonate costituisce l’emblema di un ‘far musica’
dal piglio comunicativo, limpido e sereno. Anche se può stupire, tale fu
il messaggio che Hindemith volle consegnarci nel periodo più triste e
avventuroso della sua vita.

Claude Debussy Sonata per flauto, viola e arpa. Nel 1915 Debussy era ormai il più grande
musicista di Francia, il più rappresentativo della sua patria; la sua gloria
risplendeva nel mondo intero. Giunto all’apogeo della sua carriera, quando
il suo paese subiva la terribile prova di una lunghissima guerra il suo
impegno fu quello di manifestare la vitalità dell’antica arte nazionale, contro
l’establishment musicale francese che si nutriva di prescrizioni accademiche
imponendo al compositore l’«armatura delle formule», l’«accumulazione dei
motivi e dei disegni sovrapposti», lo stile «classico amministrativo». Ecco
perciò l’evocazione di antichi maestri: Rameau e Couperin, poi Massenet e
Offenbach. Un’evocazione che ha poco di concreto, ma circoscrive piuttosto
un luogo dello spirito, un luogo ove sognare una ‘tradizione francese’ in
realtà ancora tutta da inventare. La Sonata per flauto viola e arpa, venne
originariamente concepita come ideale filiazione di un tipico organico barocco
(flauto, oboe e clavicembalo) attualizzato con l’impiego dell’arpa, uno degli
strumenti simbolo della poetica debussyana, il cui ruolo centrale in Pelleas
et Mélisande creò addirittura dei clichés per molti compositori a venire. La
sostituzione dell’oboe con la viola – probabilmente preferita proprio per
una maggior duttilità nel produrre sonorità velate e aeree – avvenne ad
abbozzo già ultimato. Come nella sonata per violoncello, ma in modo più
caratteristico, le melodie sono di una libertà di scrittura che ricerca uno stile
monodico nuovo guardando molto indietro, fino alla musica medioevale.
Canzoni popolari di trovatori e di trovieri, e più lontano ancora alla antichità
indefinita del canto gregoriano. In una lettera a Robert Godet Debussy
affermò di poter parlare della sua musica «senza arrossire», poiché era di
un Debussy che lui non conosceva più. «É spaventosamente malinconica.
E [non si capisce bene] se ci sia da ridere o da piangere. Forse tutte e due
le cose?» [in Debussy, Correspondance, pp. 2056-58]

Igor Stravinskij Epitaphium. La partitura reca la dicitura «Für das Grabmal des Prinzen
Max Egon zu Fürstenberg» (per la lapide del principe Max Egon di
Fürstenberg), patrono dei Donaueschinger Musiktage. Stravinskij era stato
ospite d’onore del principe, durante i festival 1957 e 1958. Alla sua morte,
nell’aprile del 1959, Stravinskij, Pierre Boulez e Wolfgang Fortner, vennero
invitati a scrivere una breve composizione in sua memoria. Uno dei brani
scritti in onore del mecenate fu Epitaphium, prima opera di Stravinskij
che impiega il metodo seriale in forma rigorosa. Contrastando i precetti
fondativi della dodecafonia, la serie non fu costruita secondo principi
meramente strutturali e mantiene, almeno parzialmente, una funzione
tematica. Stravinskij infatti compose in origine una frase melodico-
armonica seguendo il suo istinto inventivo e solo nel corso della stesura
si accorse che la sequenza era sfruttabile serialmente. Il breve brano ha
la forma di un insolito inno, con quattro strofe antifonali, ciascuna ripresa
dall’arpa e dalla coppia di strumenti. Ogni strofa contiene la serie allo
stato originale o nelle sue tre filiazioni (Inverso, Retrogrado, Retrogrado
dell’Inverso). Data la brevità del brano non sono usate trasposizioni.

Gian Francesco Malipiero Due Sonetti del Berni. «Le Tre poesie di Angelo Poliziano, i
Quattro sonetti del Burchiello e i Due sonetti del Berni sono “nove canzoni”
che discendono direttamente dalle Sette canzoni. Musica e parola, armonia
e ritmo qui vanno insieme. Si manifesta una specie di processo chimico
che appunto genera la canzone, la quale però può assumere centomila
aspetti: può diventare persino una sinfonia in molti tempi.» (G. F. Malipiero
in Catalogo delle opere …, Treviso, 1952, p. 254) Dunque «una sinfonia in
molti tempi» per voce e pianoforte nella quale Malipiero non solo utilizza
testi attinti dalla letteratura antica ma raggela il tempo antico associandovi
una musica che desta la sensazione di una peregrinazione senza pace, di un
«brancolare nel buio» (Francesco Degrada). La negazione di ogni forma di
sviluppo tematico, l’impiego di modalità e diatonismo, ammiccamenti allo
stile popolare (come in «Cancheri e Beccafichi», la seconda canzone dei due
Sonetti del Berni), costituiscono le premesse per innescare un processo di
riproposizione variata dei motivi, incessantemente ‘distorti’, resi fonicamente
inintelligibili, e porre dunque l’ascoltatore nella perpetua sensazione del ‘già
sentito’ sempre illudendolo di poter raggiungere l’agognata condizione di
riposo di una ‘ripresa tematica’. Il primo sonetto «Chiome d’argento fino irte
e attorte» è la parodia del sonetto «Crin d’oro e crespo» di Pietro Bembo,
di cui clona le immagini per capovolgerne il senso in modo paradossale e
mettere in scena una descrizione della donna in opposizione alla figura
angelica dell’originale. Secondo János Maróthy (Malipiero e gli aspetti della
sua contemporaneità, in Quaderni di Musica/Realtà 3, 1982): «Nel primo
sonetto Malipiero usa un tipo di nobile declamazione simile ai lamenti di
Monteverdi. Abbiamo qui già un doppio contrasto: un lamento per descrivere
“le bellezze della mia signora” – ed un accompagnamento che combina
il fluire solenne delle figurazioni in sedicesimi con la cupezza delle quinte
vuote e con la spaventosa incertezza dei tritoni, diabuli in musica. Il secondo
sonetto è di nuovo in contrasto sia rispetto al precedente, sia rispetto al suo
messaggio verbale. In questo caso il testo è una lagnanza aperta contro il
fardello del matrimonio (condensata nell’ultima rima , “doglie” e “moglie”),
tuttavia la musica è in apparenza molto lieta, assumendo i toni del grido di un
ambulante che pubblicizza i meriti di una merce che egli vuole vendere.[…]
Con Malipiero persino questo tema delle grida dell’ambulante, grottesco
di per sé quando volete vendere le doglie e non il rimedio per esse, viene
collocato in un ambiente estraniato mediante strutture di scale meccaniche,
seconde minori dissonanti, settime maggiori e relazioni tonali mutate. L’esito
è un lamento per la lode ed una lode per il lamento.»


I.
Chiome d’argento fino, irte e attorte
senz’arte intorno ad un bel viso d’oro;
fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;

occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve e quelle, ond’io m’accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;

labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d’ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;

costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d’Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.

II.
Cancheri e beccafichi magri arrosto,
e magnar carne salsa senza bere;
essere stracco e non poter sedere;
aver il fuoco appresso e ‘l vin discosto;
riscuoter a bell’agio e pagar tosto,
e dar ad altri per dover avere;
esser ad una festa e non vedere,
e de gennar sudar come di agosto;
aver un sassolin nella scarpetta
et una pulce drento ad una calza,
che vadi in su in giù per istaffetta;
una mano imbrattata ed una netta;
una gamba calzata ed una scalza;
esser fatto aspettar ed aver fretta:
chi più n’ha più ne metta
e conti tutti i dispetti e le doglie,
ché la peggior di tutte è l’aver moglie.

Bruno Maderna Liriche su Verlaine.
Dalla scheda predisposta da Giordano Montecchi
all’interno del Catalogo ragionato delle opere (in AA.VV. Bruno Maderna
documenti, Edizioni Suvini Zerboni, Milano, 1985) leggiamo: «Il testo è
costituito da tre liriche di Paul Verlaine: per Aquarelles si tratta di una poesia
intitolata in origine Green, la prima di un gruppo di sette liriche denominato
per l’appunto Aquarelles e incluso nelle Romances sans paroles, pubblicate
a Sens nel 1874. Il testo di Sérénade è costituito dalla poesia omonima tratta
dai Poèmes saturniens, pubblicati a Parigi nel 1866. Sagesse è la prima lirica
della seconda parte del lungo componimento poetico omonimo pubblicato
da Verlaine a Parigi nel 1881.» Come fa notare Paolo Dal Molin: «Il periodo
d’elaborazione delle tre melodie coincide con gli ultimi mesi di un significativo
acme della fortuna di Verlaine in Italia, al quale per di più contribuiscono
personalità operanti o gravitanti nell’orbita di Venezia, ove Maderna in quegli
anni risiedeva frequentemente.» La lirica di Verlaine ha costituito in Italia
una sicura fonte del Decadentismo, della poesia di Pascoli e soprattutto
di quella di D’Annunzio. L’utilizzo dei suoi testi poteva risultare dunque
per Maderna, in quei primi critici anni del dopoguerra, una etichetta di
‘compositore di retroguardia’. Le liriche infatti scompaiono immediatamente
da tutte le biografie maderniane del periodo e non risultano citate neppure
nel volume Maderna musicista europeo di Massimo Mila (1976). Non se ne
conoscono esecuzioni pubbliche fino a quella avvenuta a Bonn il 16 marzo
1984 in occasione del ciclo Omaggio a Bruno, Eine Maderna-Retrospektive.
Composte fra il settembre 1946 e il marzo del 1947 (non si conoscono date
certe), le Liriche di Verlaine sono coeve al Concerto per due pianoforti e
strumenti. Il Concerto presenta – secondo Paolo Cattelan – «una matassa
stilistica molto ingarbugliata. Stravinskij e la dodecafonia nel primo Tempo,
un’aura di neoclassicismo persino un po’ raveliana, avvolge il secondo, le
tecniche di composizione microcanonica e Bartòk sono l’oggetto di ricerca
del terzo». L’eclettismo di questo periodo creativo, già evidente nell’analisi
stilistica del Concerto, viene ulteriormente confermato dalle Liriche su
Verlaine, nelle quali non compare praticamente nessuno dei tratti stilisti
sopradescritti. In una lettera del 19 gennaio 1943 dalla caserma degli Alpini di
Merano a Irma Manfredi – l’amata madre adottiva – Bruno oltre a dichiarare
di essere stato nella sua adolescenza «un fervente ammiratore della musica
impressionista» e di Debussy ammette che: «sempre è stata per me viva
la tentazione di una musica verticale, che mi consentisse di concepire una
linea non in sé, ma sempre in rapporto, anzi quasi scaturita da un’atmosfera
armonica.» Dopo aver constatato – nella medesima lettera - che tale ricerca
lo accomuna a Hindemith, seppur gli esiti dei rispettivi percorsi siano molto
diversi, Maderna afferma: «vado a poco a poco ritrovandola in una più
matura analisi dell’accordo, quasi che la tecnica armonica vada sempre più
raffinandosi in un processo che si potrebbe chiamare di spiritualizzazione
della materia; a guisa degli antichi bulini da orefice, che qualche volta
vediamo nelle botteghe degli antiquari […].» Nelle Liriche Maderna ricerca
una grande fusione tra linea melodica e armonia, non rinunciando a
cesellare quest’ultima fino a conferirle un colore e una timbrica del tutto
originale. Seppur tale ricerca sia stata presto abbandonata a favore di altre
intuizioni compositive, le Liriche ne costituiscono un meraviglioso frutto e
una preziosa testimonianza.

AQUARELLES

Voici des fruits, des fleurs, des feuilles et des branches,
Et puis voici mon cœur qui ne bat que pour vous.
Ne le déchirez pas avec vos deux mains blanches,
Et qu’à vos yeux si beaux l’humble présent soit doux.

J’arrive tout couvert encore de rosée
Que le vent du matin vient glacer à mon front.
Souffrez que ma fatigue, à vos pieds reposée,
Rêve des chers instants qui la délasseront.

Sur votre jeune sein, laissez rouler ma tête
Toute sonore encore de vos derniers baisers;
Laissez-la s’apaiser de la bonne tempête,
Et que je dorme un peu puisque vous reposez.

SERENADE


Comme la voix d’un mort qui chanterait
Du fond de sa fosse,
Maîtresse, entends monter vers ton retrait
Ma voix aigre et fausse.

Ouvre ton âme et ton oreille au son
De la mandoline:
Pour toi j’ai fait, pour toi, cette chanson
Cruelle et câline.

Je chanterai tes yeux d’or et d’onyx
Purs de toutes ombres,
Puis le Léthé de ton sein, puis le Styx
De tes cheveux sombres.

Comme la voix d’un mort qui chanterait
Du fond de sa fosse,
Maîtresse, entends monter vers ton retrait
Ma voix aigre et fausse.
Puis je louerai beaucoup, comme il convient,
Cette chair bénie
Dont le parfum opulent me revient
Les nuits d'insomnie.

Et pour finir, je dirai le baiser
De ta lèvre rouge,
Et ta douceur à me martyriser,
- Mon Ange! - ma Gouge!

Ouvre ton âme et ton oreille au son
De ma mandoline:
Pour toi j'ai fait, pour toi, cette chanson
Cruelle et câline.

SAGESSE

O mon Dieu, vous m'avez blessé d'amour
Et la blessure est encore vibrante,
O mon Dieu, vous m'avez blessé d'amour.

O mon Dieu, votre crainte m'a frappé
Et la brûlure est encor là qui tonne,
O mon Dieu, votre crainte m'a frappé.

O mon Dieu, j'ai connu que tout est vil
Et votre gloire en moi s'est installée,
O mon Dieu, j'ai connu que tout est vil.

Noyez mon âme aux flots de votre Vin.
Fondez ma vie au Pain de votre table,
Noyez mon âme aux flots de votre Vin.

Voici mon sang que je n'ai pas versé,
Voici ma chair indigne de souffrance,
Voici mon sang que je n'ai pas versé.

Voici mon front qui n'a pu que rougir,
Pour l'escabeau de vos pieds adorables,
Voici mon front qui n'a pu que rougir.

Voici mes mains qui n'ont pas travaillé,
Pour les charbons ardents et l'encens rare,
Voici mes mains qui n'ont pas travaillé.

Voici mon cœur qui n'a battu qu'en vain,
Pour palpiter aux ronces du Calvaire,
Voici mon cœur qui n'a battu qu'en vain.

Voici mes pieds, frivoles voyageurs,
Pour accourir au cri de votre grâce,
Voici mes pieds, frivoles voyageurs.

Voici ma voix, bruit maussade et menteur,
Pour les reproches de la Pénitence,
Voici ma voix, bruit maussade et menteur.

Voici mes yeux, luminaires d'erreur,
Pour être éteints aux pleurs de la prière,
Voici mes yeux, luminaires d'erreur.
.
Hélas! Vous, Dieu d'offrande et de pardon,
Quel est le puits de mon ingratitude,
Hélas! Vous, Dieu d'offrande et de pardon,

Dieu de terreur et Dieu de sainteté,
Hélas ! ce noir abime de mon crime,
Dieu de terreur et Dieu de sainteté,

Vous, Dieu de paix, de joie et de bonheur,
Toutes mes peurs, toutes mes ignorances,
Vous, Dieu de paix, de joie et de bonheur,

Vous connaissez tout cela, tout cela,
Et que je suis plus pauvre que personne,
Vous connaissez tout cela, tout cela,

Mais ce que j'ai, mon Dieu, Je vous le donne.

ACQUERELLI

Ecco frutti, fiori, foglie e rami,
ed ecco poi il mio cuore che batte per voi.
Non straziatelo con le vostre bianche mani
e ai vostri occhi così belli sia dolce l’umile dono.

Arrivo ancora coperto di rugiada,
che il vento del mattino raggelò sulla mia fronte.
Sopportate che la mia stanchezza,riposata ai vostri piedi,
sogni i dolci istanti che la ritempreranno.

Sul vostro giovane seno lasciate andare la mia testa,
che ancora risuona tutta dei vostri ultimi baci:
lasciate che si plachi dopo la buona tempesta
e che io dorma un po’ poiché voi riposate.

SERENATA

Come la voce di un morto che canti
dal fondo della propria fossa,
ascolta salire verso il tuo ritratto, o amante,
la mia aspra e falsa voce.

Apri l’anima e l’orecchio al suono
del mio mandolino:
per te ho composto questa canzone
tenera e crudele.

Io canterò i tuoi occhi d’oro e d’onice
puri d’ogni ombra,
poi il Lete del tuo seno, poi lo Stige
dei tuoi capelli scuri.

Come la voce di un morto che canti
dal fondo della propria fossa,
ascolta salire verso il tuo ritratto, o amante,
la mia aspra e falsa voce.

Poi loderò tanto, come è giusto,
questa tua carne benedetta
il cui profumo opulento mi torna
nelle notti insonni.
E per finire loderò il bacio
delle tue rosse labbra,
la tua dolcezza nel martirizzarmi.
– Angelo mio! – Sgualdrina mia!
Apri l’anima e l’orecchio al suono
del mio mandolino:
per te, per te ho composto questa canzone
tenera e crudele.

SAGGEZZA

Oh, mio Dio, m’avete ferito d’amore
e la ferita è ancora vibrante,
oh, mio Dio, m’avete ferito d’amore.

Oh, mio Dio, il vostro timore mi ha colpito
e la bruciatura è ancora là che tuona,
oh, mio Dio, il vostro timore mi ha colpito.

Oh, mio Dio, ho appreso che tutto è vile
e la vostra gloria s’è installata in me,
oh, mio Dio, ho appreso che tutto è vile.

Annegate la mia anima nei flutti del vostro vino,
fondete la mia vita al pane della vostra mensa,
annegate la mia anima nei flutti del vostro vino.

Ecco il mio sangue che io non ho versato,
ecco la mia carne indegna di sofferenza,
ecco il mio sangue che io non ho versato.

Ecco la mia fronte che ha potuto soltanto arrossire
per sgabello dei vostri piedi adorabili,
ecco la mia fronte che ha potuto soltanto arrossire.

Ecco le mie mani che non hanno lavorato
per i carboni ardenti e il raro incenso,
ecco le mie mani che non hanno lavorato.

Ecco il mio cuore che ha battuto invano,
per palpitare tra i rovi del calvario,
ecco il mio cuore che ha battuto invano.

Ecco i miei piedi, frivoli viaggiatori,
per accorrere al grido della vostra grazia,
ecco i miei piedi, frivoli viaggiatori.

Ecco la mia voce, rumore urtante e bugiardo,
per il rimprovero della penitenza,
ecco la mia voce, rumore urtante e bugiardo.

Ecco i miei occhi, fari di errori,
per essere spenti dalle lacrime della preghiera,
ecco i miei occhi, fari di errori.

Ahimè! Voi, Dio d'offerta e di perdono,
qual è il pozzo della mia ingratitudine,
Ahimè! Voi, Dio d'offerta e di perdono.

Dio di terrore e Dio di santità,
ahimè! questo nero abisso della mia colpa,
Dio di terrore e Dio di santità!

Voi, Dio di pace, di gloria e di felicità,
tutti i miei timori, tutte le mie ignoranze,
Voi, Dio di pace, di gloria e di felicità!

Voi conoscete tutto questo, tutto questo,
ed io che sono più povero di qualsiasi altro,
voi conoscete tutto questo, tutto questo.

Ma ciò che ho, mio Dio, io ve lo dono.

[traduzioni di Giacinto Spagnoletti]


Gian Francesco Malipiero Sonata a cinque.
Nella famosa lettera a Gino Scarpa (Asolo, 16
agosto 1952) che fa da ‘Poscritto al catalogo delle proprie opere’ Malipiero
scrive: «dalla lettura ai miei commenti al Catalogo risulta chiaro che non
nutro uguale amore per tutte le mie creature. Per esempio, vorrei essere
uscito dal silenzio non prima del 1911, con le prime Impressioni dal vero e
che a queste avessero fatto seguito, sia pure dopo sei anni, le sole Pause del
silenzio. I miei quartetti si salvano tutti, come la Sonata a cinque, i Ricercari e
i Ritrovari». Scritta in una forma apparentemente sciolta e improvvisatoria, la
Sonata a Cinque si fonda sull’impiego della “tecnica a mosaico”, largamente
sperimentata da Malipiero nei suoi lavori cameristici degli anni Venti: una
serie di brevi pannelli contrastanti, perlopiù senza relazioni tematiche
tra loro, giustapposti e coesi con l’aiuto di uno o più motivi ricorrenti, si
articolano in una specie di rondò libero e digressivo. Nel caso della Sonata
a cinque troviamo come “tema ricorrente” una dolce progressione quasi a
corale, inizialmente presentata dal pianoforte, e poi riproposta più volte dagli
strumenti. Anche altri motivi ricorrono, ma in modo più saltuario e sempre
imprevedibile, quasi a voler misurare la distanza di Malipiero da qualsiasi
tentativo di sviluppo tematico in senso tradizionale, alla ricerca di una libertà
episodica sempre attenta a non degenerare in amorfia. Uno dei tratti stilistici
più marcati della Sonata a cinque è, come afferma Malipiero stesso, il gusto
del vagare assaporando “l’aria delle strade della campagna”, lasciandosi
trasportare da un libero alternarsi di umori: pagine profondamente rilassate,
quasi sul punto di sprofondare in un sonno incantato, giustapposte ad
altre nelle quali una allegria selvaggia si lancia in episodi cromatici aspri e
drammatici. Cifra altrettanto rilevante della Sonata a cinque è la nostalgia per
la musica del passato, in particolare per i periodi più remoti della storia italiana,
dal Medioevo al secolo XVII: veri e propri fugati sembrano sintetizzare, in
modo antiaccademico, una sorta di brioso contrappunto neomadrigalistico,
uno dei tratti più personali della musica malipieriana di questi anni.