Concerto 8


Domenica 26 novembre 2023, ore 20.00
Gran Teatro La Fenice, Sale Apollinee


MALIPIERO E IL SUO TEMPO





Aldo Orvieto pianoforte

Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Rossana Calvi oboe
Davide Teodoro clarinetto
Andrea Bressan fagotto
Carlo Lazari violino
Carlo Teodoro violoncello


Giorgio Federico Ghedini (1892-1965)
Concerto a cinque (1932)
per flauto, oboe, clarinetto, fagotto e pianoforte
-- Allegro sostenuto e marcato
– Andante calmo ed espressivo
– Allegretto
– Largamente
– Allegro con fuoco e molto marcato

Giuseppe Tartini (1692-1770)
Sonata op VI nr. 6 [GT 2.G10 / B G10]
in sol maggiore (1730-50)
con il basso realizzato al pianoforte
da Gian Francesco Malipiero (1919)
- Largo
– Allegro
– Allegro assai

Gian Francesco Malipiero (1882 - 1973)
Impromptu pastoral (1957) per oboe e pianoforte

Sonatina (1942) per violoncello e pianoforte
- Allegro piuttosto mosso
– Lento
–Allegro vivace, ma non troppo mosso

Igor Stravinskij (1882 - 1971)
Duo concertante (1931-2)
per violino e pianoforte
- Cantilène
– Eclogue I
– Eclogue II
–Gigue
– Dithyrambe

Manuel de Falla (1876 - 1946)
Concerto (1923/26) per pianoforte e cinque strumenti
- Allegro
– Lento (giubiloso ed energetico)
– Vivace (flessibile, Scherzando)



Bruno Maderna parla di Gian Francesco Malipiero

GEORGE STONE      - Quindi la incoraggiava...
BRUNO MADERNA - Sì, era un uomo molto aperto e aveva grande rispetto per tutti, per i
                                      giovani così come per le persone anziane...
GEORGE STONE     - È stato soprattutto Malipiero a incoraggiare il suo interesse per la musica
                                      del Rinascimento?

BRUNO MADERNA - Sì, senza dubbio. Mi interessava fin dall'infanzia, ma ne fui sempre più
                                      persuaso grazie a Malipiero: la musica rinascimentale rappresentava il
                                      terreno comune su cui si basava la nostra amicizia. Fu Malipiero a chiedermi
                                      di effettuare la prima trascrizione del meraviglioso Odhecaton A. Fu il
                                      primo a pensarci, ancora prima [degli americani]. Egli portò un esemplare
                                      dell'Odhecaton A da Treviso che io trascrissi integralmente. Ogni giorno
                                      ci incontravamo per leggere questa bellissima musica: egli ne era davvero
                                      entusiasta. Ne ricavammo delle brevi rielaborazioni strumentali, eseguite
                                      quindi da giovani musicisti. […]
ALAN STOULT       - Ed è ancora molto attivo, Malipiero...
BRUNO MADERNA - Sì! Ed è un uomo dotato di grande curiosità. È come se improvvisamente si
                                      piazzasse un uomo del Rinascimento ai giorni nostri: si comporterebbe nella
                                      stessa maniera! Continua ancora oggi a scrivere musica e, curiosamente,
                                      quella che scrive oggi è, per quanto mi riguarda, la migliore che abbia
                                      mai scritto. È un uomo incredibile. Pensi, è coetaneo di Stravinskij... ed è
                                      ancora pieno di vitalità, di idee.
                                      [dalla Conversazione con George Stone e Alan Stoult, in BRUNO
                                      MADERNA, Amore e curiosità, a cura di Angela De Benedictis, Michele
                                      Chiappini e Benedetta Zucconi, 2020]

Giorgio Federico Ghedini Concerto a cinque. Per quanto affidato ad un organico
cameristico il Concerto a cinque (1930) può considerarsi una rivisitazione
e una attualizzazione della forma barocca del concerto grosso. Segue di
pochi anni il Concerto grosso (1927) per flauto, oboe, clarinetto, fagotto,
corno e archi e inaugura un’ampia serie di lavori concertanti tra i quali:
Concerto dell’Albatro (1945) Concerto funebre per Duccio Galimberti
(1948), Concerto detto il Belprato (1947), Concerto detto l’Alderina (1950),
Concerto detto l’Olmeneta (1951). Una tendenza all’arcaismo religioso
dialoga in queste opere con la tradizione italiana antica. Luciano Berio,
che fu allievo di Ghedini, lo riteneva un compositore dotato di un altissimo
magistero tecnico considerandolo «uno dei musicisti più equipaggiati, più
sensibili e sapienti» nel panorama italiano. Per Berio: «La sua scienza
musicale si legava spontaneamente alla civiltà musicale barocca italiana,
il luogo del passato in cui egli trovava i riferimenti concreti per la propria
prassi compositiva» ed era l’unico musicista italiano che avesse «gettato
un ponte tra il barocco italiano e il nostro secolo». Per John Waterhouse i
brani del periodo giovanile come il Concerto grosso e il Concerto a cinque
«sfiorano il pastiche. La voce individuale del compositore è udibile solo a
intermittenza, anche se tali opere sono state senza dubbio passi necessari
verso le rivisitazioni molto più originali degli idiomi barocchi negli anni
Quaranta.» Dello stesso parere è Goffredo Petrassi, grande sostenitore
e amico di Ghedini: «[…] bisogna anche dire che [negli anni Trenta]
non aveva ancora i connotati stilistici ed espressivi molto precisi che ha
acquistato dopo: i tratti peculiari del suo carattere erano in quel momento
annegati in una ricerca stilistica indeterminata, seppur nobilitata da una
magistrale fattura». Petrassi coglie mirabilmente la statura umana e
artistica di Ghedini: «É impossibile in una frase riassumere il profilo umano
di Ghedini; ciò malgrado mi sentirei di insistere sulla sua passionalità,
perché la sua immagine musicale era quella di un musicista freddo,
cerebrale e distaccato. Era un uomo passionale ma con un’immagine
molto severa.» Il Concerto a cinque ha dunque i tratti di un’esuberanza
stilistica che origina nella tipicità del far musica di Ghedini che – sempre nelle
parole di Berio – «era un pratico, un musicista artigiano, non c’erano contorni
ideologici o analitici. Era sempre dentro la musica, nel bene e nel male.»

Giuseppe Tartini Sonata op VI nr. 6. All’indomani della conclusione della pubblicazione
dell’ultimo tomo delle opere di Claudio Monteverdi (1926-42) Malipiero
scrive con desolazione: «Vorrei che oggi mi fosse dato di continuare
all’infinito la ricostruzione delle opere di Claudio Monteverdi. Chi mi farà
rivivere gli anni in cui sotto la mia penna, mentre trascrivevo i madrigali
a cinque voci, vedevo rinascere i capolavori quasi per incanto? Non
ricordo né sofferenze fisiche, né dubbi nel decifrare gli originali ricordo
solo il mio entusiasmo.» Il rapporto di Malipiero con l’antico è passionale,
istintuale, immaginifico; un mondo antico desiderato e sognato, a volte
poco incline al rispetto filologico dei testi. La vicenda che portò alla
pubblicazione di alcune Sonate di Tartini (1919) nella collana dei “Classici
della Musica Italiana, Collana Nazionale diretta da Gabriele D’Annunzio” è
la seguente: «volle il caso che a Milano (1916) incontrassi Umberto Notari
dell’Istituto Editoriale Italiano, il quale […] mi proponeva di elaborare il
programma di una grande collezione di musica del passato. […] Ottenni
da Gabriele D’Annunzio che accettasse la presidenza e che scrivesse
una specie di prefazione. Le cantate del Bassani rappresentarono la mia
prima realizzazione del Basso di un’opera del passato e, pur evitando
anacronismi, l’elaborazione, contrappuntisticamente, risultò molto ricca.
Seguirono alcune sonate del Tartini, l’Orfeo di Luigi Rossi […]» La tematica
del disvelamento di «una bellezza irrecuperabile contaminata dal tempo»
ha certamente radici nel rapporto di Malipiero con Gabriele d’Annunzio,
con il quale intrattenne un fitto carteggio (1910-1938). Secondo Malipiero,
D’Annunzio «si affidò molto spesso alla musica per curare la sua tristezza»
e «negli ultimi anni della sua vita, [la musica] fu alimento indispensabile al
suo spirito». [Gian Francesco Malipiero, Ricordi e Pensieri, pp. 296, 328, 329]

Gian Francesco Malipiero Impromptu pastoral.
Questo piccolo brano, tra gli ultimissimi
del catalogo malipieriano, sembra quasi una sfida ai radicalismi
della Nuova Musica dalle colline di Asolo, «paesino sopravvissuto
incontaminato, visione di un passato non reale». Impromptu pastoral,
già dal titolo, arcaico ed evocativo, riflette la nostalgia per un mondo
illusorio, incantato di cui Malipiero percepisce la drammatica assenza
nell’ordinaria inumanità del vivere quotidiano. Secondo Armando
Gentilucci (in Il linguaggio musicale come negazione della forma
in Malipiero, Quaderni di Musica/Realtà 3, 1982): «Con monotona
dolcezza, Gian Francesco Malipiero mima il senso di ineluttabilità della
forma continua attraverso un linguaggio privo di tensioni cromatiche
come di asprezze politonali, abbastanza estraneo però anche agli
stupori armonici debussyani (passati almeno gli anni giovanili).[…]
La strada per l’aristocratico, ironico e insieme malinconico viandante
di cui qui ci occupiamo, consiste nel combinare insieme vecchie strade
ripercorrendole come in sogno: confondendone i contorni, ora sfumati
e ora bruscamente interrotti, sovrapponendone insomma parziali
immagini in una prospettiva totalmente irrealistica.» Per paradosso l’idea
stockhauseniana che «passato, presente e futuro sono una cosa sola»
diventa anche l’estetica di Malipiero nella quale «gli istanti si sommano
senza dare luogo ad un divenire dialettico. Si può, anzi, francamente
parlare di una vera e propria anestetizzazione del divenire.»

Gian Francesco Malipiero Sonatina.
«Materialmente ho rifiutato il facile gioco degli sviluppi tematici
perché ne ero saturo e mi venivano a noia. Imbroccato
il tema, voltandolo, girandolo, sminuzzandolo, gonfiandolo, non è difficile
costruire un tempo di sinfonia (o di sonata) che diverte i dilettanti e
soddisfa la insensibilità degli intenditori. Il discorso della musica veramente
italiana (basta pensare a Domenico Scarlatti) non s’arresta mai, segue la
legge naturale dei rapporti e dei contrasti: non costruzione geometrica, ma
una architettura pensile e solida, antisimmetrica e proporzionata.» (G. F.
Malipiero, sulla retrocopertina di un disco di Gino Gorini). La Sonatina è
l’unica composizione strumentale degli anni di guerra (1941-44). Secondo
Waterhouse essa «si colloca come solitario e tenue legame tra la sua prolifica
produzione strumentale degli anni ‘30 e la rinnovata fecondità strumentale
dei tardi anni ‘40». Nel Catalogo annotato Malipiero mette in luce la
problematicità dell’organico strumentale: «la sonorità di un solo violino, o
di una sola viola, o di un solo violoncello, non si fonde col pianoforte, cioè
non permette che il discorso diventi una sola espressione; i due istrumenti
alzano la voce per contraddirsi a vicenda.» Rispetto alla Sonata a tre, i cui
due primi movimenti sono di fatto due brani per violoncello e pianoforte
e per violino e pianoforte la Sonatina appare a Malipiero «più snella e
apparentemente più spontanea.» Il brano inizia e termina con due brevi
sezioni, veloci e briosamente libere. Secondo Angelo Ephrihian, Malipiero
ammirò e condivise con Vivaldi «una specie di pazza frenesia sonora, di
luce sonora, di gioia del suono». Tali due sezioni della Sonatina sono un
bel saggio del suo totale «abbandono all’estro», della sua «illimitata fiducia
nel serrato procedere delle proprie intuizioni» (in AA.VV. L’opera di Gian
Francesco Malipiero, 1953, p. 185). La sezione centrale costituisce un episodio
totalmente contrapposto, un momento fortemente introspettivo, spesso
arido e sconsolato. Waterhouse trova questa sezione «sproporzionalmente
lunga e un po’ slegata», ma la sua efficacia drammaturgica è inequivocabile:
quasi che l’onda delle invenzioni si inaridisca, che il sole che si riverbera nella
luce incantata dell’acqua di Venezia improvvisamente scompaia sciogliendo
ogni magia, isterilendo ogni bellezza, facendo perdere di senso a ogni cosa.

Igor Stravinskij Duo concertante.
Il rapporto di Stravinskij con il violino fu ispirato e
fecondo, molto differenziato nel corso delle varie fasi del suo comporre.
Alfredo Casella definiva infatti antiespressiva, «legnosa» e «rugosa» la sua
scrittura per violino nel Concertino (1920) e nell’Histoire du soldat (1918).
Dopo la composizione della Sacre du Printemps (1913) gli strumenti ad
arco appaiono raramente nei suoi organici strumentali, il loro suono risulta
«troppo evocativo», «rappresentativo della voce umana». Nel 1928 il balletto
Apollon musagète affronta con disinvoltura il lirismo tenero ed espressivo
degli strumenti ad arco, negando di fatto le riserve fin qui espresse. Il
Concerto per violino e, immediatamente dopo, il Duo Concertant, nascono
dalla collaborazione con un giovane violinista polacco-americano di nome
Samuel Dushkin – un bravo se non un grande violinista, uomo intelligente
e colto. Il primo concerto del duo Stravinskij/Dushkin si tenne a Milano
nel marzo del 1932: suonarono il Concerto (nella riduzione pianistica) e
una suite tratta dal balletto Pulcinella (la cui stesura definitiva avvenne nel
1933-34 con il titolo di Suite italienne), alcuni assoli. Stravinskij non aveva
interesse a suonare in concerto l’usuale repertorio di duo, si mise dunque a
comporre il Duo Concertant e una serie di trascrizioni da opere orchestrali
– da Petrushka, L’oiseau de feu, Le baiser de la fée – allo scopo di proporre
al pubblico esibizioni concertistiche piacevoli e accattivanti. Il brano è
permeato da quella forma di imperscrutabile neoclassicismo che aveva
caratterizzato la Sonata e la Serenata per pianoforte. Caratterizzato da un
gusto arcadico-pastorale che evoca la lettura di Virgilio, è il primo esempio
di quell’attenzione all’ethos greco che avrà il suo pieno sviluppo nell’opera-
balletto Perséphone (1933-34). L’autore ne motivò la scrittura rigorosa
citando un passo di un biografo del Petrarca, che afferma come il «lirismo
non esiste senza regole, e bisogna che queste siano severe». Essendo
convinto che i due strumenti non avevano alcuna possibilità di fondere
i loro suoni in un coerente timbro comune, Stravinskij li pone sovente in
competizione. Già nella Cantilène iniziale sono introdotti separatamente,
in modo frammentario, presentando le loro caratteristiche distintive; solo
nella seconda Eclogue, si ritrovano uniti in un delizioso dialogo melodico.
La Gigue, con le sue asimmetrie poliritmiche, funge da brano di contrasto,
infine il Dithyrambe, esempio di lirismo senza eguali nella produzione
stravinskiana, chiude il brano con fantastica e remota nostalgia.

Manuel de Falla Concerto.
Tale opera di De Falla rappresenta una tappa importante nel
processo evolutivo che conduce il musicista andaluso a proporre forme
sempre più astratte di stilemi propri del folclorismo nazionale o locale.
Nei sette anni (1907-1914) trascorsi a Parigi – dove vedono la luce i suoi
primi capolavori – Manuel de Falla aveva stretto con Albéniz e Turina,
quella sorta di patto per la creazione di una musica puramente spagnola.
Il Concerto per clavicembalo e strumenti fu composto su incarico di Wanda
Landowska (alla quale evidentemente piacque poco, poiché lo eseguì
due sole volte) nel piccolo carmen dell’Antequeruela Alta, sulle pendici
dell’Alhambra a Granada; luogo rimasto mitico in ragione del concorso
per il cante jondo organizzato da de Falla insieme a Federico García Lorca
e Gerardo Diego nel giugno del 1922. In questa composizione tutti e sei
gli esecutori sono solisti; gli archi, grazie alla prescrizione di “attacco al
tallone”, sono trattati in modo da ottenere una accentazione persistente
che dà origine a sonorità corpose e ruvide, allo scopo di competere –
dallo stretto punto di vista fonico – con i più sonori strumenti a fiato.
Analogamente la scrittura per il clavicembalo – nel nostro caso il pianoforte,
in una versione che l’autore scrisse proprio per poterlo eseguire lui stesso
al pianoforte data l’indisponibilità della Landowska – non è sempre in
linea con la tradizione: l’impiego di mordenti, fioriture, trilli e figurazioni
tipiche dello strumento è moderato, mentre il compositore fa largamente
ricorso, specie nel secondo tempo, ad accordi perfetti maggiori, spesso in
rapida successione e arpeggiati, dunque particolarmente sonori. Il tema
principale del primo movimento è uno dei pochissimi autenticamente
popolari di tutta la produzione del musicista: si tratta dell’antica canzone
del folclore castigliano del sec. XV, «De los Álamos, vengo, madre» («Dai
pioppi vengo, madre»): l’Andalusia (sua terra natale) non è dunque la fonte
di ispirazione, quanto la musica popolare dell’ormai lontana Castiglia. Nel
corso del movimento il tema popolare viene proposto anche caratterizzato
da un’armonia marcatamente politonale, nonostante De Falla abbia
sempre negato il ricorso a questa tecnica, sostenendo che gli aggregati
accordali da lui impiegati si spiegano in ogni caso, all’interno di un
sistema basato sugli armonici naturali degli accordi perfetti. Sorprendente
la stringata e ben accentata cadenza finale, che chiude il movimento in
un esasperato rallentando assai. La melodia del secondo movimento,
dal sapore squisitamente liturgico medievale, trae origine nella canzone
del primo tempo, ed è scritta nella forma di stretto canone a tre voci
(a distanza di tono) nello stile polifonico antico che tanto affascinava
il compositore. Energica anche in questo caso l’armonia, sempre con
robusti accordi raddoppiati per le due mani. Pregevole la tecnica di
scrittura di arpeggi con fondamentale molto grave, appartenente ad una
tonalità lontana, che evoca un maestoso rintocco di campana. Anche in
questo movimento compare una sezione bitonale: l’incedere perentorio
di un accordo di la maggiore alla tastiera, si contrappone al luminoso
tema affidato agli altri strumenti nella tonalità di fa maggiore. Si crea
la suggestione dell’incedere di due cortei diversi; segue una magnifica
cadenza. Il terzo movimento, formalmente assai elaborato, rivela con
evidenza l’intenzione di ricreare lo stile di Domenico Scarlatti, tanto
ammirato da De Falla, attraverso una musica piena di grazia settecentesca.
Danzante conclusione di un concerto che ci lascia con il sapore di una
tonadilla, di un breve intermezzo di sapore teatrale dal sapore antico. Una
musica che non poteva non ottenere i favori del più geniale esponente del
neoclassicismo musicale novecentesco, Igor Stravinskij, che così ricorda
l’esecuzione londinese del Concerto nel giugno 1927: «Ascoltai anche, con
vero piacere, il suo Concerto per clavicembalo o pianoforte ad libitum, che
eseguì personalmente su quest’ultimo strumento. Per conto mio, queste
due opere [il Concerto e il El retablo de Maese Pedro, eseguito nella
stessa occasione] segnano un progresso incontestabile nello sviluppo del
suo grande talento, che si è quasi liberato risolutamente dall’impaccio
folcloristico che rischiava di sminuirlo.»