Concerto 5


Ottobre, ore 20.00
Gran Teatro La Fenice - Sale Apollinee



ERIC SATIE VISTO DA JOHN CAGE

In collaborazione con
Palazzetto Bru Zane - Centre de musique romantique française

Aldo Orvieto e Francesco Prode pianoforti,
Guido Barbieri voce narrante


Franz Liszt (1811-1886)/ Camille Saint-Saëns (1835-1821)
Sonata in si minore S178 (1852/3), trascrizione di Camille Saint-Saëns (1914) per due pianoforti

Eric Satie (1866-1925)/John Cage (1912-1992)
Socrate (1919/20) trascrizione per due pianoforti di John Cage (1947/1968)


Le imperfette memorie del cuore (Franz, Camille, Erik, John e gli altri…)
Tutto è memoria. Ogni nostro atto, gesto, movimento, pensiero è un ramo che si aggiunge all'albero dei ricordi: il frutto della costante attività mnestica della nostra mente. Non importa che la memoria sia a breve o a lungo termine, che sia ecoica o iconica, sinaptica o sensoriale, dichiarativa o procedurale, natale o prenatale. Sta di fatto che se nella nostra rete neuronale non si imprimessero, come orme nella cera, i dati della memoria (o meglio delle memorie) la nostra capacità cognitiva sarebbe uguale a zero. Per non parlare del deserto di affetti nel quale saremmo costretti a consumare la nostra esistenza.
Nel piccolo orto della scrittura musicale il dominio della memoria e delle sue diverse declinazioni si traduce in modo particolare nella pratica (antica quanto la scrittura) della trascrizione: in apparenza un'attività minore e “servile”, priva di ogni ingegno creativo. Tradurre un oggetto sonoro in un altro oggetto sonoro, al tempo stesso identico e dissimile, richiede invece, oltre ad un grado assai elevato di consapevolezza linguistica, anche una concentrazione potente di processi mnemonici: ad esempio la codificazione, la ritenzione, il recupero, la memoria uditiva a breve e a lungo termine, la memoria visiva nelle sue diverse forme di persistenza, la memoria “stilistica”, quella formale, senza contare i criteri estetici ed estesici, pur sempre legati alla memoria culturale del musicista, in base ai quali un compositore mette in atto la strategia della trascrizione. Trascrivere, insomma, lungi dall'essere un atto passivo e ancillare, è al contrario un complesso, delicato, esercizio di memoria che ciascun compositore svolge seguendo le proprie personali e inimitabili inclinazioni compositive: Johann Sebastian Bach, ad esempio, ha bisogno di ricorrere all'esercizio della “copiatura” prima di destinare i concerti grossi di Vivaldi alle tastiere dell'organo. Wolfgang Amadeus Mozart salta a piè pari, invece, la fase della memoria scritta e “trascrive” il leggendario Miserere di Allegri nella propria mente, individuandone con sicurezza, e senza alcuna abilità miracolistica, le funzioni armoniche fondamentali. Mentre Franz Liszt, per avanzare un altro esempio, ricompone ex novo le invenzioni vocali di Giuseppe Verdi e le piega, trascurandone forse le straordinarie doti di resilienza, alla propria, trascendentale scrittura pianistica.
Tre atteggiamenti, tre procedimenti di “ricomposizione” diversi e distinti che attingono, almeno in parte, e tre diversi patrimoni mnestici. Senza eccedere in tassonomie troppo feroci si potrebbe dire che Bach ricorre essenzialmente alla memoria iconica, quella che coglie cioè la forma visiva del testo destinato alla trascrizione, Mozart si appoggia alla memoria ecoica, che ne afferra invece la forma sonora, mentre Liszt si richiama a quella forma di memoria che gli studiosi del Novecento hanno definito “semantica”: quel tipo di memoria cioè che è costituito dal patrimonio di conoscenze estetiche, stilistiche e concettuali che il compositore costruisce nel corso nel tempo. Queste tre forme di memoria convergono, distintamente e simultaneamente, nei due estesi, elaborati, diversissimi “esercizi di memoria” che costituiscono il cuore pensante (e pensato) del concerto di stasera. Due semplici “trascrizioni”, in apparenza, che trascendono largamente, però, la dimensione della mera riscrittura per approdare, in entrambi i casi, al dominio più ricco della reinvenzione.
Nel primo atto di questo dramma senza parole si intarsiano senza dubbio le risorse del ricordo visivo e di quello sonoro, perfetta congiunzione di memoria iconica ed ecoica: quando Camille Saint-Saens, nel 1914, mette mano alla trascrizione per due pianoforti della Sonata in si minore di Liszt il mito di questo “anti capolavoro”, atipico, obliquo e irregolare come pochi altri, è vivo e pulsante. Pochi anni prima, nel 1911, Bela Bartok che aveva già indicato in Liszt uno dei precursori del Novecento, definisce la Sonata un vero e proprio Concerto e scrive che nel fugato “si accendono le fiamme più profonde dell'inferno”. A quasi settantacinque anni dalla sua genesi il secolo nuovo ha dunque perfetta coscienza dei tratti rivoluzionari della Sonata di Liszt (unica composizione del suo catalogo a recare un titolo classico): il carattere platealmente sinfonico del suono, il demone dell'improvvisazione che scorre sotterraneamente dalla prima all'ultima nota, l'intarsio costante tra architetture sonatistiche e ductus contrappuntistici… Compiendo un gesto apparentemente “minimo”, ossia quello di moltiplicare per due la tastiera del pianoforte (nulla di fronte agli innumerevoli tentativi di trascrizione osati negli ultimi 150 anni…), Saint-Saens riesce in realtà ad esaltare, e a mettere perfettamente in valore, i due tratti più sconvolgenti della Sonata: da un lato il suo inaudito spessore fonico, che le due tastiere accrescono fino al parossismo, dall'altro la complessità del disegno contrappuntistico che nel passaggio da uno a due pianoforti assume una nitore abbagliante, una perfetta “visibilità”. Eco e icon, dunque, memoria ecoica e memoria iconica, in perfetta concordia d'intenti.
Un altro intarsio di memorie presiede la nascita della seconda pala del nostro dittico: identica alla prima sotto il profilo dei mezzi sonori, totalmente dissimile, in realtà, dal punto di vista della genesi e dell'approdo alla forma. Quando nel 1944 John Cage, ancora immerso nei suoi esperimenti sul prepared piano, scopre la partitura de La vie de Socrate ha sotto gli occhi un testo esoterico e sconosciuto, circondato da un'aura di mistero. Come del resto, a quel tempo, buona parte della produzione vocale di Erik Satie. Questo strano, prismatico, indefinibile oggetto sonoro nasce, del resto, all'insegna di un mecenatismo fuori tempo massimo e decisamente old fashioned. E' infatti la Principessa Edmond de Polignac, ancora lontana dallo sconvolgente coming out sulla propria omosessualità, a commissionare al compositore, nel 1916, le musiche di scena per un dramma sulla vita di Socrate che nelle intenzioni della committente avrebbe dovuto essere interpretato da voci solamente femminili. Ma il melodramma, in qualsiasi forma esso si presentasse, non era certo nelle corde dell'autore di Parade, il quale preferisce ripiegare su una forma dai contorni meno rigidi alla quale in realtà l'opera non approda mai. L'edizione finale, messa a punto nel 1918, riceve un sottotitolo volutamente generico: “dramma sinfonico in tre parti”, una definizione che non scioglie certo alcuna ambiguità.
Satie, per la verità, non sembra esitare di fronte alla scelta dei testi: individua subito, con una certa sicurezza, tre frammenti tratti dai Dialoghi di Platone dedicati alla figura del filosofo “dalla lunga barba”. Ma poi la zona grigia si allarga: in didascalia affida i dialoghi platonici, nella vetusta traduzione francese di Victor Cousin, a quattro personaggi (Alcibiade, Socrate, Phaedrus e Phaedo) e a tre interpreti: una voce di soprano e due di mezzo soprano. In partitura però la ripartizione dei testi non è affatto chiara, mentre la tessitura vocale delle tre parti appare sostanzialmente uniforme. Tanto che le versioni correnti (le poche che esistono) sono generalmente interpretate da una sola voce di mezzosoprano. Del resto anche lo stile di intonazione è estremamente ambiguo: la declamazione vocale è sempre sospesa tra il recitativo e l'arioso, senza che l'uno prenda mai il sopravvento sull'altro. Persino il versante strumentale, in apparenza al riparo sotto l'ombrello dell'aggettivo “sinfonico”, assume forme molteplici e non definitive: del Socrate esistono ancora oggi tre versioni differenti, messe a punto da Satie nel corso del tempo: la prima, quella “originale”, per voce e ensemble strumentale, una seconda per voce e pianoforte, e infine una terza per voce e orchestra, il cui manoscritto è purtroppo scomparso.
Di fronte a questo trionfo dell'ambiguità (dramma, oratorio, cantata, dramma sinfonico?) Cage assume una decisione drastica: raschia via dalla propria mente ogni traccia di memoria iconica ed ecoica e si lascia guidare dalla memoria puramente semantica che lo avvicina e al tempo stesso lo allontana dal “mito” di Satie. La sua mano di trascrittore cancella innanzitutto, quasi meccanicamente, il pentagramma sul quale sono annotate le linee melodiche delle voci. E poi ridistribuisce tutti suoni, quelli vocali e quelli strumentali (desunti dalle versioni per pianoforte, per ensemble e per orchestra) nei quattro pentagrammi di due diversi pianoforti. Senza smarrire, nella metamorfosi alchemica, una sola nota, ma costruendo una architettura sonora totalmente nuova. Una sorta di collazione anti filologica, insomma, che si basa sul criterio, sommamente infedele, della reductio. La giustificazione è disarmante: “Amo la musica di Satie - scrive Cage nella prefazione allo spartito - e quella di Socrate in modo particolare. Benché le parole scelte per quest'opera siano profondamente commoventi e ricche di significato penso che si possano omettere, allo stesso modo in cui lo stesso Satie ha rinunciato, nella esecuzione di certi suoi pezzi più brevi, ai deliziosi testi poetici concepiti insieme alla musica. Il suo scopo credo fosse quello di lasciare la musica sola, in modo da poter godere in ogni istante della sua bellezza limpida e straordinaria. Questo è anche il proposito della mia trascrizione”.
Cage dunque, guidato dalla sua memoria storica, estetica e semantica, rompe intenzionalmente il guscio che ha dischiuso i suoni e le parole di Socrate, tagliando a metà, con un gesto netto, il nodo gordiano che nella tradizione occidentale ha sempre legato la musica ai testi che di volta in volta l'hanno generata. Una scissione storicamente fertile e inevitabile che ha guidato spesso, nel Novecento, la mano dei compositori. Noi però questa sera invertiremo la freccia del tempo e, senza alcuna pretesa di incollare i pezzi del guscio finito in frantumi, consentiremo ai Dialoghi di Platone di riprendere il posto che abitavano, tra le pieghe del Socrate, prima della “catastrofe” cageana. Una dolce apocalisse che ovviamente non poteva non lasciare dietro di sé rovine, crolli e detriti. In questa forma nudamente parlata e inerte i dialoghi di Platone verranno dunque nuovamente e sommessamente detti. Senza alcuna dissennata pretesa di rinascita, ovviamente. Solo quella, ben più modesta, di essere nuovamente fonte di interminate e sovrumane memorie. (Guido Barbieri)