Concerto 8


Sabato 31 ottobre 2015, ore 18.00
Conservatorio Benedetto Marcello, Sala Concerti

Gesti elettronici

In collaborazione con SaMPL (Sound and Music Processing Lab) e CSC
(Centro di Sonologia Computazionale) dell'Università di Padova



«La funzione delle arti è quella di esplorare il
mondo interiore dell'uomo, in modo da scoprire
in che misura e quanto intensamente egli possa
vibrare, sia che ciò avvenga attraverso il suono o
attraverso ciò che egli ascolta.»
Karlheinz Stockhausen


Art Percussion Ensemble
Ambra Ceroni Agostinelli (3), Mattia Basi (2), Marco Buffetti (4),
Benedetta Colasanto (3), Pietro Cantamessa (2), Simone Gargenti (2),
Carlo Tosato (1)(4) percussionisti
Sebastiano Aleo, Gabriele Barzano, Raul Masu microfonisti

Alvise Vidolin regia sonora
Luca Richelli e Massimo Pastore concezione progettuale e direzione musicale

Iannis Xenakis (1922-2001)
Rebonds (1987/88) per un percussionista (1)
Diamorphoses (1958) per nastro magnetico
Okho (1989) per tre djembés (2)

Gérard Grisey (1946-1998)
Stèle (1995) per due percussionisti (3)

Karlheinz Stockhausen (1928-2007)
Mikrophonie I (1964), per tam-tam, due microfoni, due filtri con potenziometri (6 esecutori) (4)


Iannis Xenakis Rebonds

Rebonds è stato scritto per Sylvio Gualda e ha debuttato nel luglio 1988 a Villa Medici a Roma. Meno utopistico di Psappha, il precedente lavoro di Xenakis per sole percussioni, costituisce anch'esso uno studio su regolarità/irregolarità, impulso, pattern e forma. Anche Rebonds richiede una tavolozza limitata di strumenti, in questo caso sette tamburi e cinque temple-blocks. Come Pleiades assume una forma in più movimenti, in questo caso due invece di quattro: l'ordine di esecuzione dei movimenti è libero. Le due sezioni richiedono uno strumentario leggermente diverso: la prima utilizza solo pelli, mentre la seconda introduce i cinque temple-block. Rebonds fa parte di un gruppo di opere (Pléiades, Idmen B) nelle quali viene affermata una maggior regolarità ritmica. La parte A evolve da una scrittura musicale irregolare, verso una sorta di movimento perpetuo. La parte B, è ancora caratterizzata da un movimento di bongo regolare che viene questa volta interrotto dalla grancassa con accenti spostati, mentre i cinque temple-block si inseriscono più volte nel discorso musicale irrompendo in un tempo più rapido. A parte rare eccezioni, le nuance sono sempre nel fff. La scrittura che Xenakis privilegia per le percussioni non sfrutta mai risonanze, ma limita la sua funzione estetica all'impatto dell'attacco percussivo. Se cerchiamo riferimenti per questa sua concezione musicale, li troviamo debolmente nelle nostre civiltà musicali ma vivi nelle musiche extra-europee ove possiamo senz'altro riscontare le radici della violenza, quasi primitiva, della sua musica. Anche Rebonds, forse in forma meno maniacale rispetto a Psappha, indaga l'energia primaria della pulsazione e la capacità delle percussioni di produrre - mediante sottili variazioni ritmiche dei materiali che si stratificano sulla pulsazione continua - uno stato di straniamento vicino all'ipnosi.


Iannis Xenakis Diamorphoses

A Diamorphoses Xenakis lavora principalmente nel 1957 nello storico studio di musica concreta del GRM di Parigi diretto da Pierre Schaeffer, di cui utilizza le principali tecniche realizzative partendo da un ricco catalogo di suoni registrati, molti dei quali ancora riconoscibili nell'ascolto dell'opera. Pur contenendo esclusivamente materiali sonori di pura natura acustica, questo lavoro di Xenakis si discosta dalla concezione teorico-formale di Schaeffer e del suo gruppo di ricerca, cercando nuovi paradigmi compositivi, non più basati sulla logica “linguistica” del tema, contro-tema, frase, ecc. bensì applicando concetti innovativi come la fusione dei suoni piuttosto che la loro combinazione, la relazione continuo-discontinuo, il rapporto timbro-rumore, l'uso strutturale del glissando, di accelerazioni e arresti, la percezione logaritmica della densità, l'esplorazione dell'intero campo frequenziale d'ascolto e l'applicazione di processi stocastici. Da un punto di vista formale il pezzo si evolve in un'unica campata di 6'50'' con una logica di evoluzione continua, anche se al suo interno si possono individuare tre zone segnate dai punti 2'48'' e 4'13''. L'intera forma, quindi, non è concepita come il risultato di una combinazione, ma piuttosto come una trasmutazione qualitativa, grazie alla quale, pur partendo da materiali concreti elementari, Xenakis fa emergere morfologie di suono ben più complesse ed elaborate della loro semplice somma.


Iannis Xenakis Okho

Okho è stato scritto nel 1989 per il trio Le Cercle e commissionato dal Festival d'Automne. Considerando lo strumentario assai ricco normalmente richiesto da Xenakis per le sue opere con percussioni sorprende che Xenakis limiti il suo organico a soli tre djembés africani: forse inintenzionale, tale scelta è stata letta come una presa di posizione trasversale contro il colonialismo. Il fascino di questi tamburi, meravigliosamente ricchi e risonanti, è senz'altro notevole. Gli djembés sono in grado di produrre una vasta gamma di suoni in relazione al luogo ove la mano colpisce la pelle e al tipo di attacco percussivo. Okho è strutturato in quattro sezioni principali ognuna delle quali si distingue per tipo di materiali e tempo; la prima e l'ultima sezione contengono materiali contrastanti cosicché in realtà il brano propone sei entità compositive diverse. Il lavoro sfrutta la timbrica e le caratteristiche tecniche dei djembes e al tempo stesso si concentra sugli interessi di Xenakis in merito a costruzione di pattern, uso della pulsazione regolare , dialettica tra regolarità e irregolarità. Nell'uso dei pattern il compositore sfrutta processi di variazione e “ritardo” di alcune linee ritmiche su altre. Anche in Okho, come avviene nel caso dei drammatici lunghi silenzi presenti in Psappha, vi sono moduli che “tagliano” la continuità ritmica con zone timbriche costituite da rulli con le unghie delle dita, attacchi a intermittenza, sospensioni del tempo, introduzione di ritmi diversi e di elementi poliritmici. Particolarmente affascinante - nella seconda sezione - un passaggio con glissandi, scritti in forma dialogante tra gli esecutori, i quali evidenziano il carattere idiomatico, quasi “parlante”, dei suoni degli djembés. L'effetto si ottiene facendo scorrere una mano sulla pelle del tamburo mentre con l'altra mano si colpisce la pelle. I numerosi, bruschi, scarti di velocità della pulsazione inseriscono elementi di vitalismo nel continuum regolare del tempo. La sezione finale elabora la dialettica regolarità-irregolarità indagata nelle precedenti tre parti del brano: materiale contrastante creato da brevi figure regolari in terzine, pulsazioni che vanno gradualmente fuori fase (ogni esecutore acquisisce un tempo indipendente), poliritmi, e suddivisioni improvvisamente più veloci creano una texture dal carattere furioso. L'impulso sincronizzato ritorna verso la fine del brano e, nelle battute finali, sfocia in una drammatica conclusione.


Gérard Grisey Stèle (1995)

Come riuscire a far emergere il mito della durata, un flusso la cui organizzazione cellulare obbedisce a leggi imperscrutabili? Come disegnare, in forma arcaica, con convinzione e rimanendo in ascolto del silenzio una pulsazione ritmica dapprima indistinguibile, poi infine martellata? Componendo mi è apparsa un'immagine: quella degli archeologi che hanno scoperto una stèle e la puliscono fino a mettere in luce una iscrizione funeraria. (Gerard Grisey)


Karlheinz Stockhausen Mikrophonie I

Microphonie I fu eseguito la prima volta a Bruxelles nel 1964 e stabilì subito un nuovo paradigma per la musica elettronica. Il microfono che fino ad allora era sempre stato usato come mezzo passivo di documentazione acustica - considerato come una sorta di orecchio “oggettivo” nella registrazione ad alta fedeltà - diventa in questa composizione uno strumento attivo, che va “suonato” seguendo una partitura al pari degli altri strumenti. I suoni che il microfono deve captare sono le molteplici eccitazioni che il percussionista effettua sulla superficie di un enorme tamtam, utilizzando varie tipologie di materiali, anche del tutto estranei allo strumentario dei battenti percussivi. E il microfonista deve suonare a quattro mani con il percussionista stesso, avvicinandosi ai punti di emissione per creare primi piani sonori al pari di uno zoom ottico, oppure esplorando la superficie vibrante del tamtam, alla ricerca delle innumerevoli varianti timbriche delle sue risonanze. I suoni così captati vengono ulteriormente trasformati da un terzo esecutore elettronico che agisce su un filtro dinamico, tramite il quale può selezionare una fetta di suono più o meno ampia e collocata nel registro prescritto in partitura. Il nucleo esecutivo di base è quindi composto da tre esecutori: un percussionista “eccitatore”, un microfonista “captatore” e un elettronico “selezionatore” al filtro passa banda dinamico. Ci sono due gruppi di questo tipo che principalmente si alternano nell'esecuzione delle 33 strutture musicali che costituiscono la partitura di Microphonie I, ma che in alcune strutture suonano anche tutti assieme. La forma del pezzo mantiene la logica della momente form, ideata in quegli anni dall'autore, che in questo caso si manifesta attraverso la curiosa identificazione del momento con il nome evocativo del suono stesso che lo caratterizza. Con questa composizione Stockhausen amplia il suo percorso di ricerca nel campo della musica elettronica aprendo il campo al Live Electronics e raggiungendo anche con il mezzo elettronico quella libertà e gestualità esecutiva tanto difficile da esprimere nel lavoro in studio con il nastro magnetico degli anni precedenti. (Alvise Vidolin)