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Domenica 15 dicembre 2013, ore 12.00
Gran Teatro la Fenice, Sale Apollinee

Evoluzione delle forme

«La forma può essere fedele a ciò di cui è parte solo negandosi in quanto forma»
(Yves Bonnefoy, 2007)

Marco Rogliano violino
Aldo Orvietopianoforte

Johann Sebastian Bach (1685-1750)
Ciaccona dalla Partita n. 2 in re minore BWV 1004

Benjamin Britten (1913-1976)
Suite op. 6 (1934/35) per violino e pianoforte
Introduction - I. March - II. Moto perpetuo - III. Lullaby - IV. Waltz

Salvatore Sciarrino (1949)
Fra sé, Capriccio n. 8 sulla IV corda (2009) per violino

Witold Lutos?awski (1913-1994)
Partita (1984) per violino e pianoforte
Allegro giusto - Ad libitum - Largo - Ad libitum - Presto

Martino Traversa (1960)
Quasi una sonata …(2013) per violino e pianoforte
Commissione Ex Novo Musica. Prima esecuzione assoluta


Ricondurre la parola classico ai principî estetici di “semplicità, misura, armonia, equilibrio”, dunque ai modelli cari al mondo della Grecia antica, invita a ricordare alcune parole di Nietzsche: il greco, “per trovare la forza di vivere, fu indotto a porre davanti a sé la luminosa creazione del sogno olimpico”. Nel definire una identità per le forme che si vogliono all'origine della cultura “europea”, forme sempre in mutamento e sempre inclusive di nuovi elementi, e nel tentativo di indicare alcune delle linee del processo evolutivo, caratterizzato dal segno dell'assimilazione che trasforma senza snaturare, erompe con forte ricorrenza il tema del classico, che viene man mano a delinearsi come vero e proprio modello ciclico e forma ritmica. Seppur vi siano stati episodi della storia delle arti in cui il classico è stato visto come un peso che infastidisce, blocca l'avvento del nuovo, privilegia una tradizione funzionale alla conservazione, il peso delle “rinascenze” è stato sempre dominante fino a definirsi come il vero e proprio segno distintivo della cultura occidentale; una cultura che ha costruito la sua grandezza contrapponendosi all'immobilismo tipico del mondo orientale e, nello stesso tempo, sapendo conservarsi intatta malgrado il suo perenne mutamento. La “forma” è una tendenza non uno stampo, una gabbia; è un riferimento ideale che permette di strutturare di volta in volta materie diverse. Cambia nel tempo, proviene da un modello per trasformarlo includendo esperienze anteriori, non contigue né continue, assimila ed esclude cioè ricrea senza perderne l'essenza. Le forme hanno vita autonoma e contemporaneamente permangono. Se l'artista, come dice Platone, ha vissuto la forza creativa come una potenza estranea che erompe in modo dispotico nella sua anima, tuttavia egli ha sempre avvertito la necessità di legare la sua opera alla cultura del presente, avvalendosi -in modo apparentemente paradossale- di modelli formali impregnati di passato. La forma è quella sorta di “aggancio” che consente il più vivace dinamismo nel principio evolutivo. Ricompaiono dunque sempre, rivestite di nuovo, ad un primo apparire quasi irriconoscibili, le cosiddette forme classiche.

Johann Sebastian Bach Ciaccona dalla Partita BWV 1004

Le Tre Sonate e Tre Partite per violino solo (BWV 1001-1006) furono composte durante gli anni trascorsi da Bach a Weimar e comunque prima del 1720 (data che appare sull'autografo); la raccolta riscosse discreta fortuna nel corso del XVIII secolo, come testimoniano i numerosi manoscritti che ce l'hanno tramandata. Se si considera l'oblio in cui cadde la produzione bachiana, sorprende che la sua prima edizione sia del 1802, presso Simrock a Bonn. Secondo Alberto Basso «la tecnica altamente virtuosistica e “specializzata” che caratterizza le sei composizioni presuppone la presenza e la disponibilità di uno strumentista dalle straordinarie capacità esecutive.» Gli studi musicologici non hanno potuto definire con certezza a quale violinista Bach possa essersi riferito ma si propende per credere si tratti di Johann Georg Pisendel che per lungo tempo fu considerato il più eminente dei violinisti tedeschi. Non si può escludere, tuttavia, che Bach avesse concepito tali opere anche per uso personale. Capolavori indiscussi con cui i più grandi virtuosi si sono sempre confrontati, le pagine bachiane sono ancor oggi molto dibattute «per l'incerta realizzazione del tessuto contrappuntistico a cagione del quale molti interpreti sono indotti a sciogliere il nodo dei suoni concomitanti mediante arpeggi più o meno spaziati e forzature sulla più acuta delle parti del discorso.» Bach ha inteso in queste opere «rinchiudere in un unico vasum electionis due manifestazioni del gusto contemporaneo: la sonata da chiesa, severa e ornata di giuochi contrappuntistici, e la partita o suite di danze». Tutte le sonate adottano, secondo le ben note “geometrie” stilistiche bachiane, l'impianto «da chiesa», aprendosi con un movimento adagio o grave, mentre il terzo brano della suite è sempre un andante di carattere cantabile (le denominazioni usate sono siciliana, andante e largo) proposto in una tonalità diversa da quella d'impianto della sonata. La Partita II aggiunge alla consueta serie di danze una ciaccona di ben 257 misure, quasi un'appendice. «Dei due tipi di ciaccona in uso a quei tempi, quello su un basso libero (molto praticato dai francesi) e quello su un basso ostinato (più comune tra i maestri italiani), Bach sembra prestare maggiore attenzione al primo, anche perché vi era indirizzato, per cosi dire, dallo strumento, incapace di sostenere a lungo un disegno obbligato, sul quale si potessero sovrapporre disegni decorativi. Da una cellula tematica costituita da quattro note (un vero e proprio tetracordo discendente) disposte su quattro battute - ma vi è chi sostiene che il disegno è surrettiziamente raddoppiato sicché lo spazio assorbito dalla proposta tematica si estende a otto battute - si origina un organismo complesso in costante fase di crescita, sospinto in avanti da riprese del tema, come in un rondò. Secondo una tecnica di modificazione continua del discorso musicale, al tema vero e proprio si agganciano altre figurazioni tematiche (lo Spitta ne aveva individuate cinque) di volta in volta variate sino a provocare una vera e propria “variazione della variazione”; e non manca neppure, naturalmente, l'inversione del tema, per moto ascendente (batt. 193-196), a coronare l'incredibile catena di artifici, figure, passaggi, tecniche che fanno di questo capolavoro un monumento, una sorta di carta costituzionale del violinismo trascendentale.» (tutte le citazioni sono tratte da Alberto Basso, Frau Musika, la vita e le opere di J. S. Bach, Torino, 1979)

Benjamin Britten Suite op. 6 (1934/5)

Antecedentemente all'autunno del 1933, nel quale frequentò l'ultimo trimestre al Royal College, Britten aveva scritto circa 700 composizioni: era dunque dotato di una luminosa spontaneità creativa e aveva acquisito una tecnica davvero brillante. Questa fase creativa "adolescenziale" può considerarsi conclusa con la Simple Symphony op. 4, che molti critici considerano al contempo uno sfoggio di talento e un estremo tentativo di aggrapparsi ad un mondo musicale che già si è consci di dover abbandonare. Tali doti indubbiamente pesavano nella ricerca di un percorso originale e la vertigine per la conquista di una autentica maturità artistica dominerà la penuria creativa degli anni 1934/35. Per sfuggire al provincialismo della musica inglese, incitato da Frank Bridge a proseguire gli studi a Vienna con Alban Berg (di cui adorava la Lirische Suite e Wozzeck) Britten intraprese un primo viaggio in Italia nel marzo 1934 (in occasione dell'esecuzione fiorentina del Phantasy Quartet) e un secondo, tra ottobre e novembre, tra Basilea, Salisburgo e Vienna. Pur non riuscendo ad incontrare Berg (l'incontro non ebbe mai luogo poiché Berg era fuori città in quel periodo e morì di lì a poco) il giovane Britten ebbe modo di conoscere numerose personalità di rilievo della vita musicale mitteleuropea e fu folgorato dagli ascolti wagneriani, dal Falstaff di Verdi, dalla Salome di Strauss (da Britten sempre ammirato come «un vecchio mago» da cui è possibile imparare una «moltitudine infernale» di effetti). Cominciò a scrivere la Suite nel novembre 1934 durante il suo soggiorno viennese e terminò il primo movimento (Marche) in soli quattro giorni. Il brano si avvale di uno reticolo ritmico che sviluppa l'antica tecnica dell' hoquetus e compone i suoni dei due strumenti -raramente in sincrono- in un ricamo di raffinato equilibrio timbrico. Al ritorno in patria la composizione proseguì molto più lentamente mantenendo un forte aroma viennese: una avvertenza sul frontespizio della partitura avverte gli esecutori che la composizione si avvale di procedimenti seriali. Anche se impiegata senza rigore e in associazione con la scrittura tonale è indubbio che la tecnica dodecafonica produca un sound molto più moderno rispetto alle precedenti composizioni. Britten riconsiderò a diverse riprese quale fosse il miglior format da dare alla Suite; le riflessioni sul suo diario pongono il problema dell'introduzione di un movimento lento che prese poi forma in una Berceuse; un Waltz (anch'esso di ascendenza viennese) fu integrato ai due pezzi e il 17 dicembre Henri Temianka e Betty Humby suonarono i tre movimenti alla Wigmore Hall. Nel maggio e nel giugno dell'anno seguente, Britten aggiunse all'opera un “Moto perpetuo” e una breve “Introduzione” che sigla il clima espressionista che l'autore voleva conferire al brano. Il 13 marzo 1936 a Britten fu dedicata la sua prima trasmissione radiofonica, dedicata proprio alla Suite per violino e pianoforte: il violinista spagnolo Antonio Brosa la suonò integralmente insieme al compositore al pianoforte. Britten era molto nervoso durante le prove di suono e di bilanciamento tra gli strumenti ma poi - scriverà nel suo diario - «ogni nervosismo mi abbandona, sto bene, farò come meglio saprò fare». Britten rifletteva ancora sulla forma definitiva da dare alla Suite nell'aprile 1976, otto mesi prima della sua morte e in quel momento decise di nuovo di pubblicarla nella sua forma originale, in tre movimenti, con il titolo Tre pezzi dalla Suite op.6. Che l'esuberante Moto perpetuo (che certo guarda con ammirazione al terzo movimento della Sonata per violino e pianoforte di Ravel) sia stato abbandonato in questa pubblicazione è ragione di rimpianto: i suoi accenti nervosamente spostati e i suoi frammenti melodici lamentosi offrono un primo saggio affascinante dello stile più tardo del compositore.

Salvatore Sciarrino Fra sé, Capriccio n.8 sulla IV corda (2009)

Non un vero parlare bensì un rimuginio, questo di solito intendiamo con l'espressione fra sé e sé. Più bello sarebbe con se stessi tentare un dialogo. Non si tratta tanto di essere critici. Il dialogo interiore avvia ad aprire la mente, allo sviluppo delle proprie potenzialità, all'autosuperamento (tutte cose che più o meno legano la personalità di ognuno con la creazione artistica). Decidersi al dialogo con se stessi, ciò vorrebbe Fra sé, sorta di capriccio (sarebbe il n. 8) da suonare per intero sulla corda grave. Una sola voce si sdoppia e si risponde, generando un'alternanza di strofe complementari e un incrocio di piani sonori con opposte funzioni, notali su differenti pentagrammi: due per le figure, uno di sfondo. Trasfigurano lo strumento vari fattori combinati, più complessi e imponderabili di quanto si possa enunciare. Timbricamente conta di sicuro la vetrosa, ricercata emissione flautando in alto sul tasto; ma specialmente la contrapposizione di registro sulla stessa corda, che in modo irregolare e variabile imbriglia e scatena inerzia e disarmonicità del corpo vibrante. Sono queste tensioni esasperate, improprie nel rapporto fra elasticità e spessore, che arricchiscono il suono e lo portano da natura a natura, oltre la sua normale identità. (Salvatore Sciarrino, da Milano, laboratorio musicale del Novecento: scritti per Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Milano, Archinto, 2009)

Witold Lutos?avski Partita (1984)

L'opera si compone di cinque movimenti. I tre movimenti principali, il primo (Allegro giusto) il terzo (Largo) e il quinto (Presto) sono separati da brevi episodi ad libitum con funzione di interludio. In queste sezioni al violino e al pianoforte vengono affidate parti precisate in ogni dettaglio ma queste, come appare scritto in partitura, «non dovranno essere in alcun modo coordinate». «Sento il dovere - scrive Lutos?avski - di spiegare le principali caratteristiche di quella musica, che da alcuni anni è diventata oggetto dei miei tentativi compositivi e che avrei potuto chiamare “musica aleatoria delimitata” o “controllata”, oppure “alea delle trame strumentali”. Per dare una definizione migliore di questo concetto, vorrei citare Meyer-Eppler [fisico e fonetico tedesco, 1913-1960, ndr]: “Aleatori chiamiamo quegli eventi, l'evolversi dei quali è stabilito a grandi linee, però nei particolari dipende dal caso”». […] «La musica aleatoria così intesa sembra essere un'innovazione di poco conto: sostanzialmente non cambia l'idea di concepire l'opera musicale come “oggetto nel tempo”»; pur tuttavia, venendo a mancare un vincolo ad una comune suddivisione del tempo, si viene a «mutare drasticamente la fisionomia ritmica ed espressiva dell'opera stessa». Le tre sezioni principali del lavoro «seguono, almeno dal punto di vista ritmico, la tradizione pre-classica (XVIII secolo) della musica per tastiera», ma il riferimento è solo allusivo poiché ad elementi neoclassici (riscontrabili anche in una calibratissima divisione dei ruoli tra gli strumenti) viene associata la particolarissima impronta armonica dell'Autore. Partita è una di quelle composizioni nelle quali Lutos?avski vuole presentare una sintesi di varie fasi del suo percorso di lavoro. Nell'intervista a Grzegorz Michalski (1988) afferma: «Persino in Partita lei potrebbe scorgere qualcosa che riconduce alla parte introduttiva del concerto per pianoforte cominciato prima della guerra. La stessa introduzione, l'inizio del largo e anche la parte finale (che è una specie di giga) procedono come se giocassi con l'idea del Barocco, naturalmente nel mio linguaggio personale». Molto probabilmente nel comporre Partita, Lutos?avski usò alcuni suoi schizzi del citato concerto per pianoforte e, grazie a questi, completò il lavoro in soli due mesi nell'autunno 1984. «Uno dei passi più importanti - afferma ancora l'Autore nella citata intervista - fu di forgiare una scrittura che utilizzasse tessiture di fattura leggera, alla quale sono approdato appena da qualche anno.» […] «Negli anni Sessanta le mie composizioni, quasi senza eccezione, vedevano impiegate grandi masse di suoni» e «questo accadeva non perché amassi particolarmente le grandi masse di suoni, ma semplicemente mi mancavano i mezzi per scrivere in modo “sottile”.». In Partita una vasta linea melodica prende il posto degli usuali brevi motivi ricorrenti. Accordi di terza e quinta vengono spesso preferiti ad agglomerati sonori aspramente dissonanti (tipici della musica di Lutoslavski dei decenni precedenti, composti in prevalenza da seconde o tritoni) creando un'immagine armonica più lineare che spesso si struttura quasi in forma di accompagnamento per la melodia. Questi cambiamenti qualitativi della sua musica intorno agli anni '80 divennero parte essenziale del linguaggio musicale di Lutos?avski e non furono affatto un tentativo di recuperare linguaggi del passato. Il primo movimento (Allegro giusto) e il terzo, il Largo centrale, pervaso da una carica emotiva particolarmente intensa, sono costituiti da quattro sezioni, e in tutti e due i casi è l'ultima sezione che porta al climax del movimento. Lo stesso accade nell'ultimo movimento (Presto) la cui quarta sezione, scritta ancora come un breve ad libitum, costituisce non solo il climax del quinto movimento ma quello dell'intero lavoro ed è seguita da una sezione finale (la quinta) con funzione di coda.

Martino Traversa Quasi una sonata … (2013)

Come afferma Yves Bonnefoy le forme «sbarrano più di quanto non aprano la strada all'intuizione poetica: sostituendo un'attività del linguaggio rinchiusa per sempre su se stessa al pieno incontro con ciò che è». Ma -al tempo stesso- «se la forma è in tal modo una barriera, il muro dietro cui si può soltanto presentire che ci siano degli alberi, essa è anche il fato che l'essere parlante, se non rifiuta di sapere che parlare lo rende solidale con esistenze diverse dalla sua, non può che subire.» Ho citato queste meravigliose parole di uno dei massimi poeti contemporanei perché sintetizzano alcuni tratti fondanti della musica di Martino Traversa: rendersi “solidale” con esistenze diverse dalla sua, cioè superare quella indifferenza verso l'arte che «è un segno tangibile dello smarrimento dell'uomo non più in grado di essere-nel-mondo»; al tempo stesso non lasciarsi invischiare nell'attività del linguaggio “rinchiusa per sempre su se stessa”, cioè allontanarsi dalla trappola di costruirsi un linguaggio la cui messa a punto anteceda il momento creativo. Ciò «significa l'abbandono totale del logocentro, la perdita di quel principio per cui sempre un'idea dovrebbe essere l'antecedente della musica» (Luigi Nono, 1985) che per Traversa vuol dire operare in modo «simile alle api che pur saccheggiando fiori qua e là, danno poi un miele che appartiene soltanto a loro» (Montaigne). Confrontarsi a viso aperto con le musiche del passato per dischiuderne i mondo, svelarne i misteri, riportare alla luce qualcosa che ha già fatto parte della nostra esperienza, ed è quindi in grado di trasmetterci quel processo di mutazione dinamica del linguaggio, senza il quale l'ascolto assume forme di labirintica perdita di coscienza critica. In sostanza evocare (forse anche provocare) nell'ascoltatore alcune immagini sonore, alcuni “reperti” legati alla memoria. L'odierna lacerazione fra l'artista ed il pubblico va dunque per Traversa sanata attraverso “un universo di differenze” che, se da un lato ci impone uno sforzo di adattamento senza precedenti, dall'altro rappresenta tuttavia una grande opportunità. In sostanza, evocando Wittgenstein, porre, o addirittura inventare altri modi per considerare una problematica, suggerire possibilità inedite e così liberarsi da quel «crampo mentale» che vede la cultura musicale contemporanea luogo di culto per specialisti e quindi dissociata dalla stessa contemporaneità. Vorrei ora affrontare un ultimo tema caro a Traversa: l'uso della complessità non tanto -come in Ferneyhough- per ricreare attraverso una scrittura musicale utopica una «trascendenza tanto radicale quanto l'abisso che si apre nel suono» (Bonnefoy), quanto per «spingere al limite [ma in Traversa sempre in modo preciso, trasparente, rigorosamente strutturato] gli elementi che intervengono a trasformare il suono, il luogo di esecuzione, l'esecutore, il pubblico», come affermò nel 1989 Luigi Nono in una delle sue ultime profetiche conferenze. (Aldo Orvieto)