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Martedì 10 dicembre 2013, ore 20.00
Teatro La Fenice, Sale Apollinee

Omaggio a Ivan Fedele

«Conquista ciò che hai ereditato dai tuoi padri, per possederlo veramente»
(Thomas Mann)

Germano Scurti bajan

Ex Novo Ensemble

Davide Teodoro clarinetto
Carlo Lazari violino
Francesco Lovato violino
Mario Paladin viola
Carlo Teodoro violoncello
Giacomo Piermatti contrabbasso
Aldo Orvieto pianoforte

Filippo Perocco direttore
Alvise Vidolin regia sonora

Preludio critico di Filippo Perocco e Ivan Fedele

Johannes Brahms (1833-1879)
Quintetto in fa minore op. 34 (1862/65) per pianoforte e archi
Allegro non troppo - Andante un poco adagio - Scherzo (Allegro)/Trio -
Finale: Poco sostenuto/Allegro non troppo

Ivan Fedele (1953)
Arcipelago Möbius (2004) per clarinetto, violino, violoncello e contrabbasso

Ivan Fedele (1953)
Deystviya (2011) per bayan e quartetto d'archi
Prima esecuzione italiana
Regia sonora di Alvise Vidolin


Per Ivan Fedele l'artista ha la capacità di creare quel «leggero diaframma temporale che gli consente di guardare la propria epoca con un'oggettività che non lo avvolge completamente, non lo appiattisce e non lo massifica»: è dunque chiamato a fissare «lo sguardo sul proprio tempo per percepirne non le luci, ma le ombre» e questo scrutare il buio, accettare di ricevere «in pieno viso il fascio di tenebra» proveniente dal proprio tempo lo conduce a «trovarsi nella condizione di ricercare una vista diversa». Poiché l'opera d'arte «tratta argomenti, sentimenti, problemi, conflitti nascosti nelle pieghe della società» discostandosi dal tempo quotidiano vissuto da tutti noi, mette in evidenza tutto ciò che «urge e urla per essere conosciuto» proponendo dunque una sorta di «eterofonia della sensibilità»; risulta per sua stessa natura «leggermente inattuale» e viene a creare «una sorta di discrasia con il proprio tempo». «Il territorio linguistico abitato dalla “musica d'arte”» (termine che Fedele preferisce a quello di “musica contemporanea”) ha la missione di forzare «i limiti del linguaggio comune» rivolgendosi pertanto a persone «che frequentano zone sempre più lontane» rispetto «al centro della superficie linguistica», ove si attua la condivisione «di una grammatica e di una sintassi ridotte all'osso». Per Fedele questo «processo inarrestabile, connaturato alla dinamica stessa del linguaggio» non deve spaventare in quanto ognuno di noi «sente dentro di sé come istanza archetipica il bisogno della libertà d'espressione» e dunque anche l'irrinunciabile «forza vitale delle tendenze centrifughe» del linguaggio. Dopo una prima fase dominata dall'attenzione «alla figura-gesto e ai principi dell'ars combinandi e dell'ars componendi» ed una più recente (dal 1989) che si concentra sulla messa a punto di una efficace «direzionalità narrativa» corredata di tutti «gli accessori necessari come gli elementi di punteggiatura e di deroghe al percorso lineare», Ivan Fedele si trova oggi in una terza fase creativa nella quale è «il suono stesso che “si racconta”, cristallizzandosi secondo modelli di natura fisica che sono tuttavia anche modelli percettivi e dunque fisiologicamente e psicologicamente compatibili». Questa fase più che «drammatizzare il suono nello spazio» (come avveniva nella precedente fase narrativa) preferisce «scolpire il suono nello spazio» come se, con una lente d'ingrandimento, si entrasse «all'interno della materia di quel suono» e se ne raccontasse «la sua cristallizzazione e materializzazione». In questa fase la musica di Ivan Fedele non si avvale più di «un tempo “narrativo”, ma di un tempo “riflessivo”, di osservazione e meditazione». Questo concetto «ci porta al vertice di ciò che l'uomo può provare da un punto di vista tanto emozionale quanto concettuale: la concentrazione del pensiero, la meditazione.» Dal punto di vista tecnico tale fase è dominata da una «progressiva riduzione del materiale impiegato»; una sorta di distillazione di «energia inventiva» che le dona la capacità di «esplodere in tante combinazioni diverse». Le opere di Ivan Fedele si identificano per la presenza di una sorta di «codice genetico», una filiera di informazioni che assicura l'identità irripetibile delle grandi avventure artistiche. (Aldo Orvieto)

Tali note sono state redatte con citazioni tratte da La musica “inutile” e necessaria: una conversazione con Ivan Fedele, di Cesare Fertonani (2010) leggibile integralmente nel volume AA. VV. Le ali di Cantor, Edizioni Suvini Zerboni, 2011.


Johannes Brahms Quintetto in fa minore op. 34 (1862/65)

Il quintetto fu ultimato nell'agosto del 1862 in una strumentazione per soli archi con due violoncelli, sul modello del Quintetto in do maggiore di Schubert; tale versione è purtroppo andata perduta. L'esito non apparve a Brahms soddisfacente, ed anche Joachim pose dei dubbi sulla sua resa in concerto. Nel 1864 l'autore riscrisse la partitura come Sonata per due pianoforti (oggi op. 34 bis): dalla constatazione che una delle due parti pianistiche della Sonata è letteralmente identica a quella del Quintetto se ne deduce che fu una sorta di lavoro preparatorio alla scrittura definitiva dell'opera, inviata all'editore nel luglio 1865. Le opere da camera coeve alla rielaborazione del Quintetto - il Sestetto op. 36, la Sonata op. 38 e il Trio op. 40 - testimoniano come quest'opera sia stata per Brahms un vero “punto di svolta” dopo il quale avvenne un ripiegamento verso scelte arcaizzanti e “neoclassiche”: quasi una presa di coscienza del grande abisso apertosi nella travagliata gestazione del Quintetto op. 34 nella quale tutte le istanze espressive paiono debordare al limite del controllo. Una conseguente volontà di maggior equilibrio dei materiali, un più cauto “imbrigliarli” nei gusci delle “forme classiche”. L'articolo Vie nuove, scritto da Robert Schumann nel 1853 per la sua rivista Neue Zeitschrift für Musik così descriveva l'incontenibile espressività brahmsiana: «Poi sembrava ch'egli, passando come un fiume scrosciante, riunisse tutte queste sorgenti in una cascata che, coronata da un calmo arcobaleno, veniva accompagnata nel precipitare del suo corso da svolazzanti farfalle e da canti di usignoli». «Brahms, l'insondabile», scrive Sergio Sablich: «c'era in lui un lato da enfant terrible, in rapporto diretto sia con la sua riservatezza sia con il suo piacere per la mistificazione e la mascheratura.» La critica scorge nel monumentale primo movimento il più importante esempio della sintesi della lezione di Beethoven e di quella di Schubert. Per Maurizio Giani il contrasto che nasce, in termini hegeliani, «dalla identità dell'identità e della non-identità» ospita al proprio interno «la possibilità tutta schubertiana della sosta, la capacità di allentare le maglie della costruzione suggerendo l'immagine di un percorso a tratti più rilassato». Il movimento lento (Andante, un poco adagio), fulgido esempio di quella “voce slava” che spesso accompagna le più tenere melodie brahmsiane, precede uno Scherzo: potente, inesorabile, demoniaco «e di dimensioni tali da rischiare di compromettere l'equilibrio dell'intera composizione.» Il Trio offre un breve momento di distensione, di lirismo struggente: ma è intenzionalmente incapace di lenire il clima di dramma oscuro che pervade lo Scherzo. In una lettera a Clara del 1888 Brahms definisce il Quintetto grausam, un termine che si può tradurre sia “crudele”, che “spietato”. Il Finale è preceduto da un “Poco Sostenuto” (come il Quartetto op. 95 di Beethoven, palesemente citato nella prime misure) che consente un momento di riposo introspettivo, ancorché anch'esso velato di tragedia. Il seguente “Allegro non troppo”, in forma di rondò, si conclude con una estesissima coda che ingloba spunti del primo e terzo movimento configurandosi - anche qui con attenzione ai grandi modelli beethoveniani -come una coda dell'intero Quintetto.

Ivan Fedele Arcipelago Möbius (2004)

Arcipelago Möbius è una composizione per un organico speciale in quanto il trio d'archi, al quale si accompagna il clarinetto, prevede inusualmente violino, violoncello e contrabbasso. La struttura generale si articola in nove isole formali in cui si alternano, secondo criteri ora di continuità ora di discontinuità, diverse combinazioni timbriche dovute non soltanto alla differenziazione dell'organico di volta in volta utilizzato (tutti gli strumenti, tre di essi, coppie e parti solistiche), ma anche in funzione dei registri esplorati. Il richiamo al matematico tedesco Möbius propone il riferimento ad alcune sue rappresentazioni geometriche, quali per esempio il famoso “anello”, che mi sono servite come spunto, metafora, immaginazione. Ecco perché in tutto il pezzo vi è una tendenza alla ciclicità intesa nella sua accezione più lata. Una ciclicità paradossale, che crea intrecci di figure o di timbri tali che, da un punto di vista percettivo, tendano a sfuggire a una nozione di inizio e di fine, ma si pongano invece in una prospettiva ideale di continuità, còlta in istanti precisi ma mai risolta. Sovente clarinetto e trio d'archi si presentano come due entità contrapposte, il che permette, nei momenti d'incontro, che si crei un “corto circuito” il quale assume una funzione di segnale forte, di pivot temporel che, ripetuto nel tempo, scandisce il fraseggio della composizione. (Ivan Fedele)

Ivan Fedele Deystviya (2011)

Recentemente il matematico russo Grigoriy Perelman ha risolto la cosiddetta “Congettura di Poincaré”, uno dei quesiti più intriganti che ha impegnato per oltre un secolo i più grandi matematici nel tentativo di una dimostrazione. Esiste una branca della matematica che viene chiamata Topologia e che studia la proprietà delle figure e delle forme che non cambiano quando subiscono delle deformazioni continue, cioè senza strappi, incollature o sovrapposizioni. Si definiscono omeomorfi due oggetti che possono essere deformati l'uno nell'altro in modo continuo. Per esempio un cubo e una sfera sono omeomorfi, così come lo sono un parallelepipedo e un dodecaedro. Non sono omeomorfi una sfera e una ciambella con un buco (chiamata toro) in quanto è impossibile una deformazione che porti a una loro coincidenza. In Topologia è inoltre molto importante il concetto di varietà (manifold nei trattati in lingua inglese) che consiste in uno spazio localmente simile a uno spazio euclideo. Per fare un esempio la superficie terrestre è localmente simile a un piano a due dimensioni. Il concetto stesso di mappa proviene da questa proprietà di poter assimilare localmente il territorio a uno spazio euclideo in due dimensioni. Una varietà è detta semplicemente connessa se è fatta di un pezzo solo e non ha buchi. Questa affermazione un po' all'ingrosso può essere resa rigorosa introducendo il concetto di cammino o laccio. Date queste premesse sarà facilmente intuibile il progetto formale e, perché no?, estetico dei Deystviya (“azioni” in russo): i tre movimenti di cui si compone la composizione realizzano ora delle forme omeomorfe ora dei tori in processi di continuità e discontinuità che si alternano, contrappongono, integrano nella mappa della partitura come in quella dello spazio nel quale gli strumenti sono collocati. (Ivan Fedele)