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Martedì 26 novembre 2013, ore 20.00
Conservatorio Benedetto Marcello, Sala Concerti

Fortissimo/Pianissimo

Le due anime del saxofono nel Novecento

«Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere (Quando contano, naturalmente). Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all'altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura.»
(Italo Calvino, 1964)

Gianpaolo Antongirolami saxofoni
Mario Paladin viola
Fausto Bongelli pianoforte

Preludio critico di Luisa Curinga

Astor Piazzolla (1921-1992)
Le grand tango (1982) per viola e pianoforte

Tigran Mansurian (1939)
Lacrymae (1999) per sax soprano e viola

Benjamin Britten (1913-1976)
Elegy (1930) per viola

Salvatore Sciarrino (1947)
Canzona di ringraziamento (1985)
Versione per sax soprano

Andrea Cavallari (1964)
Number 14, Gray
(after a work by Jackson Pollock)
(2013)
per sax baritono
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta

Giacinto Scelsi (1905 - 1988)
Tre pezzi (1956) per sax soprano

Graham Fitkin (1963)
Gate (2001) per sax soprano e pianoforte


Le parole di Italo Calvino fanno profondamente riflettere sul valore delle argomentazioni esplicative che accompagnano l'ascolto di un'opera musicale. Nel caso della presentazione di opere contemporanee risulta quasi d'obbligo chiarire il contesto in cui un'opera viene scritta, l'adesione (o la prossimità) dell'autore ad uno (o più) dei molti linguaggi che hanno abitato l'ultimo secolo di creazioni musicali. Secolo caratterizzato, a latere della modesta fortuna del sistema dodecafonico, e con la sola eccezione della musica cosiddetta “spettrale”, dall'avvicendarsi di modelli compositivi che originano da brillanti intuizioni creative, ma raramente hanno intenti sistematici e dunque non promuovono quei processi di condivisione estetica che conducono alla fondazione di nuove “scuole”. Nel caso del concerto di questa sera ci troviamo di fronte ad un caso emblematico, cioè quello di uno strumento, il sassofono, che è stato ampiamente frequentato nell'ambito di molti “generi” musicali del contemporaneo: dal jazz, al rock, alla musica leggera; ma al contempo è stato anche significativamente impiegato nella cosiddetta “musica d'avanguardia”. E' un'occasione per rilevare come a distanze di natura estetica, si affianchi una diversa valorizzazione di attributi propriamente fisici dello strumento come - con immediata evidenza - un diverso impatto sonoro e gestuale: per lo più flebile, raffinato e iper-controllato nelle opere “colte”; energico, vitale, plastico, tendente all'estemporaneità nelle opere che guardano ai -seppur tra loro diversi- mondi della musica “popolare” o “di consumo”. “Sintonizzare” l'ascolto con uno (o più) di tali mondi musicali significa dunque - guardando al pensiero di Croce - immergersi in «quella sorta di lavoro» che «ha il suo proprio nome d'interpretazione, di commento, di esegesi» e che si può «restringere all'ufficio di chi spolvera, colloca in buona luce, fornisce ragguagli» su tutti quegli elementi che compongono l'opera e sono il tempo, l'oggetto, le forme linguistiche, i presupposti di idee o di fatti. Purché tutto riguardi l'opera e sia un sussidio al fruitore che si affiderà poi alla propria «intuizione» come mezzo unico del godimento dell'opera. E Croce sottolinea come questa operazione ricostruttiva-esegetica sia indispensabile anche per l'arte cosiddetta contemporanea, per liberare da «pregiudizi, abitudini e oblii e preparare la gente a sentire la bellezza di un'opera d'arte pur nata ieri».

Astor Piazzolla Le grand tango (1982)

Le grand Tango fu scritto su richiesta di Mstislav Rostropovitch. Malgrado Piazzola avesse consegnato la partitura a Rostropovitch nel 1982, il celebre artista russo, iperattivo e artisticamente ultra-impegnato lo portò in concerto solo nel 1990. La sua prima esecuzione de Le grand Tango avvenne significativamente a New Orleans, patria della musica jazz, sicuramente uno degli ingredienti linguistici che l'autore sfruttò ampiamente nella sua opera di ristrutturazione formale ed espressiva della forma del tango. Piazzolla è stato uno dei rari artisti che ha realmente intrapreso un personale itinerario di fusione tecnica ed estetica tra diversi generi musicali. La sua formazione classica ebbe luogo in Argentina con Alberto Ginastera ed a Parigi con Nadia Boulanger mentre - in parallelo - partecipava fin da giovanissimo alla vita musicale delle orchestre di tango e jazz negli Stati Uniti come bandonéonista. Insoddisfatto di una riproposizione pedissequa dell'archetipo classico del tango, si impegnò a tal punto nel processo di riforma di tal genere musicale da arrivare a dichiarare che le sue due passioni musicali e i suoi elementi formativi furono - pariteticamente - Bach e il tango. Le grand tango è un tango di proporzioni gigantesche, moderno, divergente in più aspetti dalla forma tradizionale, carico di espressività, basato su una solida armatura costruttiva. Vi si ritrovano molti elementi che provengono dalla tradizione cameristica classica, dalle musiche popolari urbane che si sommano al tango, al jazz e alla musica sperimentale nel contesto di un progetto estetico di fusione dei più diversi generi musicali. L'unicità di questo brano è ancor più rilevante se lo si analizza come un archetipo delle estetiche sonore della post-modernità, come una risposta originale al fenomeno che gli anglosassoni chiamano borrowing, termine che potremmo sommariamente tradurre come “musica sulle (o delle) musiche”. Il brano evidenzia l'intenzione del suo autore di creare un metalinguaggio che definisca uno spazio di confronto tra i linguaggi ma - forse ancor più - un'esplosione di musica autentica che può essere fruita da tutti. Le grand tango, come la maggior parte delle composizioni di Piazzolla, per suo stesso volere e credo estetico, ha conosciuto molti arrangiamenti. La versione per viola e pianoforte che proponiamo questa sera ha una sua peculiare attendibilità essendo stata pubblicata, contestualmente all'originale versione per violoncello, vivente l'autore, dall'editore Berbén nel 1985.

Tigran Mansurian Lacrymae (1999)

Lachrymae, è stato scritto per Jan Garbarek e Kim Kashkashian, violista armena di fama internazionale alla quale Tigran Mansurian ha dedicato numerosi suoi lavori. Compositore libanese nato a Beirut nel 1939 ma trasferitosi in Armenia nel 1947 Mansurian ha coltivato feconde frequentazioni con artisti che condividevano problematiche a lui care, come quelle dell'esplorazione di una espressività in equilibrio fra composizione colta e tradizione popolare, rigore formale e fotografia sonora: tra questi ricordiamo Arvo Pàrt, Alfred Schnittke e Sofia Gubaidulina. In Lachrymae, la scelta di un organico del tutto inusuale - sax soprano e viola - ne chiarifica il percorso ideale: l'integrazione timbrica tra suoni di natura tanto diversa diventa metafora dei temi prediletti di Mausurian: la tolleranza reciproca fra razze, culture e civiltà diverse. Dopo un episodio iniziale che pone in luce le risorse peculiari dei due strumenti - e a tratti ne dipinge le asprezze - il tessuto delle voci si sviluppa in un gioco contrappuntistico intensamente lirico, spesso tormentato e angosciato. La ricerca di una soluzione a questo groviglio di tensioni si stempera e gradualmente il tessuto polifonico confluisce nella condivisione del medesimo registro di altezze: la fusione timbrica sopravviene in maniera così naturale ed esemplare che il lamento sembra infine sorgere da un'unica fonte sonora.

Benjamin Britten Elegy (1930)

Negli ultimi mesi del 1927, all'età di 14 anni Britten, divenne allievo Frank Bridge, musicista per quale ripose da subito assoluta stima e fiducia e che, negli anni a venire, elesse quasi a secondo padre. Il periodo felice che si aprì con tale fortunato e fecondo incontro musicale fu oscurato, nel 1928, al momento dell'iscrizione alla scuola superiore, la Gresham's School di Holt , nel Nordfolk. I due anni trascorsi a Holt furono per Britten molto problematici: l'ambiente traboccava di «atroce bullismo su tutti i versanti, volgarità e imprecazioni» (così in una lettera alla sorella). Se Auden dipinse la stessa Gresham's School come uno stato fascista, Orwell la descrisse come un teatro di desolata solitudine e impotenza. A ridosso dell'esame, il 7 maggio 1930, annotava sul diario: «Se il prossimo trimestre sarò costretto a tornare (avendo fallito il mio School Certificate), tutto quello che potrò fare è impedire di perpetrare il mio suicidio». Il 1 agosto 1930, il giorno dopo l'esame, Britten scrisse la presente Elegia, il cui titolo è di responsabilità dei curatori della prima edizione, poiché il manoscritto non riporta alcuna indicazione. «Non pensavo che mi sarebbe dispiaciuto andar via» scrisse nel suo diario nei giorni seguenti la fine di quella infelice esperienza ma la natura di questa musica, rivela il suo vero stato d'animo, sempre in bilico tra esaltazione gioiosa e cupe reminiscenze. Le frequenti indicazioni di diteggiatura sul manoscritto fanno ritenere che l'Autore possa aver scritto il brano per suonarlo lui stesso. Solo il 22 giugno 1984 Nobuko Imai tenne a battesimo l'Elegia nel contesto del 37° Festival di Aldeburgh.

Salvatore Sciarrino Canzona di ringraziamento (1985) versione per sassofono

«L'incantesimo per fortuna era riuscito. Ciò che pareva destinato a congelarsi in un bozzolo per sempre svuotato della propria voce, il vecchio strumento, esausto dalla stessa ricerca di suoni nuovi, stavolta ne usciva radicalmente trasformato. Inventare è una sfida. per anni, confesso, avevo covato un desiderio; che il flauto si mutasse nel suo inseparabile compagno d'altri tempi, fosse insieme flauto e tamburo, e il tamburo cuore. Non mi sarei visto esaudito tuttavia, se non avessi tutta la vita inseguito un desiderio più grande, di fare della magia con le cose più banali, i suoni più sgradevoli, quelli che circondano il quotidiano e quasi non sentiamo più. Ma non era il solo incantesimo. Sullo strumento monodico la polifonia non era più apparente perché in certi punti emissioni diversissime venivano come emulsionate nel medesimo istante. E siccome ogni tipo di suono ha un suo tempo di riverberazione, il suono reale si sovrapporrà alla coda del precedente. Fenomeno ulteriormente esasperato dalle dinamiche opposte. Dato l'esito felice non mi restava che ringraziare le divinità. Allora mi sentivo altresì debitore a Goffredo Petrassi che tante volte mi ha dimostrato affetto e riguardo; pensai di dedicargli il ringraziamento. Nel riferirmi a Beethoven [dal terzo movimento del Quartetto op. 132 ndr ]io non ero guarito da una malattia. Eppure con questa il travaglio creativo ha notevole comunanza, specie se intransigenti con la propria anima. La canzone è una costruzione geometrica su pochi suoni lasciati sospesi dagli incantesimi. Strofica, polifonica, poliritmica, solo ai vampiri della musica potrà apparire come esangue una melodia accompagnata.» (Salvatore Sciarrino) Una versione per sassofono, approvata dall'autore, è stata realizzata da Gianpaolo Antongirolami: «attratto dalla bellezza della Canzona e convinto che la sua costruzione intessuta di tremoli potesse risultare particolarmente efficace sul sassofono, a causa della parentela costruttiva che lega il sassofono al flauto (entrambi basati sul sistema Boehm) più di quanto lo leghi al clarinetto, come invece comunemente si crede, decisi di farne una versione per sassofono. Non si tratta di una vera e propria trascrizione, in quanto eseguo la partitura per flauto così com'è, utilizzando il sassofono soprano: l'unica differenza con l'originale è che il pezzo risulta un tono più basso. Quando gli feci ascoltare questa versione, Sciarrino la accolse con entusiasmo. Qualche tempo dopo quell'incontro, in cui potei dimostrare la parentela meccanica e acustica tra flauto e sassofono, Sciarrino realizzò due composizioni per così dire “gemelle”, affidate ai due strumenti: nel 1997 infatti, a distanza di pochi mesi l'una dall'altra, videro la luce Il cerchio tagliato dei suoni, per quattro flauti e 100 flauti in movimento e La bocca, i piedi, il suono, per quartetto di sax e 100 sax in movimento». (Gianpaolo Antongirolami)

Andrea Cavallari Number 14, Gray (after a work by Jackson Pollock) (2013)

Scritto per Gianpaolo Antongirolami e dedicato a Claudio Ambrosini, questo recente lavoro prende spunto dall'omonimo quadro del pittore americano Jackson Pollock. L'espressionismo astratto, i continui riferimenti alla struttura informale, quasi casuale della “action painting” e del “dripping” di Pollock, mi hanno ispirato a realizzare una composizione che trasporta l'azione danzante del pittore e la spazialità del quadro in tre elementi sonori principali, caratterizzati e distinti tra loro dal colore timbrico, dalla tessitura e dalla posizione dell'esecutore rispetto al pubblico: l'elemento A individua sonorità molto basse, appena percettibili, vicine al rumore, che esplorano il confine tra il silenzio e il suono (le linee grigie e dense del quadro); l'elemento B, nel registro medio dello strumento, è realizzato attraverso una scrittura tradizionale, che prende spunti dal free-jazz e utilizza i timbri tipici dello strumento e rappresenta il “gesto” dell'artista che si materializza nelle linee più volatili e incontrollabili; l'elemento C è caratterizzato da ipertoni che si spingono ai limiti delle possibilità timbriche dello strumento, rompendo la disposizione sistematica e razionale della forma e della struttura del brano, quasi a intendere una casualità espressa dall'improvvisazione e da elementi non formalizzati. Queste tre componenti sono spesso sovrapposte seguendo una struttura caratterizzata non da una mancanza di ordine, ma da un sistema così complesso che rende ardua la percezione di una costruzione ordinata. Il brano si articola e si sviluppa attraverso un complesso sistema di variazioni del materiale sonoro verticale e orizzontale. Il quadro diventa così una sorta di traccia, di linea guida per la stesura della forma e la definizione della struttura del brano. I frammenti usati si sovrappongono creando una sorta di variazione della variazione nel tentativo estremo di esaurire la fonte di ispirazione. (Andrea Cavallari)

Giacinto Scelsi Tre pezzi (1956)


Graham Fitkin Gate (2001)

Graham Fitkin nutre una speciale predilezione per il saxofono. Lo si intuisce consultando il suo catalogo nel quale compaiono molti suoi lavori dedicati a questo strumento. In un primo gruppo di lavori giovanili Fitkin ritenne proficuo lavorare sfruttando un timbro strumentale omogeneo: quattro sassofoni, due pianoforti, quattro marimbe o sei pianoforti. La scelta di questo genere di strumentazioni, tipiche della sua musica degli ultimi anni '80 e dei primi anni '90 si motiva con la volontà dell'Autore di far ben percepire il procedimento costruttivo con il quale si evolve il brano senza comprometterne la chiarezza con l'immissione di raffinatezze coloristiche. Questo approccio coniuga la sua adesione al sound della musica dei primi minimalisti americani con le molteplici esperienze vissute negli anni in cui visse in Olanda, al tempo dei suoi studi con Louis Andriessen. I lavori più recenti prevedono formazioni di ensemble misti di fiati, archi e tastiere in strumentazioni inusuali ove spesso una coppia di saxofoni riveste un ruolo solistico. La musica di Fitkin viene apprezzata per la sua semplicità di struttura, la sua accattivante vitalità ed energia ritmica, il suo lirismo visionario di sorprendente dolcezza. Gate è un brano condotto in forma di toccata e prende le mosse da un trillo pianistico che si sviluppa gradualmente in una sequenza di articolati pattern ritmici: ad una ossatura formale di radici minimalistiche si sovrappone una melodicità che si sviluppa in forma libera intorno ad alcune note cardine dell'armonia.