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Giovedì 7 novembre 2013, ore 20.00
Conservatorio Benedetto Marcello, Sala Concerti

Volo Solo

«Io veramente adoro quando un raggio di sole saltella sul pianoforte, come per giocare con i suoni, i quali non sono nulla più che luce risonante»
(Robert Schumann, 1833)

In collaborazione con SaMPL (Sound and Music Processing Lab)

Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Davide Teodoro clarinetto
Carlo Lazari violino
Carlo Teodoro violoncello
Aldo Orvieto pianoforte

Alvise Vidolin regia sonora

Preludio critico di Massimo Contiero e Alvise Vidolin

Karlheinz Stockhausen (1928-2007)
Solo (1965/66) per strumento melodico con retroazione
Versione a cura di SaMPL (2013) per flauto e elettronica

Alberto Caprioli (1956)
Andante adagio (2013) per violino
Commissione Ex Novo Musica, Prima esecuzione assoluta

Fabio Nieder (1957)
lúomo strano mi hà riportato a Trieste pecola che non son nato morto (2013), musica acusmatica
Realizzazione elettronica di Luca Richelli
Commissione Ex Novo Musica/SaMPL
Prima esecuzione assoluta

Françis Poulenc (1899-1963)
Sonata (1959/63) per clarinetto e pianoforte
Allegro tristamente - Romanza - Allegro con fuoco

Witold Lutos?avski (1913-1994)
Grave: Metamorphoses (1981) per violoncello e pianoforte

Benjamin Britten (1913-1976)
Reveille (1937) studio da concerto per violino e pianoforte

Cornelius Cardew (1936-1981)
Volo Solo(1965) per esecutori virtuosi di ogni strumento
versione dell'Ex Novo Ensemble per flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte



L'idea fondante di questo concerto è il forte legame tra l'opera proposta in apertura (Solo di Karlheinz Stockhausen) e quella che lo conclude: Volo solo di Cornelius Cardew; entrambi composti nel 1965. Cardew, giovane brillante compositore inglese, iniziò a studiare con Stockhausen nel novembre 1957 a Colonia. Già nel 1958, nella Terza sonata e in Two Books of Study for Pianists troviamo parallelismi evidenti con alcuni Klavierstück di Stockhausen (in particolare il IV, per la tecnica degli abbellimenti, e l' XI per l'adozione di una scala di sei dinamiche). Nel 1958 sia Stockhausen che Cardew assistettero con profondo interesse ai concerti che John Cage e David Tudor tennero a Colonia. Come sappiamo l'estetica americana era destinata a influenzare profondamente la musica europea: Stockhausen se ne appropriò nei primi lavori che prescrivono sofisticati procedimenti di “alea controllata”; a Cardew ispirò le opere aleatorie dei primi anni sessanta. «Ho avuto l'idea - scrive Stockhausen presentando Solo - di un unico performer che suona polifonicamente come avviene in Gesang der Jünglinge in Feuerofen [1955/6, la prima opera acusmatica di Stockhausen, ndr], in cui avevo usato una sola voce, e l'avevo moltiplicata e con montaggi e metodi di playback. Ora però volevo che questo processo potesse essere direttamente controllato dall'esecutore». Il solista viene dunque invitato a creare strutture usando i materiali forniti dalla partitura, ed anche a creare una drammaturgia sonora a partire dai processi di feedback che ascolta. Continua Stockhausen: «Come nella vita reale, ho immaginato una musica che occasionalmente si può stratificare e sovrastratificare, minuscoli frammenti possono essere uditi sporadicamente sovrapposti, il solista può suonare commenti, complementi e materiale nuovo. Una musica in cui il pensiero a voce alta è evidente ma al tempo stesso partecipa alla creazione e alla dissoluzione di diversi strati di avvenimenti». La distanza di questi fondamenti estetici dai dogmi del “serialismo assoluto”, che fin pochi anni prima avevano avuto in Stockhausen un vivace sostenitore, è evidente. Il dogma del serialismo aveva del resto affascinato anche Cardew, il quale peraltro ammirava Cage non tanto per le sue tecniche compositive, quanto per aver liberato l'esecutore dall'oppressione della complessità della scrittura. La forma ibrida tentata da Cardew in questi anni prevede la messa a punto di metodi di indeterminazione altamente sofisticati che rispettino l'istinto creativo dell'interprete. Le due opere che presentiamo questa sera - pur molto diverse - si possono dunque leggere come un giano bifronte: partono infatti dalla stessa matrice culturale (il serialismo della scuola di Darmstadt), sono entrambe un tentativo di fornire un corpus di regole ben congegnate per stimolare la creatività dell'interprete, propongono entrambe una forma di aleatorietà che garantisce l'impronta inconfondibile del loro autore. Gli altri lavori che compongono il percorso di questa serata presentano diverse visioni della forma del “Solo da concerto”: forma nata in età romantica ma assai frequentata nel corso del Novecento: dal solo acusmatico di Fabio Nieder, a quello di matrice jazzistica della Sonata per clarinetto di Françis Poulenc, all'intimità introspettiva del Grave di Witold Lutos?awski, alla giocosa parodia di Reveille di Benjamin Britten.

Karlheinz Stockhausen Solo (1965/66)

Solo è una composizione per un qualsiasi strumento melodico solista con live electronics composta nel 1965-66 da Karlheinz Stockhausen. È il Nr. 19 del suo catalogo delle opere ed ha una durata che può variare da 10:49 a 19:05 minuti. Il primo abbozzo di Solo risale al 1964 ed è strettamente legato alle opere coeve come Plus-minus, Momente e Mikrophonie I. Fu composta nei mesi di marzo e aprile 1966, su commissione della radio giapponese NHK e, nella prima esecuzione, è stata suonata due volte, proponendo al pubblico due versioni differenti, ripettivamente per trombone e per flauto. Uno speciale sistema elettroacustico è stato costruito per realizzare i vari delay con feedback previsti dalla partitura, la cui gestione è stata affidata a quattro esecutori elettronici. Negli anni successivi sono stati costruiti altri sistemi esecutivi, prima con tecnologia analogica e successivamente con tecnologia digitale rendendo possibile, con l'ausilio del computer, l'esecuzione anche da parte di un solo operatore al live electronics. L'elemento che caratterizza concettualmente il pezzo è il feedback (Rückkopplung, in tedesco) ovvero la possibilità di registrare dal vivo su anello di nastro magnetico una frase melodica che può essere ripetuta molte volte, eventualmente sovrapposta ad altre frasi registrate nel corso dell'esecuzione, trasformando così lo strumento monofonico in polifonico. Il sistema elettroacustico progettato da Stockhausen consente sia una varietà nella ripetizione, sia un controllo della densità nella proliferazione polifonica. Tale sistema, pur controllabile nei comportamenti generali, non consente una composizione deterministica della struttura polifonica ma crea piuttosto un ambiente esecutivo in cui il solista può dialogare con se stesso in un contesto di sviluppo polifonico. Seguendo questa logica di interazione con gradi li libertà, anche la partitura è stata concepita da Stockhausen come un'opera aperta, nel senso che sono gli esecutori a realizzare la versione definitiva della composizione, scegliendo fra sei possibili versioni che uniscono i sei fogli di musica melodica scritti dall'autore con altrettanti cicli di feedback i cui tempi di ritardo possono variare da un minimo di 6 secondi a un massimo di 45,6 secondi. Ulteriori vincoli e libertà sono fissati con dovizie di particolari nello schema di interpretazione che fissa, fra le altre cose, la durata delle pause (lunga, media, corta e loro combinazioni); la caratteristica delle sovraincisioni (polifonica, accordale, a blocchi); il modo di interpretare i singoli fogli ai diversi livelli strutturali con logica di similarità, differenziazione, opposizione o combinazioni di queste. Il solista, inoltre, deve operare una scelta timbrica fra quattro diverse tipologie ottenibili dal proprio strumento con tecniche esecutive diverse oppure avvalendosi della elaborazione elettronica. (Alvise Vidolin)

Alberto Caprioli Andante adagio

Lo spazio destinato in un prestigioso catalogo alla presentazione di una nuova composizione è come una stanza. In molte occasioni mi è parso che le architetture della lingua potessero divenire ricerca, metafora, allegoria del pensiero; non in questa. Andante adagio per violino solo è come un figlio che sembra venuto da lontano, i cui desideri sono diversi da quelli di chi lo ha generato; che chiede che gli sia solo concesso un breve spazio nel tempo, una stanza nel silenzio con una finestra sul mondo , dove potersi spogliare degli abiti della parola per mostrarsi nella nudità del suono. (Alberto Caprioli)

Fabio Nieder lúomo strano mi hà riportato a Trieste pecola che non son nato morto (2013)

Questo brano elettronico è una scena dal mio vasto lavoro per il teatro musicale dal titolo: Thümmel, oder die Verlöschung des Wortes. Il pittore triestino Vito von Thümmel passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio a Trieste dove morì nel 1949. Durante gli anni della clausura forzata disegnò su centinaia di bigliettini i suoi sogni. Ogni disegno porta una data, spesso fantasiosa, e descrive a parole il contenuto del sogno. In uno di questi egli rappresenta un volo sul pianeta “Saturnio” (così Thümmel nomina il pianeta Saturno, forse memore della società di canottieri “Saturnia” di Trieste!) fatto in compagnia di un extraterrestre che lui chiama “Uomo strano”. L´uomo strano è grandissimo, sul capo porta una sorta di aureola e ha 2 grandi tenaglie al posto delle mani, Thümmel invece si autorappresenta piccolo. Anche i due mondi, come li chiama lui, sono l'uno grande (Saturnio) e l'altro piccolo(“mondo nostro Trieste piccolo”). La scena del volo Trieste-Saturnio (volo di andata), della durata di 40 minuti, dal titolo: Caminata meravigliosa di Vito von Thümmel a Saturnio è stata composta per 6 voci (Neue Vocalsolisten Stuttgart) ed elettronica. La prima esecuzione parziale è avvenuta al Festival Wien Modern nel 2001. La scena completa è stata poi eseguita a Milano Musica qualche anno più tardi. lúomo strano mi hà riportato a Trieste ... (volo di ritorno) avrà invece la sua prima esecuzione assoluta questa sera. In questa scena elettronica non c´è nessun essere umano in palcoscenico o in buca d'orchestra. La musica è “non-umana” e descrive il ritorno di Thümmel da “Saturnio” al “mondo nostro Trieste piccolo” in compagnia dell´“Uomo strano”. Volo di ritorno con caduta un po' brusca e dolorosa di Thümmel sulla superficie del nostro piccolo pianeta...Nessun commento segue invece alla tragica frase originale di Thümmel: “pecola (peccato) che non son nato morto”. (Fabio Nieder)

lúomo strano mi hà riportato a Trieste pecola che non son nato morto è un brano per soli suoni elettronici generati attraverso il processo di resintesi di suoni acustici. Partendo da una esecuzione della partitura, diretta dall'autore, si sono registrate le singole parti con i solisti dell'Ex Novo Ensemble e ciascuna traccia sonora è diventata il materiale grezzo da sottoporre ad un processo di analisi sonologica. Tale analisi è stata realizzata con il programma AudioSculpt ottenendo la successione temporale e spettrale degli eventi da utilizzarsi successivamente in ambiente OpenMusic (con l'ausilio delle librerie OMChroma e RepMus) per la generazione della resintesi elettronica di ciascuna voce della partitura. La tecnica principalmente utilizzata è stata la sintesi addittiva sia nella sua forma classica, somma di sinusoidi, che nella sua variante di somma di suoni complessi, in questo caso pseudo-sinusoidali. Pur avendo il riferimento, sia pratico che ideale, degli strumenti acustici reali, la realizzazione elettronica di questo brano ha volutamente scelto la strada dell'ambiguità (utopica) tra la fusione di tutte le parti in un evento sonoro unico e la creazione di suoni evocativi e fantastici di molteplici strumenti. Infine, l'accurato lavoro di “orchestrazione” elettronica che gioca tra fusione e separazione degli elementi, si è completato attraverso le tecniche di spazializzazione. Il fixed media finale è stato realizzato in multitraccia per sfruttare le possibilità della diffusione multicanale e del movimento dei suoni nello spazio, in modo da accentuare la dialettica tra mascheramento e risalto delle diverse voci. (Luca Richelli)

Françis Poulenc Sonata (1959/63) per clarinetto e pianoforte

Dopo aver ultimato la Sonata per flauto e pianoforte nel 1957, Poulenc progetta di scrivere una sonata per clarinetto e un'altra per oboe (una per fagotto non vedrà mai la luce, ma i suoi materiali saranno utilizzati nelle altre due). Nelle tre ultime sonate si rileva infatti un medesimo corpus di idee tematiche e di figure di accompagnamento. La gestazione della Sonata per clarinetto fu complessa. Nell'agosto 1959 Poulenc comunica a Douglas Gibson delle Edizioni Chester di aver composto un Andante, ma la composizione dell'opera si protrasse fino al gennaio 1963: Poulenc aveva infatti questa sonata nel suo studio il 30 gennaio 1963, giorno della sua morte, e aveva promesso di inviare la partitura definitiva all'editore da lì a pochi giorni. Nell'autunno del 1959 Poulenc interrompe la scrittura delle due sonate per concentrarsi sul Gloria e riprende i suoi progetti nel febbraio 1962. Durante l'estate, tra Brive e Noizay, vede la luce la Sonata per clarinetto e pianoforte che dedica alla memoria di Artur Honegger e anche completa la Sonata per oboe e pianoforte dedicata a Sergej Prokofiev: «Ho i legni nel sangue» scrive contento a Simone Girard nel sentire di aver trovato una propria modalità espressiva per gli strumenti a fiato. Le due partiture, quasi due sorelle gemelle, saranno ultimate a metà novembre. Gli interpreti francesi si sono sempre riferiti alla tradizione esecutiva riportata da André Boutard, solista delle orchestre parigine (Société de Concerts, Opéra-Comique) che aveva studiato la Sonata con Poulenc e aveva tenuto la prima esecuzione francese accompagnato da Jacques Février (che fu per tutta la vita quasi un alter ego dello stesso Poulenc al pianoforte). Ma furono Benny Goodman e Leonard Bernstein a presentare la Sonata in prima assoluta alla Carnegie Hall il 10 aprile 1963, come promesso dall'Autore. Il primo movimento riunisce caratteri opposti: la malinconia della Sonata per flauto e la tragedia della Sonata per violino. Lo stacco d'umore (nella girandola espressiva del comporre “per ripetizioni” incessantemente variate con mille giochi di sfumature espressive) è così fievole che si percepisce appena. La Romanza inizia placidamente elegiaca e, dopo un lamento stridente, sfoga in una grande frase vocale, ove pensieri e nostalgie si avviluppano in fasi circolari. L'ultimo movimento ingloba in sé il carattere dello Scherzo e del Finale: il solista, se nel primo motivo pare in affanno, nel secondo scalpita, si diverte; una frase lirica passa come l'apparizione di una bella creatura; poi una strizzatina d'occhio alle opere della giovinezza (una piccola citazione della Rapsodie nègre, qualche accordo ripetuto à la manière de Stravinskij); infine la cadenza finale che pare ridicolizzare le movenze tipiche di ogni “cadenza” e quasi fischiettare marameo.

Witold Lutoslavski Grave: Metamorphoses (1981)

Cinque anni dopo la composizione del Concerto per violoncello (1969/70), Lutos?avski scrisse un breve brano per violoncello solo (le Sacher Variations, 1975), per poi ritornare un ultima volta a questo strumento nel 1981 componendo Grave: Metamorphoses per violoncello e pianoforte, di cui preparò l'anno seguente una seconda versione per violoncello e orchestra d'archi. Lutos?avski era un amico intimo del musicologo polacco Stefan Jaroci?ski, scomparso nel 1980. Oltre ad essere un eminente studioso della musica di Debussy, Jaroci?ski curò nel 1967 la prima pubblicazione di un volume con interviste e di scritti di Lutos?avski. Il grande compositore polacco sentiva la musica di Debussy come appartenente al proprio patrimonio ancestrale e, per l'unica volta nella sua vita (se si escludono brani di ascendenza popolare), concepì un suo lavoro su elementi di un'opera di un altro compositore. Per onorare la memoria di Jaroci?ski scelse le quattro note iniziali di Pelléas et Mélisande che il violoncello espone all'inizio, lentamente, “senza tempo”, quasi come un “antefatto” alla storia che si andrà raccontando: il mondo fantastico dell'opera debussyana viene per un momento evocato ma subito fagocitato in un flusso melodico vorticoso e libero. La sequenza di apertura di Pelléas et Mélisande (con il suo caratteristico intervallo di quarta) viene riproposta in tutte le possibili varianti costruttive pur senza alcuna reminiscenza estetica. Con un pregevole coup de théâtre il brano si conclude con tre riesposizioni dell'amata sequenza: la prima volta quasi un grido dello strumento solista che va spegnendosi in una serie di echi sempre più acuti: l'ultimo, di esasperante lentezza, è appena colorato da una armonia spettrale del pianoforte. Se da un lato l'opera ha un assetto formale e un'energia ritmica che ricordano la produzione di Lutos?avski dei primi anni '50, dall'altro la raffinatezza della scrittura svela trent'anni di magistrale artigianato compositivo.

Benjamin Britten Reveille (1937)

Tra il 1935 e il 1940 Britten scrisse tre lavori per il violinista spagnolo Antonio Brosa. Tra la Suite op. 6 e il Concerto per violino e orchestra si inserisce, nel 1937, la composizione di uno studio da concerto che prende il nome di Reveille, un lavoro che coniuga le caratteristiche del brano da salotto ad abbaglianti slanci virtuosistici. Il titolo si riferisce ironicamente al fatto che Britten al mattino amava alzarsi molto presto, mentre Brosa era decisamente un dormiglione. La musica di Britten sembra finalmente riuscire nel suo scopo (quello di risvegliare il violinista!) solo alla fine del brano, con una inattesa coda, volutamente rudimentale e meccanica, che conduce repentinamente dalla tonalità di la minore a quella di la maggiore. L'architettura di Reveille pare un raffinato, quasi timido, tentativo di far sbocciare un nuovo delicato panorama sonoro. La parte del violino, molto complessa, mostra alcune curiose affinità con la scrittura per archi di Szymanovski: si sviluppa cromaticamente con ampio uso di doppie corde, glissando, tremoli e pizzicati simultanei da eseguirsi con la mano sinistra. Eludendo marcatamente la consuetudine dei brani da concerto che di norma affida al pianoforte un ruolo di sostegno armonico della parte solistica, Britten scrive una parte pianistica costituita in moduli di scarne figure accordali, a lungo ripetuti, che seguono un percorso armonico del tutto indipendente e sembrano morfologicamente richiamare l'estrema semplicità di uno dei primi pezzi per bambini.

Cornelius Cardew Volo Solo (1965)

Così ne parla l'autore in una nota alla partitura: «Volo solo è stato scritto a Roma nel febbraio 1965 per soddisfare la richiesta da parte di John Tilbury di un brano virtuosistico. Il brano ripercorre l'intero schema formale di Treatise traslato in un contesto di altezze 'ben temperate' (con leggere varianti connesse con la scrittura degli intervalli, che figurano in Treatise in forma numerica). La prima esecuzione è avvenuta il 19 febbraio 1966 all' American Artists' Centre a Parigi da parte mia e di John Tilbury su due pianoforti, di cui uno preparato». Treatise è una imponente partitura grafica di grande impatto visivo scritta - afferma sempre Cardew - «perché ogni musicista proponga la propria musica e lo faccia come sua risposta personale alla mia musica, che non è altro che la partitura stessa». Volo solo (rivolto a strumentisti virtuosi di qualsiasi strumento) è una sorta di risposta di Cardew a se stesso, cioè alla sua stessa partitura grafica, realizzata questa volta in notazione tradizionale: si compone di strutture di altezze (di variabile lunghezza: da una sola a poche altezze, a strutture anche molto lunghe e complesse) che raramente risultano tutte eseguibili persino su uno strumento a tastiera. L'esecutore dovrà delimitare con due linee orizzontali da tracciarsi in partitura il range possibile per il suo strumento e suonare, in quel range, il maggior numero di altezze, nel tempo più veloce fisicamente possibile. La presenza pressoché costante (quantomeno nelle strutture più articolate) di note pedale continuamente ribattute hanno indotto Malcom Barry a parlarne come di un «pezzo tonale»: condivisibile o meno il giudizio di Barry svela il desiderio dell'Autore di accogliere le tecniche sperimentali in una cornice tonale e a volte perfino modale; desiderio del resto facilmente spiegabile considerando la direzione di ricerca di una “musica condivisa” in cui Cardew si muoveva, socialmente e politicamente, verso la fine degli anni '60. Come afferma David Bedford l'estetica di Cardew accoglieva l' indeterminatezza non come «una nuova tecnica compositiva che ne rimpiazzava un'altra ormai screditata»; ma come «la logica espressione musicale della sua umanità». E dunque, come precisa John Tilbury, egli teneva a «definire sottilmente l'area emozionale, fisica, psicologica, storica in cui doveva operare l'esecutore», nel tentativo costante di liberarsi dai vincoli dell'estetica deterministica della Scuola di Darmstadt: dunque interessarsi «sempre meno al bello artificiale e sempre più agli altri e alle loro capacità di creare la propria musica».