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Sabato 2 novembre 2013, ore 20.00
Gran Teatro la Fenice, Sale Apollinee

Emozionante semplicità

«Il virtuosismo nasce spesso da un conflitto, da unatensione fra l'idea musicale e lo strumento, fra il materiale e la materia musicale. […] Il virtuoso di oggi è un musicista capace di muoversi in un'ampia prospettiva storica e di risolvere le tensioni tra la creatività di ieri e di oggi. Le mie Sequenze sono scritte, sempre, per questo tipo di interprete (non ho interesse né pazienza per gli specialisti di musica contemporanea), il cui virtuosismo è, innanzi tutto, un virtuosismo di consapevolezza.»
Luciano Berio, 1981

Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Rossana Calvi oboe
Carlo Lazari violino
Carlo Teodoro violoncello
Daniele Roi clavicembalo

Preludio critico di Valentina Confuorto

Luciano Berio (1925-2003)
Rounds (1965), per clavicembalo

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Concerto in re maggiore RV 94
per flauto, oboe, violino e basso continuo
Allegro - Largo - Allegro

Luciano Berio (1925-2003)
Sequenza I (1958) per flauto

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Concerto in re maggiore “Del Gardellino” RV 90
per flauto, oboe, violino e basso continuo
Allegro - Largo - Allegro

Luciano Berio (1925-2003)
Les mots sont allés … (1976/9) recitativo per violoncello

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Concerto in re maggiore “La pastorella” RV 95
per flauto, oboe, violino e basso continuo
Allegro - Largo - Allegro

Luciano Berio (1925-2003)
Sequenza VIII (1976/7) per violino

Antonio Vivaldi (1678-1741)
Concerto in sol maggiore RV 101
per flauto, oboe, violino e basso continuo
Allegro moderato - Largo - Allegro

«Incipit sequentia sequentiarum,
qua est musica musicarum secundum Lucianum.»

(Edoardo Sanguineti, epigrafe introduttiva alle Sequenze)

La frase di Berio che introduce il tema di questa serata invita ad un'indagine sul significato della parola “virtuosismo”. Il concetto, se per brevi periodi della storia della musica è stato legato allo stereotipo della mera dimensione dell'esibizione tecnica, ritorna fortemente ad acquisire il valore di stimolo a nuove possibilità di scrittura ed espressione. Secondo la visione di Berio, il virtuosismo origina in una tensione dialettica tra l'idea così come si configura nella mente di un compositore e le sue possibilità di realizzazione tecnico-espressiva. Berio è in sostanza convinto che spetti al compositore svelare quelle “doti naturali” (nascoste o sottovalutate) dello strumento o degli strumenti che devono tradurre l'idea in suoni, cogliere cioè il punto di equilibrio “virtuosistico” tra l'aspirazione all'assoluto e la limitatezza che condiziona la materia. L'articolazione sofferta dell'Idea quasi imprigionata nella materia sonora, viene “liberata” nella fisicità dello strumento, dalle sue peculiarità timbriche e tecniche. Un esempio sommo di questa ricerca, in cui il virtuosismo investe simultaneamente compositore ed esecutore, è il trattamento della polifonia nelle Sequenze: essa appare in forme diverse: come polifonia reale (scrittura a più voci), virtuale (trattamento di monodie con ripetizioni a distanza, ritorno su altezze fisse, somiglianza di strutture) o “polifonia di eventi”, nel caso di sovrapposizioni di più polifonie, ognuna della quali tratta un proprio ambito parametrico (ad esempio successioni di altezze, di intensità, di modalità timbriche). Un virtuosismo -scrive Stefano Scodanibbio- «lontano dai virtuosismi ascetici o atletici (peraltro rispettabilissimi), erede della grande tradizione classica (sappiamo ad esempio quanto Berio amasse Paganini) ma che ha inglobato tutte le conquiste più felici dell'avanguardia per metterle in gioco in una dialettica serrata e avvincente (ma anche problematica e interrogativa)». Le Sequenze sono caratterizzate da una teatralità talora esplicitamente evocata, talora implicita nella vita del suono: un “teatro senza scena” che ha suggerito il parallelismo con la musica di Vivaldi i cui attributi di freschezza, fisicità, facilità di dizione sono essi stessi “teatro”. Occorre anche ricordare che le destinatarie del virtuosismo vivaldiano erano le ragazze orfane, trovatelle, illegittime o povere, di maggior talento tra le “figlie di coro” dell'Ospedale della Pietà di Venezia. Le “dive” della Pietà, considerate al livello dei maggiori virtuosi del tempo, erano escluse dall'ambiente degli esecutori di professione (eccetto il caso delle cantanti) e non avevano in realtà altra scelta che rimanere alla Pietà per esibirsi nelle frequenti esecuzioni che costituivano il maggior introito dell'Istituto. La frequentazione ventennale di queste musiciste è stata senz'altro un forte stimolo per lo sviluppo del virtuosismo vivaldiano. Il loro equilibrio tecnico-espressivo era senz'altro di natura molto diversa da quella del virtuoso di oggi: le ragazze provavano su se stesse, ogni giorno, tutti i limiti che la società le imponeva, è vivevano la musica -afferma Clemente Rebora riferendosi al pensiero di Leopardi- come un'arte «in cui l'assoluto converge col relativo», dunque esplorando quel territorio vago e indefinito (ampiamente trattato da Leopardi nella “Teoria del piacere”) che individua in determinate sensazioni -come ad esempio un ostacolo che limita la visione o un suono che si allontana- altrettante condizioni da cui traggono origine, complice l'immaginazione, effetti d'infinito, di ricordanza, di rimembranza. Confidiamo questa sequenza di opere virtuosistiche rappresenti un esempio di ascolto significativo per indagare come il materiale, il relativo, il finito schiuda nella mente di chi ascolta l'ideale, l'assoluto, l'infinito della musica di Luciano Berio e Antonio Vivaldi.

Antonio Vivaldi
Concerti RV 94,“Del Gardellino” RV 90, “La pastorella” RV 95, RV 101

Nel 1720, durante il suo ultimo soggiorno a Mantova Vivaldi si guadagnò il ruolo di «Maestro di Musica da Camera del Langravio Philipp de Hesse-Darmstadt»: aveva finalmente trovato la protezione aristocratica che gli mancava. Come a tutti i compositori della sua epoca la vita della corte gli imponeva di servire i mecenati e dunque di comporre opere convenienti a diverse circostanze: balli, riunioni di amici, avvenimenti politici, ricevimenti importanti. Non si deve pensare che tali forme occasionali costituissero episodi minori o “di routine”, potevano anzi rivelarsi momenti di sperimentazione personale, e dunque presentare significative innovazioni stilistiche. E' possibile che proprio a Mantova Vivaldi sperimenti una nuova forma di concerto: il concerto da camera. Non sono opere destinate alla pubblicazione, ma brani scritti per ensemble ben definiti, come la cappella musicale di Mantova, o le putte della Pietà, o ancora i musicisti della cappella sassone. Il fatto che queste composizioni cameristiche, mai pubblicate quando Vivaldi era in vita, siano giunte fino a Dresda e a Parigi, rende probabile che si trattasse di opere molto note nelle corti europee. L'organico strumentale è composto da un flauto (dritto o traversiere), un oboe, un violino, un basso e il continuo. Il traversiere entrò probabilmente in uso a Venezia attraverso gli ambienti germanici, dove era molto diffuso, come appunto la corte di Mantova, allora posta sotto la protezione degli Asburgo e governata da un langravio tedesco. Sono una ventina i concerti conosciuti che possono essere posti nella categoria concerto da camera, per la maggior parte conservati nel fondo Giordano a Torino, in forma autografa. Secondo Michael Talbot «non vi sono altri esempi del genere in Italia». In un concerto da camera tutte le parti sono obbligate e suonano all'unisono solo per produrre un particolare effetto timbrico. Non è sempre semplice distinguere un concerto da camera da altri tipi di musica da camera: il Trio RV84 ad esempio viene citato da alcuni autori come un concerto e da altri come una sonata, dato che il manoscritto originale è privo di indicazioni. Di fatto - come anche nella produzione coeva di Bach - intorno al 1730 la scrittura che si ispirava alla forma del concerto stava trovando la sua strada in molti distinti generi strumentali, dalle invenzioni a due parti fino a fughe corali e strumentali. Unendo le esperienze del concerto solistico e del concerto grosso Vivaldi affronta la problematica dell'abolizione del solista nel Concerto ripieno, rinunciando dunque ad un elemento essenziale della forma: l'utilizzo di una strumentazione che ponga in contrasto diversi volumi sonori per caratterizzare l'alternanza fra il Solo e il Tutti. Lo schema è quello della forma-ritornello, dove i ritornelli sono quasi sempre eseguiti da tutti gli strumenti mentre nei Solo emergono strumenti singoli. Talvolta i ritornelli sono strutturati come nelle Sonate a tre: in tal modo le opere appartenenti a questo gruppo risultano forme ibride fra la musica orchestrale e quella da camera, pur essendo il più delle volte titolate “Concerto”. Secondo Walter Kolneder troviamo sostanzialmente tre tipologie di concerti da camera: un primo modello (ad esempio il Concerto RV92) contrappone un ritornello (generalmente esposto per intero all'inizio, poi abbreviato) ad assoli dei diversi strumenti solisti, mantenendo la dialettica solo-tutti. Si può delineare un secondo modello (ad esempio il Concerto RV103) dove un solo strumento (quasi sempre il traversiere) acquisisce un ruolo solistico predominante. In un terzo modello (ad esempio nel Concerto RV105) il ritornello diventa un elemento formale di notevole importanza nel quale i singoli episodi sono già affidati ai solisti o a coppie di strumenti associati timbricamente. L'elemento concertante è dunque entrato nel ritornello, dandogli luce con la diversità dei timbri ma, in sostanza, anche dissolvendolo. La brevità delle proposizioni musicali alternativamente affidate ai vari gruppi solistici rende questa forma assai simile a un concerto grosso. Anche se i movimenti veloci dei concerti da camera di Vivaldi fanno tutti uso della struttura a ritornello, il materiale melodico viene ripetuto in forma selettiva, in alcuni casi presentandolo nella sua forma completa solo all'inizio del movimento. Per superare semanticamente l'alternanza fra solisti e orchestra nell'esprimere la distinzione fra solo e tutti Vivaldi iniziò a sostituire la ripetizione del da capo della prima sezione dell'aria con una sezione che ritorna alla tonalità d'impianto composta espressamente. Alcuni concerti da camera presentano infatti cambiamenti di strumentazione nei dintorni dei ritornelli e degli episodi solistici, traslando il necessario momento di contrasto fra questi elementi sul piano delle caratteristiche melodiche e armoniche: i temi dei ritornelli, energici e fortemente caratterizzati diventano dunque punti di riposo armonico, mentre i soli, spesso virtuosistici, basati su sequenze modulanti, consentono frequenti cambi tonali. La notevole variabilità formale espressa nel corpus dei concerti da camera, dimostra con quanto impegno Vivaldi affrontasse i problemi e le possibilità strutturali del Concerto per solisti senza orchestra. Organici così intimi suggerivano talvolta al compositore tempi centrali assai brevi ma molto intensi ed espressivi, tipicamente presenti nelle Sonata a tre, spesso affidati ad un solo strumento solista. In simili casi Vivaldi si volgeva evidentemente a ricordare la propria produzione sonatistica degli anni giovanili. Secondo Talbot: «le qualità che maggiormente possiamo ammirare nei concerti da camera «sono le raffinatezze timbriche e l'intuizione del linguaggio naturale di ciascuno strumento. Sono più prossimi alla moderna ispirazione della musica da camera di qualunque altra composizione vivaldiana.» Quanto Vivaldi tenesse a queste forme di concerto che potremmo definire “ibride” o “sperimentali” è testimoniato dal fatto che sia il Concerto RV90“Del Gardellino” che il Concerto RV101, furono poi riadattati nella formula del concerto solistico ed entrarono a far parte dello op. 10 “VI Concerti a flauto traverso” pubblicati ad Amsterdam dall'editore Le Cène, nel 1729. Un altro rilievo importante riguarda l'adagio del Concerto RV 94, che risulta essere una versione abbreviata dell'Adagio del Concerto RV297 “L'inverno” pubblicato anch'esso ad Amsterdam nel contesto dell'op. 8 “Il cimento dell'armonia e dell'invenzione” nel 1725.

Luciano Berio Sequenza I (1958)

«e qui comincia il tuo desiderio, che è il delirio del mio desiderio:
la musica è il desiderio dei desideri»
(Edoardo Sanguineti)

Sequenza I è costruita a partire da una sequenza di campi armonici, dai quali scaturiscono con un massimo di caratterizzazione le altre funzioni musicali. In Sequenza I viene precisato e sviluppato melodicamente un discorso essenzialmente armonico fino a suggerire un ascolto di tipo polifonico. Nel 1958 utilizzavo il termine polifonico in senso letterale, e non in senso virtuale, come invece tenderei a fare adesso lavorando con strumenti monodici. Volevo cioè raggiungere un modo di ascolto così fortemente condizionante da poter costantemente suggerire una polifonia latente e implicita. Sequenza I è stata composta nel 1958 per Severino Gazzelloni. (Luciano Berio)

«L'opera dà a tutta prima l'impressione di un flusso sonoro abbondante, di grande volubilità. Alcuni tratti caratteristici, tuttavia articolano questo continuum, non essendo più il virtuosismo collegato alla rapidità dell'articolazione digitale, bensì alla padronanza dei diversi gradi di organizzazione dell'opera, che vengono incessantemente modificati. […] Berio non mantiene delle entità stabili, che presenterebbero sempre le medesime caratteristiche. Ogni evento è già di per sé un organismo complesso, i cui elementi possono essere dissociati, sviluppati, combinati in modi diversi […] Cosicché la dimensione quasi motivica delle figure del gruppo di partenza è spesso occultata dal processo di sviluppo: proliferazioni melodico-armoniche, trasposizioni letterali o trasformate nei rapporti di tessitura, modificazioni delle modalità esecutive. […] La dialettica compositiva si instaura tra continuità e discontinuità, tra trame ristrette e allargate, tra cromatismo e scala per toni interi, tra i differenti modi di articolazione, ma anche tra ciò che viene registrato dalla memoria e la coerenza profonda che ad essa sfugge: è su questa dialettica che si fonda la teatralità dell'esecuzione, questa specie di dialogo all'interno stesso del brano che appare come la proiezione del rapporto tra il musicista e il suo strumento, tra l'immaginazione convenzionale dello strumento e l'originalità dell'opera di Berio» (Philippe Albèra, 1993)

Luciano Berio Sequenza VIII (1976/7)

«ho moltiplicato per te le mie voci, i miei vocaboli,
le mie vocalìe grido, adesso, che sei il mio vocativo»
(Edoardo Sanguineti)

«Comporre Sequenza VIII è stato per me come pagare un debito personale al violino, che considero uno degli strumenti più permanenti e complessi che vi siano. Se quasi tutte le altre mie Sequenze sviluppano all'estremo una scelta molto ristretta di possibilità strumentali e di comportamenti del solista, Sequenza VIII presenta un'immagine più ampia e più storica dello strumento. Sequenza VIII si appoggia costantemente su due note (la e si) che, come in una ciaccona, costituiscono la bussola nel percorso piuttosto diversificato ed elaborato del pezzo, in cui la polifonia non è più virtuale, come in altre Sequenze, ma reale. E' così che Sequenza VIII diventa anche, inevitabilmente, un omaggio a quel culmine musicale che è la “Ciaccona” dalla partita in re minore di Johann Sebastian Bach, in cui coesistono tecniche violinistiche passate, presenti e future. Sequenza VIII è stata scritta nel 1976 per Carlo Chiarappa.» (Luciano Berio)

«L'opera sfrutta tutti i gesti tipicamente violinistici, abbracciando la totalità delle potenzialità dello strumento […] e propone un discorso molto omogeneo, quasi narrativo. Questo elemento di narrazione (o, se si vuole, lo sforzo di ritrovare una continuità del discorso musicale, segnatamente, per mezzo delle iterazioni) è basato su una caratterizzazione molto netta dei differenti elementi utilizzati e delle diverse sezioni del pezzo. Ogni figurazione, infatti, possiede una grande pregnanza e la memoria la registra facilmente; gli sviluppi, d'altra parte, presentano una grande organicità, come se gli elementi girassero perpetuamente su se stessi» (Philippe Albèra, 1993)

Luciano Berio Rounds (1965)

Con le parole di Luciano Berio: «Rounds si scinde in quattro segmenti, eseguiti dapprima con registrazioni contrastanti. La partitura viene poi capovolta, provocando in questo modo dei cambiamenti di altezze e di timbro; successivamente l'interprete la riporta nella posizione iniziale, eseguendola però con un tempo più rapido. In questa composizione tutte le possibilità offerte dal clavicembalo sono sfruttate: effetti di pedale, clusters, registrazioni di liuto. Rounds è una specie di fuoco d'artificio di linee e timbri, confusi e ramificati all'infinito.» La versione originale per clavicembalo del 1965 si inserisce nella ricerca di forme “aperte”, tipica degli anni '50 e '60: la rotazione del foglio rimanda a procedimenti cari all'avanguardia di quegli anni. Nella più tarda versione pianistica (1967) Berio rinunciò alla forma aperta effettuando una trascrizione nella quale la struttura tripartita ABA è scritta e non più determinata dalla rotazione della partitura. Come rileva Ivanka Stoianova, in Rounds Berio annulla tutte le istanze centralizzatrici come la tonalità, il tematismo ed il funzionalismo formale. Per questo l'ascolto di Rounds si rivela particolarmente emblematico: anche se siamo in grado di identificare i criteri alla base dell'articolazione del lavoro, i principi che regolano le incessanti micro-trasformazioni ci rimangono inevitabilmente oscuri, succedendosi i materiali musicali con vorticoso, implacabile vitalismo. Per volontà stessa dell'Autore si creano dunque dei “cortocircuiti interni” tra figure musicali che mettono a dura prova la nostra “memoria dell'ascolto”. Berio vuole dunque invitarci ad entrare in una forma di ascolto “labirintico” caratterizzato dalla perenne sensazione di aver “già sentito” determinati materiali, ma anche dal dubbio incessante di esserci sbagliati!

Luciano Berio Les mots sont allés … (1976/9) recitativo per violoncello

Nel 1976 Mstislav Rostropovitch, per festeggiare il 70° compleanno di Paul Sacher (1906-1999) sollecitò dodici compositori di diversi orizzonti stilistici a raccogliere una serie di brevi opere per violoncello in omaggio alla più importante figura di mecenate per la musica del XX secolo. I dodici brani non pretendono di avere un'unità stilistica ma, al contrario riflettono l'ecumenismo di Sacher: pur essendo unificata dal motivo generatore fornito dalla trascrizione in notazione anglosassone del nome Sacher (Es=mi bemolle, A=la, C=do, H=si, E=mi, completato da un Re nella notazione neolatina), la raccolta è caratterizzata dal principio della “variazione”. Luciano Berio, uno dei compositori invitati da Rostropovich, compose per l'occasione un recitativo per violoncello: Les mots sont allés … Una traduzione -un po' libera, ma significativa- potrebbe essere “Le parole scomparvero”, titolo scelto come probabile metafora per descrivere il processo di trasformazione graduale che Berio realizza nel corso del pezzo facendo “scomparire” le sequenze di note (che simboleggiano le combinazioni fonetiche della parola Sacher) derivate dalle permutazioni intervallari del tema iniziale. L'operazione è condotta enfatizzando gradualmente l'aspetto timbrico dei materiali tratti dal “tema Sacher”(per lo più sfruttando il suono “al ponticello”). Semplificando molto si potrebbe affermare che la discussione fondamentale, che vede da un lato musica strumentale come filiazione della musica vocale (storicamente valida fino a Monteverdi) e dall'altro la musica vocale estensione, alter ego della musica strumentale (come spesso avviene da Monteverdi ai giorni nostri), viene risolta da Berio facendo coesistere queste due tendenze in un “equilibrio miracoloso” che struttura e destruttura incessantemente con processi di “variazione circolare” il soggetto generatore.