domenica 9 dicembre 2012 ore 20.00
Gran Teatro La Fenice, Sale Apollinee


Carlo Lazari violino
Paola Carraro violino (*)
Mario Paladin viola

Preludio critico
di Aldo Orvieto

Sergej Prokofiev (1891-1953)
Sonata op. 115 (1947) per violino
Moderato - Andante dolce - Con brio

Alfred Schnittke (1934-1998)
Praeludium in Memoriam Dmitri Shostakovitch
(1975) per due violini (*)

Giampaolo Coral (1944-2011)
Paesaggio con la caduta di Icaro
(2006) per violino
prima esecuzione assoluta

György Ligeti (1923-2006)
Sonata (1991-1994) per viola
Hora Lunga - Loop - Facsar - Prestissimo
con sordino - Lamento - Chaconne

John Cage (1912-1992)
Chorals (1985) per violino

Bohuslav Martinu (1890-1959)
Tre Madrigali H.313 (1947) per violino e viola
Poco allegro - Poco andante – Allegro

E’ ben noto l’aforisma di Bernardo di Chartres «siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». La cultura, intesa come sapere condiviso e trasmissibile, può evidentemente continuare - userei volentieri il verbo “evolvere” o “progredire” se non fossero termini troppo darwiniani! - soltanto muovendo da ciò che è già conosciuto o si intravede come conoscibile. La trasmissione del sapere musicale nelle culture extraeuropee e in ambito “tradizionale” è stata essenzialmente orale, e i lenti cambiamenti che si sono stratificati attraverso i secoli non consentono purtroppo oggi la creazione di una mappatura sistematica del loro divenire; ben diversamente è avvenuto per la musica definita “colta” che ha abitato l’Occidente nell’ultimo millennio: grazie alla sua codificazione scritta, che ne ha permesso un’ampia diffusione, ne possiamo ricostruire le mutazioni, con cadenza quasi generazionale. Il concerto di stasera, propone una riflessione su come questo enorme bagaglio culturale abbia diversamente influenzato i compositori dal dopoguerra a oggi. Prokofiev ha scritto la sua Sonata op. 115 pensando agli ensemble di allievi violinisti sovietici che usavano eseguire all’unisono sonate del tardo barocco, spesso di Bach e Haendel. La sua opera non abbraccia appieno la struttura e lo stile del periodo, prendendone però a prestito alcune forme e tecniche. Del resto forse oggi fatichiamo a renderci consapevoli che lo stato degli studi filologici di tali repertori nell’immediato dopoguerra proponeva esecuzioni molto particolari, certo lontane dalle nostre attuali. La diffusione e la valenza didattica della musica di Bach, vero e proprio padre ispiratore del mondo musicale russo-sovietico, si esprime anche nel Praeludium di Schnittke, un tombeau in memoria dell’ammiratissimo Shostakovich, basato sul monogramma musicale di Shostakovitch che contrappunta su quello di Bach. La Sonata per viola di Ligeti, vera e propria summa delle molteplici esperienze multiculturali dell’autore, racchiude geograficamente, temporalmente e stilisticamente un’enorme quantità di quasi-citazioni, in uno smisurato coacervo di materia musicale, ora colta e raffinata, ora grezza e informe. Ogni movimento ha un titolo in una lingua diversa e, con sorprendente coerenza, sono accostati stilemi mutuati da musiche antiche di diversa provenienza oltre che modelli folklorici e ispirati al jazz. Fin dal 1947, anno della sua trascrizione del Socrate, John Cage fu molto incuriosito dal “piccolo mondo” della musica di Satie: un ambito formale volutamente ristretto e molto attento alla ricerca timbrica dentro il quale il compositore americano individua la possibilità di uno scavo ancor più “in profondità”, arrivando; in questi Chorals quasi a scarnificare le già poche note dei Douze petits corals di Satie con la sua ricerca microtonale. Concludono la serata i Tre Madrigali di Martinu: come per molte altre sue opere si ha l’impressione di avere tra le mani preziose manifatture nelle quali fanno fugace comparsa frammenti di melodie popolari e di brani antichi di difficile identificazione: materiali dimenticati o inusati, di scarti insomma. Consapevoli che nessuna opera d’arte può essere spiegata come risultato di stratificazioni ridefinite in maniera nuova, concludiamo questa breve nota con una meravigliosa citazione di Jorge Luis Borges «Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare». [Valentina Confuorto]

Sergej Prokofiev Sonata op. 115 La Sonata per violino solo op. 115 fu scritta da Sergei Prokofiev nel 1947; l’indicazione di organico è per violino solo o per violini all’unisono. Non solo quindi è una delle poche sonate per violino non accompagnato del repertorio russo, ma è anche l’unico esempio di sonata scritta con più possibilità di esecuzione, solistica o all’unisono. Inoltre è una tipica composizione “di stato”, essendo stata esplicitamente concepita per degli ensemble «di violinisti sovietici che si esibivano a quel tempo suonando all’unisono opere di Bach, Haendel e altri autori». Le informazioni sulla genesi dell’opera sono scarse, anche perché, dopo la morte del compositore, molti documenti e lettere rimasero in possesso dello stato russo. Non è nemmeno chiaro perché la sonata non fu mai eseguita mentre l’autore era ancora in vita, ma fu ascoltata dal pubblico la prima volta solo nel 1959 a Mosca, con Ruggiero Ricci al violino. La composizione si articola in tre brevi movimenti e si apre con un robusto Moderato in forma sonata, cui fa seguito un breve e ispirato Andante dolce, formato da una serie di variazioni su un tema in Si bemolle maggiore. Il Finale (Con brio), di forma A-B-A-B, giustappone una prima parte in tempo moderato ad una seconda parte più animata (Allegro precipitato); nella terza e nella quarta parte ritornano, modificati, materiali tematici presentati nelle due sezioni precedenti. Questa sonata rivela l’intensa ricerca di Prokofiev nel regno della melodia pura, di lirismo forte abbastanza da stare in piedi senza un supporto armonico complesso. La melodia è raramente ornata da voci in contrappunto, da abbellimenti o da accordi pieni, ma il compositore ha arricchito i temi utilizzando nuove digressioni tonali e impiegando una scrittura a due voci sapientemente occultate nella veste di una scrittura monodica semplice.

Alfred Schnittke Praeludium in Memoriam Dmitri Shostakovitch Una volta Shostakovich aveva definito le sue sinfonie “lapidi” per la storia pubblica e privata della Russia; similmente può essere considerata anche l’opera di Schnittke, come una serie di lapidi non soltanto per la storia russa, ma anche per la storia della musica come bene condiviso. Nell’anno stesso della scomparsa del grande compositore russo, Schnittke compose il Praeludium in Memoriam Dmitri Shostakovitch per violino solista e nastro. L’occasione era stata la richiesta dell’amico violinista Mark Lubotsky di un brano per violino per il suo ultimo concerto a Mosca. Schnittke ne parla con umiltà e ironia: “Mi ero ricordato che avevo scritto il Canone in memoria di Stravinsky in un giorno e così ho deciso di scrivere un pezzo, proprio con questa velocità, in memoria di Shostakovich. E ci sono riuscito.” Nonostante il breve periodo di gestazione e la modesta lunghezza, il Preludium muove da una ricca e complessa idea teatrale, densamente fornita di simbolismo gestuale. Il materiale musicale nasce dallo sviluppo del monogramma musicale sul nome di Shostakovitch, che l’autore stesso aveva utilizzato a partire dalla sua Decima Sinfonia (1953) in poi. Il simbolismo si articola in modo ancora più complesso per l’utilizzo di un altro celebre monogramma, quello sul nome di Bach. E’ una scelta anche pratica perché il monogramma di Shostakovich condivide le stesse ultime due note di quello su Bach, rendendo più semplice così lo sviluppo armonico e tematico del brano. Il Praeludium acquista toni fortemente drammatici anche per altre due importanti consapevolezze: quella che il compositore tedesco ha adoperato il suo monogramma musicale nell’ultimo contrappunto dell’Arte della fuga prima di lasciare questo mondo e il fatto che Bach costituiva una fondamentale figura paterna per Shostakovich, un serbatoio santificato di tecniche musicali e di purezza estetica al quale l’autore russo sarebbe ritornato soprattutto nelle sue ultime opere. L’inserzione della seconda voce conferisce una particolare teatralità al Praeludium. Mentre sulla scena appare solo un violinista non accompagnato, verso la metà del brano si sente l’entrata di un secondo violino, invisibile. Schnittke scrive che questa parte può essere eseguita sia dal vivo da un altro violinista amplificato, sia dal medesimo esecutore, preventivamente registrato; in entrambi i casi, è d’obbligo l’invisibilità di questa seconda voce, come un’onnipotente, onnipresente apparizione. Con le parole dello stesso compositore, «il tema BACH appare come una sorta di “voce oggettiva”, che si impone su tutto il materiale precedente, che assorbe tutto in sé, compreso il motivo DSCH. Avviene una sorta di “ritorno alle origini”.» Non si tratta dunque di usare i monogrammi per mettere a confronto i due grandi compositori, è piuttosto una sorta di genealogia musicale, un tracciato di inestricabili radici creative di fronte alla caducità umana, quasi una dichiarazione di consustanzialità, del figlio dentro il padre.

Giampaolo Coral Paesaggio con la caduta di Icaro Giampaolo Coral ha avuto un rapporto molto intenso con la pittura. Disse a questo proposito: «se non riesco ad esprimermi con la musica, lo faccio con la pittura». E’ la grande pittura che lo ha spesso ispirato, da Albrecht Dürer a Hieronymus Bosch e a Pieter Bruegel, dal simbolismo di Arnold Böcklin all’espressionismo di Alfred Kubin fino all’astrattismo di Paul Klee e ai pittori del XX secolo. Il paesaggio con la caduta di Icaro, composto nel 2008, si ispira al famoso quadro di Pieter Bruegel il Vecchio (ca. 1550) e fa parte di un ciclo più ampio, tra cui Icaro per flauto e violino/clarinetto, Variationen per violino e pianoforte, Icaro II Epilogo per violino, clarinetto e pianoforte. Le prime opere dedicate a questa figura mitologica cretese seguono il volo verso il cielo del figlio di Dedalo, un’impresa che simboleggia l’ambizione (hybris) dell’uomo di raggiungere i limiti estremi, mentre l’ultima composizione di questo ciclo rappresenta l’epilogo tragico dell’impresa, la caduta dell’eroe dopo che il sole ha fuso la cera delle sue ali. Il pittore olandese ha scelto questo momento per il suo quadro, rappresentando l’infausta figura con dimensioni piccolissime che, ormai quasi inghiottito dal mare, lotta ancora disperatamente contro le onde: tale drammaturgia trova un preciso riscontro nell’andamento turbinoso e angosciato del brano musicale. In generale Coral era affascinato dall’elemento dell’acqua, che lo ha spesso attratto, sia come fonte di serenità come ad esempio nel gioco delle ninfe di un quadro di Arnold Böcklin (Variationen über ein Bild von Arnold Böcklin - Il gioco delle Naiadi), sia come metafora per la morte nell’Isola dei morti, sempre di Böcklin, oppure in Versinken (A fondo) di Alfred Kubin o ancora nel Paesaggio con la caduta di Icaro. In quest’opera Coral è rimasto particolarmente impressionato dal contrasto tra una scena tranquilla – com’è tranquillo lo specchio d’acqua - e l’estraneità al dramma del singolo individuo, al quale nessuna delle figure rappresentate sembra dedicare attenzione. [Monika Verzár Coral]

György Ligeti Sonata (1991/94) Complessa ed emblematica, la Sonata per viola di Ligeti racchiude già nella scelta dei titoli l’idea di un programma musicale pan-nazionale, legato alla tradizione e innovativo al contempo. Il primo movimento (Hora lunga) è in rumeno, il secondo in inglese (Loop), il seguente ungherese (Facsar), mentre il quarto (Presto con Sordino) e il quinto (Lamento) sono in italiano e l’ultimo è francese (Chacconne Chromatique); il titolo dell’intero pezzo, invece, è in tedesco (Sonate). La Sonata segue il modello di una sonata da chiesa barocca - derivata dal modello bachiano - in cinque movimenti, pur essendo, sulla carta, scritta in sei. Tuttavia gli ultimi tre movimenti sono da eseguirsi di seguito, quindi possono essere considerati come un unico movimento veloce con una sezione lenta all’interno. Hora Lunga, il primo movimento è forse il più grande peana scritto per uno strumento ad arco. Il titolo significa ‘lenta danza’, ma nella tradizione rumena è in realtà un canto malinconico; l’elemento folklorico è qui soltanto un pretesto per una composizione sapiente e di esecuzione ardua, nella quale nemmeno una volta l’esecutore può lasciare la corda del do grave, anche in presenza delle armonie più acute. I restanti cinque movimenti dell’opera continuano a realizzare ciò che Ligeti stesso chiamava “la stranezza dell’intera Sonata”. Il secondo movimento, Loop, è un esercizio jazz di “contorsionismo musicale”: il materiale si trasforma incessantemente in una selvaggia evoluzione; ad ogni cambio di accento e di pattern della melodia principale, è associato però un cambio di “bordone”, tra le corde vuote della viola. Il seguente Facsar si riferisce alla sensazione che si prova al naso prima di scoppiare a piangere; con il suo equilibrio precario tra lo stile della ballata folk i difficilissimi tripli e quadrupli arpeggi, ispira paura e disagio. I due movimenti successivi scardinano il già precario asse della Sonata: il Presto è un susseguirsi vorticoso di acrobazie che si conclude inaspettatamente con accordo risolutivo, mentre il Lamento è un gemito congelato in alte esplosioni isteriche e silenziose. Infine, la Chaconne Chromatique supera il genere barocco al quale allude, diventandone quasi una parodia.

John Cage Chorals Nel 1975 il violinista Paul Zukofsky venne a sapere che John Cage era tornato a un tipo di notazione più convenzionale dopo un periodo di indeterminatezza grafica e sperò che il compositore scrivesse nuovi brani per violino. L’incontro tra i due avvenne l’anno successivo e l’intesa fu buona, tanto che nacque l’idea per una serie di nuove opere. Il principale risultato di questa collaborazione, i Freeman Etudes, furono preceduti da esperimenti di Cage per esplorare a fondo le potenzialità del violino. Nacquero così Cheap Imitation e i Chorals. Cage ha descritto questa sua attività in termini di meraviglia e di scoperta: «sotto la tutela del paziente Zukofsky non imparo a suonare il violino, ma a sbalordirmi per la sua flessibilità quasi illimitata.» I Corali traggono origine dai Douze petits corals di Erik Satie, che Cage già aveva adoperato per il suo Song Book nel 1970 trasformandoli in maniera microtonale. L’originale partitura pianistica di Satie viene riscritta da Cage pensando alla voce, dunque sovrapponendo all’originale un “pentagramma trasparente” che gli consentiva di evidenziare meglio le altezze che sullo strumento temperato risultano omofone (ad esempio re#/mib), ma che in realtà svolgono differenti funzioni tonali e conseguentemente richiedono diversa intonazione. Nella versione per violino Cage ritorna ad una notazione convenzionale, pur non indicando l’armatura di chiave e le stanghette divisorie delle battute; la partitura è ricca di alterazioni e doppie alterazioni, per consentire un’esecuzione “relazionale” – dunque più precisa - dei microtoni; evidentemente Cage teneva molto al controllo dell’intonazione dei microtoni che debbono risultare ben differenziati. Il suggerimento di Zukofsky era infatti quello di «creare una musica continua composta però da elementi sonori distinti: singole altezze, unisoni [prodotti suonando la medesima nota su due corde], battimenti [unisoni leggermente stonati]». Per determinare l’alternanza di questi elementi Cage ha utilizzato, come in altri brani, un’operazione di calcolo casuale basata sugli I Ching. Tuttavia l’ascoltatore resta sbalordito quando si accorge, ad esempio, che nel corso dell’intero primo brano la musica ondeggia nello spazio di una seconda maggiore, creando modificazioni timbriche che assomigliano alle ombre di un caleidoscopio che cerca il fuoco giusto. Questi procedimenti conducono l’udito a farsi particolarmente ricettivo alle minime differenze di altezza: in tal modo accade che l’intervallo dissonante con cui inizia il secondo Corale ferisce l’orecchio. I brani si articolano in una tessitura di poco superiore all’ottava, raggiungendo il culmine nel quarto e nel quinto Corale; tuttavia i mutamenti di registro seguono un percorso molto lineare, che risulterà ben evidente all’ascolto.

Bohuslav Martinu Tre Madrigali (1947) Martinu subì durante tutto il corso della sua carriera il fascino dei madrigali, le composizioni vocali che durante il Rinascimento traslavano in musica le più belle poesie coeve o del passato; il compositore ceco scrisse numerose opere con la parola ‘madrigale’ nel titolo, pur trattandosi di opere strumentali: Quattro madrigali (1937) per oboe, clarinetto e fagotto, Otto madrigali (1939) per voce e pianoforte, Madrigal Sonata (1942) per pianoforte, flauto e violino, Cinque madrigali (1943) per violino e pianoforte, e Cinque madrigali cechi (1948) per voce e pianoforte. Nel 1946 il compositore era caduto da un balcone a Tanglewood ed era stato in forte pericolo di vita, essendosi ferito alla testa. Ne seguì una difficile convalescenza e la decisione forzata di stabilirsi negli Stati Uniti, nonostante il forte desiderio di tornare in patria. I Tre madrigali per violino e viola furono composti tra il gennaio e il febbraio del 1947, in questo periodo di riabilitazione e riflessione. Martinu aveva da poco assistito ad una esecuzione dei duetti per violino e viola di Mozart, con Joseph Fuches al violino e la sorella Lilllian alla viola. Con i due musicisti, che aveva conosciuto alla Mannes School, Martinu stette in rapporti di amicizia per tutta la vita, dedicando loro, oltre ai Tre madrigali, diverse composizioni. I due fratelli li eseguirono per la prima volta affiancandoli ai duetti di Mozart e ricevendo l’accoglienza calorosa del pubblico. Virgil Thomson definì i brani sul New York Herald Tribune «una delizia per la fantasia musicale, per la figurazione geniale e per l’evocazione dello stile rinascimentale». Un altro recensore trovò questo lavoro «soddisfacente in un modo misterioso». Destinati ad essere eseguiti di seguito, questi tre brani sono disposti in una struttura “veloce - lento – veloce”, com’era prassi tre secoli prima. I ritmi guida del Poco allegro iniziale alternano il contrappunto imitativo con la struttura omofonica, tra gli echi di melodie popolari. Il secondo lento madrigale è una pastorale in si bemolle maggiore, la tonalità preferita dal compositore; cosparso di trilli introspettivi, sembra quasi una riflessione sulla sua condizione di convalescente scampato alla morte. L’ultimo brano, invece, è vivace, quasi una danza popolare con, a sorpresa, una citazione da Scarlatti. Oltre all’influsso classico, i pezzi rivelano l’attaccamento del compositore all’idioma ceco e la sua lunga fascinazione per la declamazione flessibile del madrigale inglese. L’equilibrio tra gli strumenti è mirabile, si può dire addirittura superiore a quello dei modelli del XVIII secolo che lo avevano ispirato.