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domenica 14 ottobre 2012 ore 20.00 


Gran Teatro La Fenice, Sale Apollinee 


Daniele Ruggieri flauto 
Caterina Pavan flauto (*) 
Carlo Lazari violino 
Annamaria Pellegrino violino (**) 
Aldo Orvieto pianoforte 
Claudio Ambrosini pianoforte (***) 


preludio critico di Valentina Confuorto 

 


"deviazioni linguistiche"

Omaggio all’arte di Sylvano Bussotti 

Sylvano Bussotti (1931) 
Le pietre di Venezia da Fogli d’album 
(1984) per pianoforte e piccole percussioni 
Realizzazione di Claudio Ambrosini 
(2012) (***) 


Claudio Ambrosini (1948) 
Erbario spontaneo veneziano  (2011/12)
per violino e pianoforte 
-Tasso barbasso (Verbascum thapsus) 
-Vitriola (Parietaria officinalis) 
-Dente de can (Taraxacum officinale) 
-Fiorella di barena (Limonium) 
-Trifoglio acquatico (Marsilea quadrifolia) 
-Rosa damascena-Calcatreppola e Salicornia (Eryngium maritimum, Salicornia veneta) 
-Tortulo (Tortulo-Scabiosetum) 
-Finocchio di mare (Crithmum maritimum) 
-Ombelico di Venere (Umbilicus pendulinus) 
-Stciocchetti (Silene inflata) 
-Cimbalaria psicopompa (Cymbalaria muralis) 
prima esecuzione assoluta “Versione Venezia 2012” 


Sergej Prokofiev (1891-1953) 
Sonata in Re maggiore op. 94 (194243) 
per flauto e pianoforte 
-Moderato
- Scherzo: Presto
-Andante
- Allegro con brio


Alfred Schnittke (1934-1998)
Moz-Art (1976) dal Frammento KV 416d
per due violini (**)


Goffredo Petrassi (1904-2003) 
Dialogo angelico (1948)
per due flauti (*) 


Sylvano Bussotti (1931)
12 Folie d’après François Couperin le Grand (2008)  per violino e pianoforte 
Virginité - Pudeur - Ardeur - Esperance - Fidélité - Persévérence 
-Langueur - Coquéterie - Vieux galants et Trésorières suranées - 
Cous Cous Bénévoles - Jalousie -Taciturne - Désespoir 
Prima esecuzione assoluta 

 


Deviazioni linguistiche
secondo Parmenide dare un nome alle cose significa illudersi di 
saper gestire il misterioso rapporto fra il linguaggio e i suoi significati, voler 
prendere possesso del “mondo del non essere”, non rendersi conto che 
esistono solo «cambiamenti di luogo e mutazione del brillante colore». Del 
linguaggio non si può parlare se non col linguaggio. Ancor più per Hans 
Georg Gadamer: «L’essere che può venir compreso è linguaggio». Dunque, 
in questa sede sarà più adeguato concentrarsi sui significati trasversali, 
sulla mimetica, sulla semiotica, alla ricerca di un tipo di ascolto che ci 
permetta la percezione di molteplici segni e significati. Questo concerto 
è un omaggio all’arte di Sylvano Bussotti non solo per il grande affetto 
che ci lega ad uno dei protagonisti della musica degli ultimi cinquant’anni, 
ma perché, se parliamo di linguaggi non si può pensare ad un altro 
compositore che li abbia utilizzati – anzi amati – tutti: eppure, nelle sue 
opere, avviene una declinazione linguistica sempre sorprendentemente, 
guizzante ed emotiva. Già la sua firma-sigla Sylb, un ipocoristico con un 
tocco di antica Grecia, ha un segno grafico che aspira a riassumere l’essenza 
di un pensiero che procede per agilità e scavalcamenti, che “apre 
e chiude” mondi sonori con apparente semplicità ed economia di mezzi. 
Sylvano Bussotti ha iniziato la sua carriera inviando a Darmstadt, per essere 
ammesso ai corsi estivi, delle composizioni musicali consistenti in striscioline 
di carta dipinte con segni colorati, senza nessuna spiegazione per 
l’esecuzione. Ha continuato poi a comporre musica sempre con grande e 
divertita cura del lato grafico e dell’impatto visivo; ha sempre lui stesso 
organizzato la messa in scena e la regia delle sue opere; lo ha fatto da 
ogni punto di vista, anche da quelli che confinano con il più umile artigianato 
e la scenotecnica, alla costante ricerca di un’arte totale. La seconda 
tematica che percorre il programma è la presenza di “Venezia”. Non un 
omaggio alla città, né una fotografia, neppure una olografia, ma “piccole 
storie” scritte letteralmente sulle pietre del selciato di un ponte che viene 
a ricoprirsi di pentagrammi e notine, per un’esecuzione che coinvolge 
sinesteticamente l’occhio e l’orecchio; eppure l’odore della laguna, il sapore 
salmastro e la sensazione ruvida delle pietre fanno ugualmente parte 
del brano, che non si può definire semplicemente musicale, a meno che 
non ci si ricolleghi alla musica mundana boezianamente intesa. Claudio 
Ambrosini ha voluto donare a Sylvano Bussotti – e a tutti noi - una sua 
realizzazione de Le pietre di Venezia, alla quale prenderà parte lui stesso 
come interprete insieme ad Aldo Orvieto. Il testo bussottiano creerà dunque 
una perfetta liaison con il brano che ascolteremo immediatamente 
dopo, è Erbario spontaneo veneziano di Claudio Ambrosini, il cui movente 
ispiratore si basa sull’osservazione della realtà arborea veneziana. È una 
ricerca quasi goethiana, dove «il bello è una manifestazione di forze e 
di leggi naturali nascoste che ci sarebbero rimaste eternamente nascoste 
senza quella loro apparizione». E’ evidenziabile anche una terza tematica 
nel concerto di stasera, una sorta di ineffabile “nostalgia per i classici”. 
Nel percorso di molti autori la ricerca linguistica sembra arrivare ad un 
punto in cui si sente l’urgenza di abbandonare i lunghi e tortuosi terreni 
di esplorazione della materia sonora e si manifesta una necessità, quasi 
fisica, di tuffarsi in un ambito linguistico cristallino e aulico, un desiderio 
di verginità e purificazione. Prokofiev, Schnittke, Petrassi hanno vissuto, 
ciascuno a suo modo queste fasi nella loro vita artistica; fasi che sono per 
lo più sottovalutate dalla critica come parentesi di importanza minore, se 
non addirittura regressive. Sono state inserite in questo contesto, quasi 
con il ruolo di una punteggiatura che vuole contraddire tale tesi, francamente 
riduttiva. Il concerto si conclude con un altro brano di Bussotti, tra 
la referenza alla musica del passato e la sua ricreazione molti anni dopo 
averla esperita. Fantasie cromatiche, coreutiche e linguistiche vi si mescolano 
e danno vita a dodici Follie. [Valentina Confuorto] 


Sylvano Bussotti Le pietre di Venezia da Foglio d’album
è una raccolta di tredici “fogli d’album”,
una serie di composizioni tutte scritte su vere fotografie (...) Lo
strumento pensato per una eventuale interpretazione di queste immagini
resta il pianoforte, ma non è detto che altri strumenti – specialmente
quelli a percussione – non debbano unirsi. Ciò che appare ideale del resto;
ideale per non defraudare lo spettatore dell’immagine – senz’altro
di primaria importanza nell’ideazione dell’opera – anche sotto il profilo
della scrittura musicale come forma diretta di pensiero espresso, sarà
un tipo d’attuazione audiovisiva. Ognuno dei tredici componimenti può
farsi oggetto di altrettante minuscole storie televisive.(…) Sarà curioso,
forse istruttivo, scoprire non facili occasioni in oggetti sonori così rappresentati.
E per tredici volte avventure specifiche attendono luoghi, corpi,
memorie, paesaggi , oggetti e telecamere. [Sylvano Bussotti] Le pietre di
Venezia è l’ottavo dei Fogli d’Album. E’ una fotografia che forse, ad occhi
esperti, potrebbe risultare tecnicamente sbagliata, poiché l’inquadratura
è inclinata verso sinistra, il ponte tagliato e poco visibile, c’è troppa aria
in basso, di modo che si vedono soltanto pietre anonime e uno squarcio
striminzito di canale. Bussotti ha sfruttato quest’apparente anomalia fotografica
trasfigurando l’immagine e rendendo i rettangoli in prospettiva
della pavimentazione, i gradini del ponte e i muri altrettanti geometrici
pentagrammi musicali. Le pietre veneziane, che normalmente vengono
calpestate da orde di piedi e coperte di sterco di uccelli, diventano così
inviolabili, come antiche rune o steli. L’esecutore deve rivelarne il mistero,
interpretandole secondo il suo sentire, catturandone la voce che ne emerge
come un archeologo in terra sconosciuta. La realizzazione di Claudio
Ambrosini affida ad un pianista sulla tastiera quei graffiti che possono individuarsi
scritti su veri e propri pentagrammi mentre riserva all’inventiva
di un esecutore-percussionista sulla cordiera i graffiti che si esprimono in
una notazione più libera e fantasiosa e quelli che risultano volutamente
illeggibili, poiché eseguiti su parti della fotografia poco nitide o dotate
di una visione prospettica sfavorevole. I due esecutori si muovono su un
medesimo “corpo sonoro”, il pianoforte, e le loro azioni risultano pertanto
fortemente interrelate. Basti pensare all’uso del pedale di risonanza (affidato
al pianista che agisce sulla tastiera) che può fortemente influenzare
le azioni dell’esecutore alla cordiera.

Claudio Ambrosini Erbario spontaneo veneziano
Sono probabilmente poche le persone,
al mondo, che non rimangano ammaliate dalla bellezza di Venezia, dalla
sua atmosfera, da quella luce particolare che, resa cangiante dai canali, si
irradia ovunque. Mosaici d’oro a San Marco, palazzi miracolosamente in
bilico su palafitte millenarie, una serie impressionante di quadri di grandissimi
artisti sparpagliati un po’ ovunque... la città è talmente piena di
meraviglie che si finisce per non far caso a cose che invece, per il nativo,
possono acquisire significato, come certe calli nebbiose o certi angoli nascosti,
o certe barche tipiche, rese desuete da quelle in plastica, o certi
strumenti artigianali quasi in disuso o perfino certe striminzite erbette, di
cui ci si accorge solo percorrendo le vie meno trafficate, quelle sulle quali
il turista getta uno sguardo distratto, prima di voltar l’angolo. Perché a
Venezia c’è di tutto ma non il verde. Ci sono, è vero, dei giardini interni,
anche belli, e ci sono alcuni parchi pubblici ma tutto è quasi in formato
“bonsai” e il numero di alberi visibili è così basso da poterli contare sulle
dita: ce ne sono quattro in Ghetto, due a San Giacomo dell’Orio, uno a
San Polo... è una città in cui pressoché ogni centimetro è stato sfruttato
per costruire. Così mi è accaduto, passeggiando qua e là nella Venezia più
nascosta, di notare dei “puntini verdi”, delle minuscole chiazze, delle oasi
in miniatura sviluppatesi negli interstizi di un muro, in qualche crepa di un
ponte o tra i marmi di una riva. “Erbe matte”, certo, eppure spesso non
prive di grazia e, altrettanto spesso, impreziosite da fiori delicati, tanto
belli quanto discreti. E anche da nomi altrettanto gustosi, come Fiorella
di barena, Finocchio di mare, Ombelico di Venere, Calcatreppola, Salicornia,
Cimbalaria psicopompa ma anche Tasso barbasso, Vitriola, Tortulo,
Rosa damascena, Stciocchetti, Dente de can... Tutti personaggi di una
“commedia dell’arte” vegetale che va in scena ogni giorno nei luoghi più
reconditi della città, quelli dove si sono arroccati (o sono stati relegati?)
gli “indigeni”, quegli ormai pochissimi abitanti che si ostinano a voler vivere
in questa città usurpata: dai 200.000 della mia infanzia ai poco più
di 50.000 oggi e con un esodo di un migliaio all’anno, cacciati da cosche
di affaristi di ogni provenienza che, sull’ “amore per Venezia”, hanno costruito
ben più parassitarie fortune, distruggendo il tessuto urbano delle
piccole rivendite, gonfiando a dismisura il mercato immobiliare e facendo
incetta di quasi tutti i negozi e i luoghi di ritrovo. Ma finché ci sarà ancora
qualche persona che abita nelle pur assai umide case sulla laguna, finché
i campielli risuoneranno dei salti dei bambini che giocano a “campanon”
o finché ci sarà ancora qualche erbetta pudicamente abbarbicata ad un
muro salmastro, vorrà dire che Venezia è viva. La composizione di questo
Erbario ha anche posto diverse sfide. Innanzitutto la scelta di darsi un
soggetto (“visivo” ma anche olfattivo, tattile, locale, simbolico) e conseguentemente
la scelta della forma breve: undici istantanee, più sensazioni
che ritratti. E poi l’accostamento, nel programma della prima esecuzione
assoluta, a due sonate di Beethoven: fortuito ma anch’esso stimolante.
Non tanto per la presenza, in questo Erbario, di frammenti tematici derivati
dalla sua opera ma per il ricorrere (spontaneo) di alcune categorie
concettuali, talvolta opposte ma complementari, come energia e dolcezza,
per esempio. O moto e stasi, subitaneamente accostati; o l’impellenza a
cercare forma, architettura. Se c’è qualche differenza, è forse nel modo qui
di rapportarsi dei due strumenti: paritetico, certo, ma talvolta anche antitetico:
l’uno appare per un istante su/tra/dietro l’altro. Affiora nel “muro
di suono” creato dall’altro, ne sfrutta i pochi spiragli, si mostra, “vive”
negli interstizi lasciati dall’altro. Come se l’intervallo temporale tra le due
fonti sonore – i due “cori battenti” – venisse deformato, ora elasticamente
allungandosi a favore di uno e proporzionalmente riducendosi per l’altro;
ora accelerando e drasticamente accorciando le risposte. Contraendo
i tempi, riducendoli anche ad una frazione di secondo o fondendosi, uno
nell’altro. Eppure l’epoca di Beethoven e la nostra sono forse più vicine di
quanto non sembri: certo, all’invenzione “melodica” si è sostituita oggi la
ricerca sul suono, si tende a costruire le frasi, più che con le “note”, con
“oggetti sonori” caratterizzati da una globalità di fattori interrelati, come
– oltre all’altezza – un certo timbro, un’evoluzione dinamica, un’impasto,
un’articolazione, una tecnica, un certo uso dello strumento... come dire:
un certo colore, una forma, un portamento, una certa sfumatura, un certo
profumo. 

(Claudio Ambrosini)


Sergej Prokofiev Sonata in Re maggiore op. 94 

«Nel corso del lavoro della Cenerentola 
(...) scrissi una Sonata per flauto e pianoforte in quattro movimenti. Il 
flauto mi attraeva da molto tempo poiché ero convinto che non fosse 
stato sufficientemente valorizzato dalla letteratura musicale. Era mio desiderio 
conferire alla Sonata i colori chiari e vivaci della musica classica», 
ebbe a dire Prokofiev. Lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, segnato 
dall’invasione nazista del giugno del 1941, aveva colto il compositore nella 
sua residenza estiva di Kratovo, nei pressi di Mosca. Assieme ad altri rinomati 
artisti fu costretto dalle autorità ad evacuare dalla capitale. Seguirono 
una serie di peregrinazioni, durante le quali non scrisse soltanto lavori 
di propaganda nazionalistica, ma si dedicò con grande energia alla musica 
da camera, completando tre Sonate per pianoforte che aveva iniziato simultaneamente 
nel 1939 e una Sonata in re maggiore per flauto e pianoforte. 
Composta ad Alma Ata, negli Urali, nell’estate del 1943, quest’ultima 
sonata fu eseguita per la prima volta a Mosca da Nikolaj Charkovskij e 
Svlatoslav Richter. Persuaso dalle insistenze del violinista David Oistrach, 
che si era invaghito del pezzo, Prokofiev si lasciò convincere a trasporre 
la Sonata dal flauto al violino, forse lusingato dalla prospettiva di vederla 
presto nel repertorio dei maggiori virtuosi dell’arco. Con la sua elegante 
mescolanza di elementi lirici e modernistici all’interno di un quadro for-
male essenzialmente neoclassico, la Sonata in Re maggiore è divenuta 
una delle opere cameristiche del ventesimo secolo più frequentemente 
eseguite. La Sonata è formata da quattro movimenti, il primo dei quali, 
Moderato, è quello più ampio e sviluppato. Si tratta di una pagina ricca di 
lirismo, di forma rigorosamente sonatistica, in cui momenti contemplativi 
e riflessivi – con quel primo tema di carattere quasi debussiano – si alternano 
ad improvvise esplosioni di vitalistica energia. Lo Scherzo che segue, 
insolito e brillante, ha una sezione centrale piena di languore. Il breve Andante, 
in 2/4, in Fa maggiore, è invece una sorta di romanza, particolarmente 
espressiva, un’autentica rêverie di ascendenza schumanniana che si 
anima soltanto, per un breve istante, nella sua sezione centrale. Conclude 
la Sonata un Allegro con brio di un’esuberanza quasi parossistica, in cui il 
virtuosismo strumentale regna sovrano dal principio alla fine. 


Alfred Schnittke Moz-Art 

Durante il Carnevale del 1783 Mozart, con sua moglie e altri
membri della famiglia, aveva messo in scena una pantomima ispirata alle
figure della commedia dell’Arte. Mozart aveva preso per sé la parte di
Arlecchino, suo cognato Joseph Lange vestiva i panni di Pierrot e sua
cognata Aloysia era Colombina. Il compositore salisburghese scrisse per le
musiche di scena un brano composto da circa quindici movimenti, che fu
eseguito alla Hofburg di Vienna il 3 marzo 1783. Tale partitura però non è
sopravvissuta se non nella parte di alcuni movimenti del primo violino. Nel
1978 Alfred Schnittke, come omaggio all’amico violinista Gidon Kremer,
prese questa supersite parte frammentaria e, con atteggiamento ludico
ma pur referenziale, plasmò quello che definisce un gioco, una libera fantasia
sulla musica mozartiana, il cui titolo Moz-Art già rivela le intenzioni.
Il brano esiste in due versioni: la prima è per un ensemble di quattordici
strumenti, mentre la seconda - eseguita stasera - è per due violini. Schnittke
prende spezzoni della parte del primo violino di Mozart e li amplifica
a dismisura creando un tessuto violinistico di estensione ragguardevole.
La musica inizia con un canone stretto, ma presto il gioco si complica,
tra armonici artificiali, pizzicati e scrittura in chiavi musicali diverse. Nel
corso del brano il secondo violino deve essere riaccordato verso il registro
grave, tanto che alcuni passaggi sono scritti in chiave di contralto. Questo
accorgimento esaspera l’elemento comico, creando spassosi effetti. In
questa idea di resurrezione musicale, l’intenzione primaria mozartiana di
contraddistinguere le maschere con forti contrasti è rinforzata dal compositore
russo con la sovrapposizione polifonica di temi pensati da Mozart
per sezioni lontane dell’originaria pantomima, con un effetto quasi grottesco.
La conclusione non poteva che essere molto particolare: il primo
violino sostiene un re mentre, due ottave sotto, il secondo violino riaccordato
suona un re bemolle; sulla loro tranquilla dissonanza, la musica
sfuma nel silenzio

 

Goffredo Petrassi Dialogo angelico 

Petrassi affermò, in una intervista del 1990 a Michele
dall’Ongaro Petrassi affermò: «la mia curiosità mi ha spinto non solo a
“conoscere” le cose ma anche a “saggiarle”. Può sembrare che nella mia
musica ci siano riflessi di tutto, ma certi riflessi non ci sono. Sono presenti
influssi di elementi che concordavano con le mie considerazioni interiori.
Quindi ci sono state molte esperienze che la mia “spugna” non ha assorbito
». L’arcaica struttura formale e una predilezione per gli andamenti
distesi e domestici ascrive facilmente Dialogo angelico a una produzione
che affonda le radici nei bicinia rinascimentali come anche è possibile
inquadrare l’opera in una neo-modalità di ascendenza stravinskiana che
vaga libera, serenamente ritmica e diatonica. Ma la grande capacità narrativa
di Petrassi non dovrà essere scambiata per una eclettica attitudine
ad appartenere “a tutte le storie”. L’andamento placido iniziale di Dialogo
angelico ben presto si anima, col secondo flauto che introduce suoni
ribattuti, in un’alternanza di differenti atmosfere; quasi che con poche
note, si sia potuto tratteggiare il “clima espressivo” e si possa affrontare
il racconto. Un dialogo, appunto, nel quale “affetti” (per usare un termine
barocco) contrastanti, quali armonia di intenti, disappunto, improvviso furore,
calma placida e fugace ironia si manifestano in una sorta di clima ultraterreno,
levitante, ondeggiante. Angelico, appunto: un intrattenimento
dall’andamento quasi platonico il cui incanto si spezza con una veloce
conclusione su un doppio do all’ottava.

 

Sylvano Bussotti 12 Folie d’après François Couperin le Grand

 La follia, dal nome così evocativo,
è un tema di danza di origine portoghese, ripresa e variata da decine
di compositori, tra i quali Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi, Johann
Sebastian Bach e François Couperin. Quest’ultimo ha scritto dodici eleganti
variazioni sul tema, ricche di piccola ornamentazione, abbellimenti
e raffinatezze tipiche della musica francese del tempo, ognuna sotto il
dominio di un preciso colore (invisibile la verginità, rosa il pudore, l’ardore
color dell’incarnato, verde la speranza, blu la fedeltà, la perseveranza
grigio lino, il languore viola, sotto diversi colori la coquéterie, porpora e
color foglie morte i vecchi galanti, giallo il benevolo cucù, grigio moresco
la gelosia, nera la disperazione). Sylvano Bussotti, apprendiamo dalle sue
parole, aveva a lungo suonato questo brano con la pianista e danzatrice
Antonietta D’Aviso, «sul doppio panchetto del suo grancoda nella pratica
pomeridiana del quattromani, riposandoci dalla emicrania dodecafonica
con il gioco del ballo a colori di un Couperin le Grand, cortigian briccone».
A distanza di tanti anni, l’operazione del compositore su questa partitura
non è né quella di una trascrizione, né quella di una riscrittura, ma piuttosto
quella di una sovrascrittura a colori che intende «restituire al passato
che in Arte non è mai remoto, tutto il suo significato». Il brano, in origine
per sola tastiera, accoglie anche il violino, primo strumento suonato da
Bussotti, «indimenticabile adolescenza capace, in tarda età, di rivivere».
Lo spartito si riempie di notine, di indicazioni di tempo e di carattere e,
cosa che salta all’occhio, di colori e segni pittorici. Ciò che però non si
vede, ma è fondamentale per l’esecuzione, è la sotterranea presenza della
danza, riprodotta intenzionalmente tramite il ricordo delle lezioni coreutiche
di Antonietta D’Aviso. Il tutto puntellato dalla nota, divertita ironia del
maestro, che trasforma l’uccello che tanta musica ha ispirato – il cucù – in
un cous cous bénévoles