Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Domenica 19 settembre 2010, ore 20.00


INCANTO SEGRETO



Sonia Turchetta mezzosoprano

Ex Novo Ensemble
Daniele Ruggieri flauto
Michela Caser, Elia Guglielmo, Caterina Pavan flauto
Carlo Teodoro violoncello
Aldo Orvieto pianoforte

Preludio critico di Valentina Confuorto


DARIUS MILHAUD (1892-1974)
Sonatina op. 76 (1922)
per flauto e pianoforte
Tendre - Souple - Clair

FLORENT SCHMITT (1870-1958)
Quatour de flutes op. 106 (1949),
Pompeux - Vif - Lent - Avec entrain mais sans précipitation

MICHÈLE REVERDY (1943)
"De l'ironie ... contre l'absurdité du monde" (titre emprunté à Voltaire) (2009),
per mezzosoprano e pianoforte
Prima esecuzione assoluta


ARTHUR HONEGGER (1892-1955)
Sonata (1920),
per violoncello e pianoforte
Allegro non troppo - Andante sostenuto - Presto

MAURICE RAVEL (1875-1937)
Chansons madécasses (1925-26), testo di Evariste Désiré de Forges Parny (1753 - 1814)
per mezzosoprano, flauto, violoncello e pianoforte
Nahandove - Aoua - Il est doux



PRESENTAZIONE


La musica, l’arte del canto e dell’incanto: nella Prima Bucolica di Virgilio il pastore Titiro, suonando una sottile zampogna, insegna ai boschi a risuonare il nome della bella Amarilli; nel mito di Orfeo, il semidio è allegoria del potere seduttivo della musica e della poesia, soggetto emblematico del teatro musicale fin dai primi melodrammi. Il titolo del percorso di questa sera sembra sottintendere una piccola sfida: dimostrare che canto e incanto in musica, nel ricordo delle grandi stagioni del passato, non ultima l’epopea wagneriana e straussiana, sono rimasti vivi nel Novecento, complice un linguaggio, per così dire, ‘residuale’, talora ridotto all’estremo, che rifugge da teorie troppo seriose o anche - se ci è consentito il gioco di parole - troppo rigidamente seriali. La musica del recente passato, dunque, come la coeva poesia si è dovuta accontentare, per citare Montale, di qualche storta sillaba e secca come un ramo. E anche questa è stata una bella sfida. Le opere proposte in questo concerto - pur tra loro diversissime, anche cronologicamente - propongono un curioso percorso attraverso i Leitmotive di queste ricerche espressive imperniate, da un lato, su un uso fortemente ‘fonetico’ della lingua che quasi supera le necessità strutturali del testo nella composizione musicale; dall’altro - simmetricamente, con altrettanta audacia - sulla potenza evocativa del ‘canto’ nelle opere strumentali.

Di Darius Milhaud, musicista spesso accusato di un ecclettico e stravagante polistilismo, verrà presentata la deliziosa Sonatine op. 76. Radicata nella temperie della tradizionale sonata franco-tedesca - addirittura con un’attenzione all’unità ciclica - la Sonatine alterna un lirismo espressivo deprivato dei tòpoi dell’espressività romantica a momenti puramente ornamentali, a tratti brillanti e virtuosistici. L’uso del contrappunto non è occasionale: nel Finale, si scopre con stupore addirittura un embrione di doppio fugato che prende le mosse dai due temi della forma-sonata precedentemente enunciati. Il secondo movimento, ritmico e sincopato, è caratterizzato da strutture poliritmiche di rilevante complessità innestate su linee melodiche di ispirazione popolare, rese però sempre grottesche dall’uso di un’armonia per quarte disseminata di piccoli cluster di seconda. La Sonatine presenta insomma uno sfolgorio di mezzi espressivi posti in opera con sapiente parsimonia, mai ostentati con intenti dissacranti, ironici o edonistici, ma sempre fortemente finalizzati.

L’anno 1941 fu un anno di sfide per il compositore Florent Schmitt: nascono infatti in questo lasso di tempo quattro opere da camera per quartetto di cui tre dall’organico affatto usuale: il Quatuor pour saxophones op. 102, il Quatuor de flûtes op. 106, il Quatuor de cuivres op. 109 (per tre tromboni e tuba) e il Quatuor à cordes op. 112. La riuscita di questo progetto costituiva una scommessa che richiedeva la consumata esperienza di un appassionato, minuzioso artigiano: si trattava di indagare nuove possibilità espressive e nuove sonorità di ensemble strumentali timbricamente omogenei, a volte di “riabilitare” strumenti considerati proprî di culture musicali diverse (come il sax) o il cui colore sembrava essere funzionale solo ad amalgamarsi in contesti orchestrali. Da sempre proclamatosi indipendente, fermamente credente nella necessità che l’elaborazione di un opera segua processi ed esigenze del tutto interiori, pur apprezzando autenticamente la musica di Debussy, Schmitt rimane formalmente legato alla tradizione classica tedesca di cui ammira la preziosa vitalità ritmica e l’impareggiabile geometria costruttiva. Come scrisse Albert Roussel: "Se ha ascoltato con compiacenza i tratti più affascinanti di Debussy, se ne ha gustato, come tutti i suoi contemporanei, la squisita e profonda voluttà, non ne ha derivato però che una grande lezione di indipendenza". Sarebbe dunque riduttivo marchiare il gesto creativo di Schmitt come pura e semplice "tendenza conservatrice", anche perchè - a ben guardare nelle pieghe della sua arte - questa "proclamazione di indipendenza" non recide i legami della sua musica con l’impressionismo, pur accolto - sono sempre parole di Roussel - senza alcuno dei tratti "di quella sdolcinatezza nè di quella raffinatezza eccessiva che è stata rimproverata talvolta alla nostra scuola nazionale".

Come antidoti all’angoscia esistenziale Michèle Reverdy ci offre la musica e la poesia, attraverso questo suggestivo florilegio di liriche, aperto dal XII sonetto, da Les Regrets di Joachim du Bellay, che nei seguenti versi sembra riecheggiare il tema di questa serata:

Je ne chante (Magny) je pleure mes ennuis,
Ou, pour le dire mieux, en pleurant je les chante,
Si bien qu’en les chantant, souvent je les enchante

Io non canto (Magny), piango i miei crucci,
O, per dir meglio, piangendo li canto,
Seppur cantandoli, spesso li incanto


Afferma la stessa autrice, in una nota critica preparata per questa prima esecuzione veneziana: "Queste poesie, che ho musicato per Sonia Turchetta, pongono le domande senza risposta che si accompagnano alla nostra vita, esprimendo l’apparente assurdità della nostra esistenza in questo strano mondo, nel quale siamo finiti inavvertitamente. Meglio cantare come Du Bellay piuttosto che lasciarsi divorare dall’‘importuna preoccupazione che ci tormenta senza fine’. Meglio estasiarsi di fronte alla semplice bellezza di una scena quotidiana magnificata dalla scrittura bella e sobria di Sandro Penna. Questa vita non è che un sogno? si domanda senza posa nei suoi libri Lewis Carroll. Pensiamo ingenuamente che i nostri miseri divertimenti possano avere il potere di distoglierci dalla nostra ineluttabile finitezza... L’ombra vince. È già sera nel giardino di Hans Werner Henze a Marino, dove ho incontrato molto tempo fa - e per tanto poco - Hans Ulrich Treichel. Resta la carta da musica! Finiamo dunque con una canzone ben ritmata di Federico Garcia Lorca, accompagnata dalle campane!".

Nel corso dell’anno 1920 Honegger compose tre sonate, tutte in forma tripartita: la Sonate pour alto et piano, la Sonatine pour deux violons e la Sonate pour violoncelle et piano. Darius Milhaud - in un eccellente studio pubblicato nel 1921 - sottolinea come il compositore, nel suo sforzo di perfezione, riprendesse infaticabilmente la sua opera, aggiungendovi ogni volta sempre più ‘mestiere’ ed eliminando progressivamente il superfluo. Honegger sperimenta in queste sonate un originale principio di ri-equilibrio sonoro tra gli strumenti: perché assegnare a due strumenti dal timbro molto diverso temi che non possono essere adeguati ad entrambi e spesso rischiano di non essere adatti né all’uno, né all’altro? Le sonate del 1920 segnano dunque un momento di decisivo sviluppo nel modo di comporre di Honegger: il saggio più riuscito di questo sforzo di riorganizzazione dei materiali è rappresentato proprio dalla Sonate pour violoncelle et piano, la più estesa, la più perfetta. Le qualità espressive degli strumenti sono rigorosamente rispettate: un tema, in apertura, si adatta meravigliosamente alla voce del violoncello. Nell’ultimo movimento invece, il pianoforte detiene il primato e ha diritto ad un tema adatto alle proprie sonorità. Il primo movimento è un capolavoro di solidità, eleganza e precisione: lo caratterizzano due temi, uno sviluppo in progressione, un ritorno in ordine inverso dei due temi. La polifonia passa arditamente attraverso il blocco delle tonalità: il nuovo ambito tonale viene sempre raggiunto con mano sicura e efficace concisione. L’Andante rivela tutta la tenera sonorità delle più riuscite pagine del musicista. Il Presto conclusivo è caratterizzato da un impetuoso finale, condotto magistralmente. Nella Sonate pour violoncelle et piano si colgono una compostezza e una sicurezza, frutto di una solida padronanza tecnica, che non sfuggono all’ascolto e conferiscono, anche negli episodi più tumultuosi, una filigrana sempre tersa alla condotta delle linee musicali.

Le tre Chansons madécasses, su testo di Evariste Désiré de Forges Parny, composte tra il 1925 e il 1926, furono commissionate a Ravel da Elizabeth Sprague-Coolidge, sua mecenate americana, nonché dedicataria dell’opera. La première si svolse presso l’Accademia americana di Roma l’8 maggio 1926 (mezzosoprano Jane Bathori), la prima registrazione avvenne nel 1932, sotto la supervisione dell’autore. Interprete vocale la stimatissima Madeleine Grey. A sottolineare l’importanza di queste Chansons basti ricordare che il compositore, giunto alla fine della sua attività creativa, dichiarò a più riprese di essere particolarmente fiero di questo lavoro. Evariste Désiré de Forges Parny (1753-1814) aveva pubblicato nel 1787 una raccolta di poesie in prosa intitolata Chansons madécasses, traduites en français, suivies de poésies fugitives. I testi furono tradotti da documenti originari del Madagascar anteriori al XVIII secolo. Parny non visse mai nel Madagascar: scrisse queste poesie durante un soggiorno nelle Indie francesi. La raccolta, al di là del suo interesse documentario, rappresenta anche una denuncia del colonialismo (siamo negli anni precedenti la rivoluzione francese) e, come si legge nella prefazione dell’autore, propone tra l’altro qualche nota etnologica e, in particolare, etnomusicologica. Ravel lesse con entusiasmo queste poesie così conformi alle proprie convinzioni politiche, che erano, come diremmo oggi, di sinistra, vale a dire assolutamente contrarie a tutte le disuguaglianze sociali. Del resto, era un ammiratore di Paul Painlevé, futuro primo ministro in un governo di coalizione radicalsocialista, incontrato nel salotto dei Clemenceau negli anni del dopoguerra, e di Léon Blum, leader del Front populaire, al cui organo di stampa addirittura si sarebbe abbonato. La sensualità di Nahandove, il calore di Il est doux, l’anticolonialismo di Aoua, non possono lasciare insensibile l’ascoltatore, se non altro per il fatto di trovarsi di fronte ad un’opera a suo modo engagée. L’adozione di uno stile musicale di scarna essenzialità avvicina le Chansons madécasses alla Sonata per violino e violoncello (1922), ma vi aleggia anche lo spirito della Sonata per flauto, viola e arpa dell’ultimo Debussy, composta qualche anno prima. Scriverà lo stesso Ravel nel suo Esquisse biografique: "Le Chansons madécasses, mi sembrano presentare un elemento nuovo - drammatico se non eroico - introdotto dal soggetto stesso di Parny. Si tratta di una sorta di quartetto, in cui la voce ha il ruolo di strumento principale. Prevale la semplicità. Si afferma l’indipendenza delle parti". Le parole di Ravel sembrano in sorprendente sintonia con questo pensiero di Arnold Schoenberg del 1912 il quale afferma: "guidato dal primo contatto diretto col suono iniziale, avevo intuito ciò che doveva assolutamente seguirvi". (Roberto Campanella)