Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Martedì 16 novembre 2010, ore 20.00


EVOLUTI GESTI TRIBALI



Daniele Ruggieri flauto
Carlo Miotto direttore

Gruppo 40.6 percussioni
Didier Bellon, Carlo Miotto, Gabriele Rampogna e Luigi Vitali percussioni

Preludio critico di Daniele Goldoni


Steve Reich (1936)
Music for Pieces of Wood (1973)
per cinque percussionisti

CLAUDE DEBUSSY (1862-1918)
Syrinx (1913)
per flauto solo

GEORGE CRUMB (1929)
An Idyll for the Misbegotten (Images III) (1986)
per flauto amplificato e tamburi

GÉRARD GRISEY (1946-1998)
Stèle (1995)
per due percussionisti

ANDRÉ JOLIVET (1905-1974)
Suite en concert. Deuxième concerto pour flûte (1965)
per flauto e quattro percussionisti
Modéré/Frémissant - Stabile - Hardiment - Calme/Véloce/Apaisé

PRESENTAZIONE

"I musicisti non sanno più scomporre il suono, darlo puro. Io mi sforzo di usare ogni timbro allo stato puro (...) Abbiamo imparato troppo a mescolare i timbri". Sono le parole illuminanti di Debussy, parole che aprono a nuove sensibilità, a nuove armonie. Già nel 1890 Debussy era stato affascinato dall’esotismo delle scale, dall’uso di strumenti a percussione di derivazione etnica, e dall’estrema semplicità delle melodie di un’orchestra ‘Gamelan’, proveniente da Bali. L’episodio, di per sè trascurabile, provocherà in Debussy una rinnovata concentrazione sul timbro dei diversi strumenti; elemento che, a suo avviso, condiziona in larga misura gli stessi aspetti formali della composizione, in quanto ogni strumento ha una sua voce diversa in grado di suscitare diverse immagini nella mente di chi ascolta. Un altro elemento innovativo e fondamentale nella musica di Debussy è certamente il gusto per l’arabesco, sottile combinazione di elementi floreali e geometrici, che lo stesso compositore considerava ‘divino’ e Baudelaire aveva definito il più spirituale, il più ideale dei disegni. L’arabesco debussyano, flessuoso intreccio simbolicodecorativo di linee curve tra costanti e varianti, non conosce sviluppo, ma rimane sospeso in una dimensione atemporale con la sua forza magica, col suo carico di mistero e sensualità. Del resto anche nella scrittura di Mallarmé, il poeta ‘nuovo’ per eccellenza, domina l’arabesco, presentandosi come una fitta trama di relazioni imprevedibili, a livello semantico e sintattico attraverso un uso primordiale, eminentemente simbolico e ritmico-musicale del linguaggio poetico. La sistematica rimozione dal testo di ogni troppo esplicita referenzialità, di ogni contenuto troppo chiaro e determinato, dà spazio alla suggestione derivante dalla trama dei suoni. Ancora una volta Mallarmé si trova su posizioni molto affini a quelle di Debussy, il quale mai accettò che la sua musica fosse etichettata come descrittiva o impressionistica, considerandola sempre musica pura, musica fine a se stessa. Ci sembra che questa breve premessa, possa sintetizzare e, in qualche modo, giustificare il tema dell’odierno concerto, nel corso del quale il flauto - da solo attraverso misteriosi arabeschi in Syrinx o partecipando a dialoghi contrastati con vari strumenti a percussione nei pezzi di Crumb e di Jolivet - o le percussioni - protagoniste assolute con i loro ritmi e le loro sonorità estranianti nei brani di Reich e di Grisey - rispecchiano una comune esigenza di ripartire dalle origini, da una semplicità ancestrale, che non è povertà espressiva, ma anzi corrisponde a una profonda valenza simbolico-evocativa del suono, del timbro, del ritmo, forse per richiamarci, come viene suggerito nel commento ai singoli brani, all’esigenza di recuperare il rapporto ormai perduto tra Uomo e Natura, tra Oriente e Occidente, per indurci a un ripensamento globale sulla nostra ‘civiltà’ occidentale. "La percussione è infinita", sosteneva John Cage. È infinita perché illimitati sono gli oggetti che si possono battere, sfregare, scuotere: dagli strumenti più complessi, capaci di produrre nuove sonorità agli oggetti più semplici ancora vergini alla musica. Esistono tamburi diversissimi, antichi o moderni, di legno, metallo, ceramica, modificati con sonagli e corde, diversi per dimensione, costruiti con pelli animali o sintetiche di diverso spessore e dalle più svariate caratteristiche timbriche. La parola tamburo significa mille e più suoni. Inoltre esistono infiniti oggetti di legno, zucche, frutti, bacelli, contenitori riempiti di semi, di sassi, di perline, di biglie di metallo o di farina. E poi campane di ogni misura e materiale. Strumenti che suonano se vengono percossi o mossi dal vento. Infine gli strumenti classici: i timpani, la marimba, il vibrafono, ultimi esemplari di una storia che continua. (Roberto Campanella)

Claude Debussy
Syrinx (1913)

Syrinx o La Flûte de Pan, il titolo originale di Debussy, occupa una posizione centrale nella letteratura per flauto: è il primo pezzo scritto da un autore di prima grandezza per il flauto cilindrico Boehm, e ha contribuito in maniera decisiva a ridare al flauto un ruolo solistico importante nella musica del Novecento. La flute de Pan fu concepito come musica di scena per il Dramma Psiché di Gabriel Mourey, nel secondo atto del quale viene introdotto lo strano racconto della morte del dio immortale Pan, nella versione di Plutarco. Mourey contattò Debussy e gli chiese di scrivere "l’ultima melodia che Pan suona prima di morire", da eseguirsi da fuori scena. È di particolare interesse una lettera di Debussy a Mourey del 7 novembre 1913: "Mio caro Mourey, non ho trovato finora quel che ci vuole per la ragione che un flauto che canta sull’orizzonte deve immediatamente far trasparire la sua emozione; voglio dire che non c’è tempo per delle ripetizioni e ciascun artificio diviene subito grossolano, dato che la linea melodica non può contare su nessun intervento di colore. Ditemi, per favore con grande esattezza, dopo quale verso deve intervenire la musica? Dopo diversi tentativi, credo sia necessario ricorrere al solo flauto di Pan, senza alcun accompagnamento. È più difficile, ma più logico nella natura." Mourey, nelle sue Memorie di Claude Debussy definisce il pezzo "una vera gemma di emozione controllata, di tristezza, di plastica bellezza, di discreta tenerezza e poesia."

George Crumb
An Idyll for the Misbegotten (Images III) (1986)

Sento che la parola illegittimo descrive bene la fatale e malinconica condizione della specie homo sapiens nel tempo presente. L’umanità è diventata sempre più illegittima nel mondo naturale delle piante e degli animali. L’antico senso di fratellanza con tutte le forme di vita (espresso in modo così toccante nella poesia di S. Francesco di Assisi) è stato eroso lentamente ma continuamente, e di conseguenza ci troviamo adesso monarchi di un mondo morente. Noi condividiamo la fervente speranza che l’umanità possa abbracciare nuovamente "l’imperativo morale" della natura. Il mio piccolo Idillio è stato ispirato da questi pensieri. Il flauto e i tamburi sono per me (forse per associazione con antiche musiche etniche) gli strumenti che evocano con maggior forza la voce della natura. Ho suggerito che idealmente (anche se non praticamente) il pezzo dovrebbe essere "ascoltato da lontano, su un lago, in una sera illuminata dalla luna in agosto". An Idyll for the Misbegotten evoca l’indimenticabile tema di Syrinx di Claude Debussy, pezzo per flauto solo del 1912. Vi è anche una breve citazione del poeta cinese dell’ottavo secolo Ssu-K’ung Shu: "La luna tramonta. Ci sono uccelli tremanti e erbe che appassiscono".
(George Crumb)

Gérard Grisey
Stèle (1995)

La prima esecuzione di Stèle è avvenuta il 4 febbraio 1995, a Parigi, alla Maison de la Radio. Il brano, della durata di sette minuti è dedicato alla memoria di Dominique Troncin. Composizione dall’affascinante sincretismo destò grande interesse per l’utilizzo esclusivo di due grancasse di grandi dimensioni letteralmente proiettate - è il caso di dirlo, per la prima volta nella storia - su un palcoscenico con ruolo solistico. Il suono delle due grancasse è alterato con geniali accorgimenti: l’applicazione di perline di legno che vibrano a contatto con la pelle, sordine che variano la durata e la qualità della risonanza delle pelli. Grisey dedica inoltre una particolare attenzione alla qualità e varietà degli utensili usati per produrre i suoni: mazze, bacchette, oggetti diversi, con cui si deve percuotere, in punti precisi e differenziati la superficie della pelle. Così lo presenta lo stesso Grisey: "Come far emergere il mito dalla durata, l’organizzazione cellulare di un flusso che obbedisce ad altre leggi? Come tratteggiare nella convinzione e sul limitare del silenzio una iscrizione ritmica dapprima indistinguibile e poi alla fine martellata in forma arcaica? Componendo mi è venuta alla mente un’immagine: quella di archeologi che scoprono una stele e la ripuliscono fino a mettere in luce un’iscrizione funeraria".

André Jolivet
Suite en concert. Deuxième concerto pour flûte (1965)

André Jolivet, credeva nella missione magica e incantatrice della musica, credeva che l’espressione musicale fosse adeguata a rappresentare l’afflato religioso dell’animo umano. Per questo identificò nel flauto e nelle percussioni strumenti congeniali alle sue volontà rappresentative, espressive e simboliche; strumenti di origine arcaica il cui utilizzo si perde nell’abisso della storia dell’umanità. Il flautista - che, in questo ensemble, suona l’unico strumento a suono determinato - dialoga con una batteria di venticinque strumenti a percussione suddivisi tra quattro esecutori. L’ensemble di percussioni è interamente formato da percussioni a suono indeterminato, strumenti non intonati, con i quali è impossibile produrre scale o armonie nel senso tradizionale. Un dialogo, una rappresentazione che ha dunque per protagonisti soggetti arcaici, archetipi dell’esistenza. La Suite en Concert, dedicata a Jean Pierre Rampal, può ritenenersi la summa delle risorse espressive della musica flautistica di Jolivet. Suddivisa in quattro movimenti è strutturata mediante alternanze continue di suggestive e magiche sezioni lente (che utilizzano moduli melodici ripetitivi) a concitati e tesi episodi veloci. L’ultimo movimento Calme l’unico scritto mediante la tecnica seriale, si stempera in un lungo processo di dilatazione ritmica che sfrutta meravigliosamente le valenze timbriche degli strumenti a percussione e assicura un congedo in un clima di estatica evanescenza metafisica.