Gran Teatro "La Fenice", Sale Apollinee, Domenica 11 dicembre 2011, ore 20.00


Sacrum Regnum Hungariae



Carlo Teodoro violoncello
Aldo Orvieto pianoforte

Guida critica di Ivan Vandor e Daniele Goldoni


SANDOR VERESS (1907-1992)
Sonata (1967)
per violoncello solo
Dialogo - Monologo - Epilogo

FRANZ LISZT (1895-1984)
Seconda Elegia S 131 (1877)
Die Zelle in Nonnenwerth S 382 (1883)
per violoncello e pianoforte

GYÖRGY LIGETI (1923-2006)
Sonata (1948/53)
per violoncello solo
Dialogo (Adagio, rubato, cantabile) - Capriccio (Presto con slancio)

LUDWIG van BEETHOVEN (1770-1827)
Sonata in do maggiore op 102 nº 1 (1815)
per violoncello e pianoforte
Andante/Allegro vivace - Adagio/Tempo d'Andante/Allegro vivace

GYÖRGY KURTAG (1926)
Az hit (1988)
Pilinszky János: Gérard de Nerval (1984)
In memoriam Aczèl György (1999/2000)
Árnyak (1988)
per violoncello solo

IVAN VANDOR (1932)
Otto brevi pezzi (2011)
per violoncello e pianoforte
Commissione Ex Novo Musica
Prima esecuzione assoluta



PRESENTAZIONE

Se nel contesto della musica del Novecento stiamo al gioco di "inventare" un Sacrum Regnum Hungariae,il suo fondatore non può essere che Franz Liszt. Ma paradossalmente non tanto il Liszt più celebrato, quello delle mirabolanti Rapsodie ungheresi o degli spericolati Studi trascendentali - il Liszt pianista virtuoso esaltato in tutti i salotti e da tutti i regnanti d'Europa - quanto un Liszt meno popolare, in particolare l'estremo, la cui sconcertante economia di gesti espressivi si coniuga con un afflato profondamente innovatore.
Gli aspetti rivoluzionari dell'ultimo Liszt cominciano a comparire in Weihnachtsbaum (1874/6) e si accentuano nei piccoli pezzi pianistici scritti negli anni successivi. Il timbro pianistico si assottiglia e si decolora in una esplorazione di nuove modalità di attacco del tasto, tese a concepire il suono del pianoforte come timbro intermedio tra quelli dell'harmonium e dell'arpa il che derivò dall'uso frequente di questi strumenti nelle composizioni religiose, preannunciando, tra l'altro, il suono della celesta, strumento brevettato nel 1886 che fece la sua comparsa nella letteratura solo negli ultimi anni dell'Ottocento.
Il fulcro tonale tende a cessare nella sua funzione unificatrice generando una armonia condotta attraverso agglomerati sonori sottilmente ambigui; l'uso di lasciare sospesa la conclusione tonale dei pezzi diventa sempre più frequente (Carillon in Weihnachtsbaum termina con un accordo di 11ª sul 2º grado); finché una delle ultime composizioni viene esplicitamente intitolata Bagatelle ohne Tonart. La forma perde la concentrazione del periodo di Weimar: forme di due episodi, senza ripresa, forme con ripetizioni identiche, prive di tensione drammatica e che si arrestano senza concludere, aprono però prospettive formali nuove.
La semplificazione estrema di tutti gli aspetti della composizione investe persino i generi nei quali Liszt aveva precedentemente esibito la sua mirabolante maestria: le trascrizioni dei Cinque canti popolari ungheresi (1873) e del canto russo Abschied (1885) fanno presentire il gusto di Bartók; le Réminiscences de "Simon Boccanegra" (1882) sono ben diverse dalle antiche fantasie su temi d'opera. L'impegno nel rinnovamento stilistico della musica religiosa è costante e proficuo, e le composizioni sacre costituiscono certamente il tratto più originale e creativo dell'ultima produzione lisztiana.
La svolta stilistica dell'ultimo Liszt fu variamente interpretata. Generalmente, come riferisce lo sesso Wagner, i contemporanei, compresi vari allievi ed amici di Liszt, guardarono con imbarazzo alle composizioni dell'ultimo periodo, che giudicavano lavori senili di un ingegno ormai esaurito. Appare oggi evidente, invece, che in queste opere l'autore ha voluto sperimentare le ancora ignote possibilità linguistiche del sistema musicale privo di centro tonale, ponendo le basi per la crisi che ha condotto alla concezione del sistema dodecafonico: secondo il musicologo B. Szabolcsi, una svolta culturale fu determinata in Liszt dalla conoscenza dei contemporanei russi e dallo studio più approfondito degli elementi lessicali ungheresi, presenti da sempre nella sua musica.
Le scoperte stilistiche ed armoniche di Liszt furono assimilate, in misura diversa, da tutti i compositori che lo frequentarono. Lo stesso Wagner in una lettera a von Bülow (1859) ammette: «Dopo la mia conoscenza delle composizioni di Liszt, il mio modo di trattare l'armonia è divenuto molto diverso da ciò che era prima». Evidenti sono poi gli influssi che vari aspetti dell'opera di Liszt esercitarono sui compositori delle cosiddette scuole nazionali, dagli autori russi a Smetana e Albéniz; sugli impressionisti francesi; su Richard Strauss e Ferruccio Busoni, che ha sempre dichiarato di estrema importanza lo studio approfondito dell'opera di Liszt nella sua formazione. Altrettanto si deve dire di Bartók, a buon diritto il delfino del nominato Regnum, del quale, a questo proposito, è importante un passo dell' Autobiografia: «Un più completo studio di Liszt, specialmente delle sue creazioni meno popolari, come le Années de pelerinagee, le Harmonies poetiques et religieuses, la Faust-Symphonie, la Danse macabre ed altre, mi guidarono al fondo del problema: il grande, vero significato dell'artista. [...] Arrivai a riconoscere che, per lo sviluppo ulteriore dell'arte musicale, le sue composizioni erano più importanti di quelle sia di Wagner che di Strauss».
Si è spesso affermato che il pubblico e la critica non perdonarono mai a Liszt, acclamato come il maggior virtuoso del suo tempo, l'ambizione di qualificarsi anche come compositore con la C maiuscola, e non solo come autore di musiche per uso concertistico. La tesi ha un fondo di verità, ma non basta a spiegare l'ostracismo ed il disprezzo di molta critica per le musiche di Liszt: «È incomprensibile - scriveva Bartók nel 1911 - come in Ungheria, per esempio, nessuno osi proferir parola contro Wagner e Brahms - anche quando, nei loro riguardi, ci sarebbe qualcosa da eccepire - mentre la musica di Liszt è liberamente esposta alle censure. Dai critici musicali agli alunni del conservatorio, tutti vi trovano qualcosa da ridire».
Liszt fu duramente combattuto nel suo tempo, per il carattere rivoluzionario della sua arte; coloro che più avrebbero dovuto apprezzarlo, i wagneriani, offuscati dall'idolatria per il Grand'uomo, furono disposti ad onorare in lui solo l'uomo che aveva saputo riconoscere precocemente il genio di Wagner.
Senza entrare nel profondo del sentire di Liszt si liquidarono parte delle sue opere con l'epiteto del "cattivo gusto" perpetrato per intenti celebrativi, ottimismo di maniera, acquiescenze all'ideologia borghese dominante. La sete di novità veniva bollata come ricerca fine a se stessa. Il giudizio positivo, quasi fosse un doveroso onore delle armi, veniva concesso ad un numero ristrettissimo di pagine ed alle scoperte nel campo della tecnica pianistica.
Oggi anche lo sperimentalismo richiede un giudizio positivo, mentre le contraddizioni ideologiche testimoniano le illusioni degli intellettuali usciti dalla mancata rivoluzione del 1848.
Il moderno interesse per l'interpretazione permette d'altronde di affermare che non si può valutare la figura di Liszt limitando l'esame alle sue musiche, ed ignorando o citando di sfuggita la sua attività di concertista, e più in generale di uomo di cultura. Se è vero che nella storia dell'arte restano le musiche, è però altrettanto vero che nella figura di Liszt è impossibile isolare il compositore dall'operatore di cultura, attivissimo, questi, non meno del creatore. La figura di Liszt va quindi vista non solo nella storia della creazione musicale, ma anche in quella della civiltà musicale, dove emerge assolutamente preminente.

L'indifferenza - se non la reticenza - da parte di Liszt a diffondere, negli ultimi anni di vita, la propria musica, ha creato non poche difficoltà nel reperire molti lavori inediti di cui è avuta notizia solo attraverso citazioni di studenti e colleghi. Durante la vita dell'autore le esecuzioni della sue opere da camera furono assai rare e molti suoi lavori sono stati per questo trascurati senza un attento esame. Con l'eccezione di qualche pezzo per violino e pianoforte la musica da camera di Liszt (poco più di una trentina di opere) consiste in versioni alternative o trascrizioni di pezzi già concepiti per altri organici. Ma questo non vuol dire che si tratti di lavori nei quali la strumentazione sia trattata con superficialità: la scrittura per il violoncello richiede toni lirico-elegiaci, ma anche fortemente drammatici e suggerisce l'impiego di una ampia gamma di colori strumentali; l'estrema concisione della parte di pianoforte spesso volge al declamato, al recitativo, a gesti di ispirazione operistica.

 

Franz Liszt Seconda Elegia S131, Die Zelle in Nonnenwerth S382

La Seconda Elegia è del 1877 e fu dedicata a Lina Ramann (autrice della prima biografia del compositore) come ringraziamento per un articolo elogiativo riguardante la Prima Elegia. Kahnt pubblicò il lavoro nel 1878 per pianoforte solo, e anche la versione per violino o violoncello e pianoforte. La parte del pianoforte è la stessa nelle due versioni, peraltro in quella cameristica le parti dei due strumenti ad arco differiscono fra loro considerevolmente.

Die Zelle in Nonnenwerth (Il Chiostro di Nonenwerth) è la trascrizione di un lied dello stesso Liszt, che a quanto sembra l'autore amava particolarmente: ci sono quattro differenti versioni per pianoforte solo, varie versioni vocali, anche con varianti testuali sulla stessa melodia, una versione per due pianoforti e la presente versione per violoncello (o violino) e pianoforte. Il lied originale, basato su una poesia di Felix Lichnowsky, fu composto nel 1841. Nonnenwerth è un'isola sul fiume Reno fra Bonn e Koblenz, dove si trova da settecento anni una famosa abbazia Benedettina, e dove Liszt, Marie d'Agoult e il loro figli passarono le vacanze nel 1841 e nel 1843. Liszt e la contessa si separarono nel 1843 e i contatti di Liszt con i propri figli divennero da allora sporadici: pertanto possono essere presenti degli elementi di nostalgia nel frequente ritorno di Liszt a questa melodia. L'ultima trascrizione per pianoforte è del 1880 e fu pubblicata nel 1883, anno in cui Liszt preparò la versione cameristica.

 

Ludwig van Beethoven Sonata in Do maggiore op. 102, Nr. 1

Le due Sonate per violoncello dell'op. 102 di Ludwig van Beethoven furono scritte su richiesta della contessa Maria von Erdödy, che intendeva suonarle a Jedlesee assieme al violoncellista Joseph Linke, comune amico e membro (in alternanza con Nikolaus Kraft) di quel Quartetto Schuppanzig che eseguiva sistematicamente tutti i quartetti che Beethoven andava scrivendo. Al di là della dedica che lega occasionalmente la Sonata in do maggiore a questa nostra "Serata ungherese" è interessante notare che il genere della sonata per violoncello e pianoforte, non ancora tentato né da Haydn né da Mozart, venne inteso da Beethoven come vera e propria una sfida - sfida che egli raccolse nel 1796 con le Sonate op. 5 e portò avanti fino al 1815 con le Sonate op. 102 - per affermare una scrittura "alla pari" tra i due strumenti: un dialogo fra uguali, come era riuscito a fare Mozart in alcune sonate per violino e pianoforte, ma utilizzando qui uno strumento la cui tessitura rendeva assai più problematico il rapporto con lo strumento a tastiera. L'intendimento beethoveniano è manifesto fin dall'intestazione delle Sonate op. 5, definite «per violoncello con pianoforte», contrariamente all'uso dell'epoca che poneva sempre per primo - nella dicitura usuale - lo strumento a tastiera.
L'autografo della Sonata in do maggiore (denominata da Beethoven "Freie Sonate", Sonata libera, usando una indicazione gemella di "Sonata-Fantasia" già sperimentata nelle due sonate per pianoforte dell'op. 27), reca la data "1815 verso la fine di luglio". Di fatto, come rilevato già da Czerny, la Sonata in do maggiore «appartiene all'ultimo periodo della carriera di Beethoven, nel quale non si preoccupava più di abbellire le sue idee con ordinari effetti pianistici, (come passaggi virtuosistici e simili), ma ordinava la struttura del pezzo nella sua semplice grandiosità; in modo che l'esecutore deve sforzarsi grandemente di dare a ciascun pensiero, come a ciascuna nota, il suo pieno significato.» È davvero un chiaro segno premonitore del nuovo raffinato mondo interiore che stava per pervadere la sua musica, che potremmo sintetizzare (in termini semplici, ma speriamo non banali) come "astratto", "trascendente", "fuori dal tempo". È notevole quanto rapidamente tante caratteristiche dello "stile tardo" emergono in questo pezzo: se si dovesse precisare quale sia stata la prima composizione di Beethoven nello stile tardo (ovviamente, con una pericolosa semplificazione), sarebbe da citare sicuramente questa sonata, innovativa e profetica.
Una analisi attenta della partitura manifesta l'affermarsi di un nuovo uso della polifonia, che diventa elemento strutturale: rinunciando ad una scrittura rigorosa in stile fugato, Beethoven costruisce però un tessuto sonoro nel quale le parti inferiori hanno un interesse motivico assai rilevante: un trattamento libero che sicuramente guarda alla texture della tanto ammirata musica di Bach. Questa caratteristica si evidenzia già alla terza battuta dove, dopo una pregevole apertura del violoncello solo, una sezione del tema riappare nel basso della parte di pianoforte, simultaneamente all'esposizione di un nuovo controcanto all'acuto. Anche dove le figurazioni sono decorative più che motiviche, c'è una evidente volontà di cesello, ottenuta impiegando materiali complessi e spesso audacemente irregolari; e non di rado accade, come in molte delle ultime opere di Beethoven, che alcune figurazioni inserite a puro scopo decorativo vengano poi riprese con rilevanza motivica. La limpidezza della direzione armonica è a tratti sapientemente "rabbuiata" e vi è un uso non convenzionale di accordi di quarta e sesta.
Un'altra importante innovazione è costituita dalla macro-struttura della sonata. Come le tre precedenti sonate per violoncello anche questa non ha un vero e proprio movimento lento, ma questa volta i due Allegri principali sono preceduti da introduzioni lente, rispettivamente definite Andante e Adagio. Il materiale dell'Andante iniziale è richiamato fra l'Adagio centrale e il secondo Allegro. Questa nuova idea strutturale riapparirà nella seguente sonata per pianoforte (op. 101) e nuovamente nella Nona Sinfonia (nella quale tutti e tre i movimenti precedenti sono rievocati poco prima dell'inizio del finale). La struttura della Sonata in do maggiore è per Beethoven un banco di prova: se da un lato pare quasi accentuata la frammentazione fra i movimenti, dall'altro una attenzione alla continuità motivica fra le diverse sezioni controbilancia tale carenza strutturale.
Come in altri lavori tardi Beethoven esplora anche qui il concetto di diretto contrasto fra idee diametralmente opposte. L'introduzione lenta in do maggiore incomincia con un tema discendente per grado congiunto dalla tonica alla dominante che poi ritorna indietro; il seguente Allegro è inaspettatamente alla relativa minore e il suo tema principale ascende per grado congiunto dalla tonica alla dominante e ritorna indietro, fornendo un diretto contrasto tonale e melodico con l'introduzione. A volte Beethoven amava riconciliare le due idee opposte più avanti nella composizione, e qui lo fa accuratamente. Nel secondo Allegro la tonalità è quella dell'Andante iniziale, ma il ritmo binario e la forma ascendente e poi discendente del tema principale richiama il primo Allegro. Così le idee contrastanti presentate nel primo movimento sono in qualche modo fuse insieme nel finale, con un livello altissimo di variazione motivica.

Il XX°secolo musicale ungherese si inquadra tra Bartók e Kodály, da una parte, e Kurtág e Ligeti, dall'altra. Se Kodály nelle opere della maturità, dopo aver attraversato una stagione creativa di estrema libertà, ritorna ad una concezione tonale e ritmica più regolare, meritandosi - senza cercarlo - l'apprezzamento del regime comunista al potere dal 1949, la musica di Bartók nello stesso periodo veniva messa all'indice, mentre György Ligeti, piuttosto che unirsi a una caterva di epigoni, preferì l'esilio, a Vienna, in seguito alla rivoluzione ungherese del 1956; e altrettanto fece György Kurtág, che si rifugiò a Parigi.

 

György Ligeti Sonata per violoncello solo

Per la sua condizione di ebreo ungherese, dopo essere sopravvissuto agli orrori dell'internamento e dei lavori forzati durante la Seconda Mondiale (suo padre e suo fratello perirono ad Auschwitz), György Ligeti si trovò a vivere, dapprima come studente, poi da insegnante al Conservatorio di Budapest, i primi tragici anni del regime comunista ungherese controllato dai sovietici, fino alla sua fuga in occidente dopo l'insurrezione del 1956. Ricorda Ligeti: «Nel 1948 tutta la musica contemporanea era proibita in Ungheria, non solo Schoenberg, Berg, Webern e Stravinsky, ma anche Britten e Milhaud. Bartok era permesso solo in parte: i suoi lavori dissonanti erano proibiti, mentre erano permessi i suoi arrangiamenti delle canzoni popolari. Siccome il mio cuore "batteva a sinistra" (se non altro per il mio orrore per il nazismo) cercai di trovare un compromesso. Le autorità permisero che la Sonata per violoncello fosse registrata per la radio pubblica (fu trasmessa solo una volta); non poteva però essere eseguita in concerto a causa del secondo movimento che veniva giudicato formalista».
Le opere di Ligeti che precedono la sua fuga a Vienna sono un corpus rilevante: 74 opere, secondo il catalogo stilato da Ode Nordwall. Per lo più inedite e raramente eseguite fino a pochi anni or sono (la sonata per violoncello rimase ineseguita fino al 1983), stanno vivendo una vera e propria stagione di riscoperta. Si tratta di lavori la cui emarginazione fu quasi dettata dalla radicale svolta linguistica che Ligeti impresse alla sua musica dopo l'arrivo in terra tedesca. Pur tuttavia oggi ci si rende conto che il cliché che lega questi lavori ad una (del resto innegabile) "matrice bartokiana" ha di fatto impedito una loro analisi più attenta. Ligeti stesso afferma: «verso il 1950 giunsi alla conclusione che tutto ciò restava comunque sterile; perché mai avrei dovuto con venti o trent'anni di ritardo cercare di sviluppare uno stile le cui virtualità risultavano già esaurite. [...] Così cominciai a formarmi le prime idee di una musica statica e decisi di conseguenza di non lavorare più sull'armonia e sulla melodia, ma di cercare una sonorità neutra, qualcosa di intermedio tra il suono e il fruscio. [...] Tali intuizioni incontrarono un ostacolo nel fatto che non riuscivo a liberarmi della scansione metrica per battute. Le superfici sonore statiche nei primi schizzi buttati giù a Budapest erano ancora compresse entro uno schema metrico tradizionale.» Queste dichiarazioni ci dimostrano che il brano con cui Ligeti venne alla ribalta internazionale, Atmosphères (diretto in prima esecuzione da Hans Rosbaud e replicato in seguito all'entusiasmo del pubblico) aveva avuto diversi anni di gestazione in Ungheria; lo sforzo di immaginazione e le utopie coltivate con tanto fervore in quegli anni di isolamento costituivano una cornice nella quale le nuove acquisizioni - voracemente fagocitate in pochi anni di studio accanito dopo l'arrivo in Germania - avevano trovato fertile sviluppo.
La Sonata per violoncello del 1953 (dedicata al suo amico e biografo, il musicologo svedese Ove Nordwall), oggi molto amata dai violoncellisti, rivela una straordinaria vitalità tipica dei periodi di transizione creativa e di ricerca: anche perché Ligeti nutrì sempre una speciale affezione il violoncello, l'unico strumento ad arco che non studiò "istituzionalmente". Il primo movimento di quest'opera è basato su un brano, Dialogue, composto cinque anni prima per una giovane violoncellista dell'Accademia di Musica da lui amata. Nonostante trascorrano cinque anni tra la composizione dei due movimenti di cui si compone la sonata, Ligeti decise di assemblarli in un lavoro dalla tessitura più complessa opponendo al primo movimento, basato su un canto popolare ungherese, un secondo movimento nel quale materiali vengono sottoposti ad un processo, si potrebbe dire quasi dire, di triturazione.
Il primo movimento, titolato appunto Dialogue, inizia con accordi pizzicati glissati su tre corde, sviluppando una tecnica usata negli ultimi quartetti per archi di Bartók. La sezione introduttiva è seguita da una bella melodia che richiama lo stile maturo di Kodály e che verrà sapientemente sfruttata in ambedue i movimenti del lavoro. Il materiale dell'introduzione non verrà però del tutto trascurato nel prosieguo dell'opera e due accordi pizzicati glissati serviranno come segnale di arresto delle reiterazioni melodiche. In Dialogue la melodia viene rielaborata con una contenuta ornamentazione e un fastoso sviluppo improvvisativo; nel secondo movimento, Capriccio, la musica si snoda in minuziose sequenze di semicrome di grande difficoltà esecutiva, che attraversano energicamente i vari registri dello strumento. Nel Capriccio sono rilevabili riapparizioni di brevi frammenti della melanconica melodia del Dialogo ma solo una volta, circa a metà del movimento, l'autore permette al nucleo melodico originale di emergere nella sua completezza, con una vena di naïveté (quasi di timidezza), per subito venir re-inghiottito in un singhiozzante pizzicato, prima di essere travolto dall'inarrestabile torrente virtuosistico: la struttura procede attraverso un rapido sviluppo tematico, tanto da sembrare scritto pensando ai Capricci di Paganini. L'opera, pur godendo in superficie di un edonismo melodico di estrazione romantica, è carica di originalità e spirito di ricerca.

 

György Kurtág Az hit, Pilinszky János: Gérard de Nerval, In memoriam Aczèl György, Árnyak

Per György Kurtág, al quale Sándor Veress, suo maestro, aveva avuto il tempo di far conoscere Bartók prima di lasciare il paese, saranno la scoperta di Webern e le discussioni con la psicologa Marianne Stein, durante l'esilio parigino, a rivelare un tratto fondamentale della sua arte, quella concisione aforistica testimoniata fin dal 1961 dalla serie di Jelek (Segni) per viola o violoncello. Negli anni Settanta, sull'esempio di Marcel Duchamp e del poeta ungherese Dezsô Tandor, egli sviluppò in musica il concetto di "oggetto trovato": una parola, un frammento musicale, oggetti fabbricati o presi da poeti e musicisti, che permettono di varcare la soglia tra il silenzio e la musica più ellittica. In Jatékók (Giochi) per pianoforte, vi è un impiego ludico di questa tecnica compositiva; due decenni dopo, questo principio generatore ritorna, venato di nostalgia e di interrogativi sulla morte nell'altra serie di pezzi, Jelek, jatékók és üzenatek (Sogni, giochi e messaggi), dove compaiono le opere di questo programma. Un fugace profumo plana dall'aldilà su Árnyak (Ombre), concepito inizialmente per contrabbasso (1999) - la sordina metallica esaspera il senso di irrealtà derivante dal suo carattere cromatico. In memoriam Aczél György rende omaggio al grande ordinatore della politica culturale ungherese durante il breve governo di Kádar. Az Hit (La Fede) è l'adattamento strumentale di un pezzo per soprano e pianoforte, tratto da Dits de Péter Bornemisza, predicatore del Rinascimento - di cui esistono anche versioni per oboe e tromba soli. Nel 1974, il poeta János Pilinszky dedicava a Kurtág il suo Hölderlin, l'anno seguente, offrì al pianista Zoltán Kocsis la quartina Gérard de Nerval, che costituisce di per sé il fermento della pagina di Kurtág.

 

Sándor Veress Sonata per violoncello solo

Sándor Veress rappresenta l'anello mancante tra le due più importanti due visioni della musica ungherese: Bartók e Kodály, da una parte, Kurtág e Ligeti, dall'altra. Nel 1949 Veress lasciò l'Ungheria per la Svizzera, dove esercitò una notevole influenza sulla scuola locale. Bartók, suo insegnante, lo teneva in grande stima; Kurtág, che fu suo allievo proprio prima della partenza, confessa di dovergli molto. Un giudizio di stima, ma certamente severo viene dà Ligeti: «Lui aveva tutto quello che mancava a Farkas [di cui Ligeti fu anche a lungo allievo]. Veress era un uomo onesto al cento per cento, con un'etica personale incredibile. Un uomo coraggioso. Per questo lasciò l'Ungheria. Io lo adoravo. Farkas l'opportunista, era cento volte meglio come insegnante. Veress era un modello, ma non un buon professore. Il Contrappunto di Jeppesen, per esempio, lo studiò insieme ai suoi allievi.» Verso il 1950, nonostante il fascino subito dalla musica di Webern, Veress professò una totale libertà rispetto alla dodecafonia e restò sempre ancorato alla tradizione di Bartók, per quanto l'avesse interpretata fin dagli anni giovanili in termini assai personali.
Composta a Baltimora negli Stati Uniti nel 1967, la Sonata per violoncello solo è un esempio sorprendente di questa originale sintesi stilistica, a cui si aggiunge la sua crescente venerazione per Bach. Dopo un primo movimento, Dialogo, che corteggia la serie dei dodici suoni senza mai farla propria, Monologo fa riferimento al carattere delle musiche notturne di Bartók, affascinante e, nel contempo, desolato gioco sonoro. Ancora bartokiano il frenetico Epilogo, che conclude come in un soprassalto questa riflessione piuttosto pessimista sul linguaggio e sulla difficoltà di comunicare.

 

Iván Vandor Otto brevi pezzi

Iván Vandor, nato a Pécs, nel 1932, da una famiglia ebraica ungherese, si stabilì in Italia all'età di sei anni. Vale la pena di spendere qualche parola sulle tragiche vicende degli ebrei ungheresi che si sono trovati, nel giro di pochi anni (tra il 1918/1920) a veder distrutto ogni progetto di vita: una forte volontà di integrazione (iniziata già negli ultimi decenni dell'Ottocento) li aveva condotti ad adottare tutti la lingua del paese ospitante (abbandonando l'yiddish come lingua madre), acquisendone anche la cultura, le abitudini, i gusti; avevano sovente magiarizzato i loro nomi (Ivan Vandor, nacque con il nome Weisz), talora, avevano contratto matrimoni misti. A questa volontà d'integrazione (piuttosto rara nell'Europa Orientale) la popolazione magiara aveva risposto con un analogo spirito d'apertura, accettando la comunità ebraica e considerandola, a tutti gli effetti, come parte della comunità nazionale. Questo equilibrio si era rotto, dopo il crollo della Monarchia, negli anni 1918-20, a seguito del verificarsi di due eventi: il breve governo comunista di Béla Kun (ungherese della Transilvania di origini ebraiche che fu accusato di aver formato un governo in larga parte affidato a ebrei) e il trattato di pace di Trianon, che sottraeva all'Ungheria circa due terzi dei suoi territori, provocando una emigrazione di massa verso i pochi territori rimasti ungheresi e in particolare verso Budapest: il peso della crisi economica e della disoccupazione, in ragione della ricchezza e del prestigio di molte famiglie ebraiche ungheresi, fomentò nel ceto borghese pesanti sentimenti antisemiti. Negli anni '30, con il governo "pseudo fascista" del Reggente del Regno d'Ungheria, Miklós Horthy, a seguito di procedimenti abietti e crudeli nei confronti della popolazione ebraica ungherese (fu istituito ad esempio il numerus clausus nei confronti degli studenti universitari ebrei) l'Ungheria poteva ormai essere considerata una nazione accentuatamente antisemita in tutte le sue articolazioni sociali.
Anche Vandor ha seguito quello che sembra essere il destino di molti compositori ungheresi, dedicandosi all'etnomusicologia, seppure non si sia mai interessato alla musica popolare magiara. Fondamentali, invece, le sue ricerche sulle culture musicali extraeuropee, e in particolare sulla musica rituale dei monasteri tibetani. Ma i suoi interessi spaziano fino al Jazz e alla musica elettronica. Di questo musicista, che ha saputo arricchire le sue solide conoscenze sulla musica occidentale acquisite anche sotto l'alto magistero di Goffredo Petrassi, divenendo davvero poliedrico e scevro da pregiudizi eurocentrici, ascolteremo una prima assoluta, che il compositore stesso così presenta brevemente: «questa mia composizione per violoncello e pianoforte, chiestami da Aldo Orvieto per la nuova stagione dell'Ex Novo Ensemble e terminata questa primavera, fa seguito ad un periodo di lavori a carattere prevalentemente introverso e contemplativo (in parte documentati in un recente disco VDM Records). Nel caso di questi odierni "Brevi Pezzi", a quella contemplatività si aggiungono una maggiore discorsività ed a volte anche un elemento ludico. Volendo dare un qualche accenno sul loro carattere o sulla loro struttura formale, questi pezzi potrebbero avvantaggiarsi di sottotitoli quali " Ouverture - Calmo e scorrevole", "Sussurrato - veloce", "Introspettivo", "Canone a due voci (per violoncello solo)", "Impetuoso", "Pas de deux", "Melodia" e "Ricapitolazione". La composizione è dedicata ad Aldo Orvieto e Carlo Teodoro.»

(a cura di AO)